Saturday, December 13, 2008

La presunzione della conoscenza #2

Di Friedrich A. Hayek



Prima di continuare con la mia preoccupazione immediata, gli effetti di tutto questo sulle politiche occupazionali attualmente perseguite, mi permettono di definire più specificamente le inerenti limitazioni della nostra conoscenza numerica così spesso trascurate. Voglio far questo per evitare di dare l'impressione di rifiutare generalmente il metodo matematico nell'economia. Considero in effetti come il grande vantaggio della tecnica matematica il fatto che ci permetta di descrivere, per mezzo di equazioni algebriche, il carattere generale di una struttura di cui siamo ignari persino dei valori numerici che determineranno la sua particolare manifestazione. Potremmo a malapena aver ottenuto quella completa immagine delle interdipendenza reciproche dei diversi eventi in un mercato senza questa tecnica algebrica. Ha condotto all'illusione, tuttavia, che possiamo usare questa tecnica per la determinazione e la previsione dei valori numerici di quelle grandezze; e questo ha condotto ad un'inutile ricerca delle costanti quantitative o numeriche. Questo è accaduto malgrado il fatto che i moderni fondatori dell'economia matematica non avessero tali illusioni. È vero che i loro sistemi di equazioni che descrivono la struttura di un equilibrio del mercato sono tali che, se potessimo riempire tutti gli spazi vuoti delle formule astratte, ovvero, se conoscessimo tutti i parametri di queste equazioni, potremmo calcolare i prezzi e le quantità di tutti i prodotti e servizi venduti. Ma come Vilfredo Pareto, uno dei fondatori di questa teoria, dichiarò chiaramente, il suo scopo non può essere di “arrivare ad un calcolo numerico dei prezzi,” perché, disse, sarebbe “irragionevole” supporre che potremmo accertare tutti i dati. [4] Effettivamente, il punto principale era già stato visto da quei notevoli precursori dell'economia moderna, gli scolastici spagnoli del XVI secolo, che enfatizzarono ciò che denominarono pretium mathematicum, il prezzo matematico, dipendente da tante circostanze particolari da non poter mai essere conosciuto dall'uomo ma solo da Dio. [5] Talvolta vorrei che i nostri economisti matematici l'avessero tenuto in giusta considerazione. Devo confessare che ancora dubito che la loro ricerca delle grandezze misurabili abbia portato contributi significativi alla nostra comprensione teorica dei fenomeni economici – a differenza del loro valore come descrizione di situazioni particolari. Né sono preparato ad accettare la giustificazione che questo ramo della ricerca sia ancora molto giovane: sir William Petty, il fondatore dell'econometria, era dopo tutto in qualche modo un collega anziano di sir Isaac Newton nella Royal Society!

Ci possono essere pochi casi in cui la superstizione che soltanto le grandezze misurabili possano essere importanti ha arrecato danni positivi nel campo economico: ma i problemi attuali dell'occupazione e dell'inflazione sono molto gravi. Il loro effetto è stato che quella che probabilmente è la vera causa della vasta disoccupazione è stata trascurata dalla maggior parte degli economisti scientisticamente orientati, perché le sue operazioni non possono essere confermate da rapporti direttamente osservabili fra grandezze misurabili, e che una concentrazione quasi esclusiva su fenomeni superficiali quantitativamente misurabili ha prodotto una politica che ha peggiorato il problema.

Bisogna, è naturale, ammettere prontamente che il genere di teoria che considero come la vera spiegazione della disoccupazione è una teoria dal contenuto piuttosto limitato perché ci permette di fare solo previsioni molto generali del tipo di eventi che ci dobbiamo attendere in una situazione data. Ma gli effetti sulla politica delle costruzioni più ambiziose non sono stati molto fortunati e confesso che preferisco la conoscenza vera ma imperfetta, anche se lascia molte cose indeterminate ed imprevedibili, ad una pretesa di conoscenza esatta che è probabile che sia falsa. Il credito che la conformità apparente con gli standard scientifici riconosciuti può ottenere per teorie apparentemente semplici ma false può avere, come il caso attuale mostra, gravi conseguenze.

Infatti, nel caso discusso, le stesse misure che la teoria “macroeconomica” dominante ha suggerito come rimedio per la disoccupazione – vale a dire, l'aumento della domanda aggregata – sono diventate la causa di una vastissima cattiva allocazione delle risorse che è probabile che renda inevitabile una successiva disoccupazione su grande scala. L'iniezione continua di somme di denaro supplementari in punti del sistema economico in cui genera una domanda provvisoria che dovrà cessare quando l'aumento della quantità di moneta si arresta o rallenta, insieme all'aspettativa di un continuo aumento dei prezzi, attira forza lavoro ed altre risorse in occupazioni che possono durare soltanto a condizione che l'aumento della quantità di moneta continui allo stesso tasso – o forse persino solo a condizione che continui ad accelerare ad un tasso dato. Quello che questa politica ha prodotto non è tanto un livello di occupazione che non avrebbe potuto essere determinato in altri modi, quanto una distribuzione dell'occupazione che non può essere mantenuta indefinitamente e che dopo un certo lasso di tempo può essere mantenuta soltanto da un tasso di inflazione che condurrebbe velocemente alla disorganizzazione di ogni attività economica. Il fatto è che per un'errata visione teorica siamo stati condotti in una posizione rischiosa in cui non possiamo impedire ad una sostanziale disoccupazione di riapparire; non perché, come è talvolta fraintesa questa visione, questa disoccupazione è determinata deliberatamente come mezzo per combattere l'inflazione, ma perché ora è destinata ad accadere come conseguenza profondamente spiacevole ma inevitabile delle politiche erronee del passato non appena l'inflazione cessa di accelerare.

Devo, tuttavia, lasciare ora questi problemi di importanza pratica immediata che ho introdotto principalmente a titolo illustrativo delle conseguenze di grande rilievo che possono seguire dagli errori riguardanti problemi astratti della filosofia della scienza. Ci sono altrettanti motivi per essere consci dei pericoli di lungo termine generati in un campo molto più largo dall'accettazione acritica di asserzioni che hanno l'apparenza di essere scientifiche di quanti ce ne siano riguardo ai problemi che ho appena discusso. Ciò che principalmente ho voluto mettere in evidenza tramite l'illustrazione dell'attualità è che certamente nel mio campo, ma credo anche generalmente nelle scienze umane, quella che appare superficialmente come la procedura più scientifica è spesso la meno scientifica e, oltre questo, che in questi campi ci sono dei limiti definiti a ciò che possiamo attenderci che la scienza realizzi. Questo significa che affidare alla scienza – o al controllo intenzionale secondo i principi scientifici – qualcosa di più di ciò che il metodo scientifico può realizzare può avere effetti deplorevoli. Il progresso delle scienze naturali nei tempi moderni naturalmente ha talmente superato tutte le aspettative che qualsiasi suggerimento che possa avere dei limiti è destinato a destare il sospetto. Resisteranno ad una tale idea specialmente tutti quelli che hanno sperato che il nostro crescente potere di previsione e controllo, generalmente considerato il risultato caratteristico del progresso scientifico, applicato ai processi della società, ci avrebbe presto permesso di modellare l'intera società a nostro piacere. È effettivamente vero che, contrariamente all'entusiasmo che le scoperte delle scienze fisiche tendono a produrre, la comprensione che otteniamo dallo studio della società ha più spesso l'effetto di smorzare le nostre aspirazioni; ed è forse non sorprendente che i più giovani e più impetuosi membri della nostra professione non sono sempre preparati accettarlo. Tuttavia la fiducia nel potere illimitato della scienza è solo basata troppo spesso sulla falsa credenza che il metodo scientifico consista nell'applicazione di una tecnica pronta, o nell'imitazione della forma piuttosto che della sostanza della procedura scientifica, come se bastasse soltanto seguire alcune ricette di cucina per risolvere tutti i problemi sociali. A volte sembra quasi che le tecniche della scienza siano state imparate più facilmente del pensiero che ci mostra quali sono i problemi e come affrontarli.

Il conflitto fra ciò che il pubblico nel suo umore attuale si aspetta che la scienza realizzi per soddisfare delle speranze popolari e ciò che è realmente in suo potere è una questione seria perché, anche se i veri scienziati riconoscessero tutti le limitazioni di quel che possono fare nel campo degli affari umani, finché il pubblico si aspetterà di più ci sarà sempre qualcuno che fingerà, e forse onestamente crederà, di poter fare di più per rispondere alle esigenze popolari di quanto sia realmente in suo potere. È spesso abbastanza difficile per l'esperto, e certamente in molti casi impossibile per il profano, distinguere fra pretese legittime ed illegittime avanzate nel nome della scienza. L'enorme pubblicità recentemente fatta dai media ad un rapporto che si pronuncia in nome della scienza su I limiti alla crescita ed il silenzio degli stessi media sulla critica devastante che questo rapporto ha ricevuto dagli esperti competenti, [6] deve renderci in qualche modo prudenti circa l'uso che può esser fatto del prestigio della scienza. Ma non è affatto soltanto nel campo dell'economia che sono stati lanciati proclami esagerati a nome di una direzione più scientifica di tutte le attività umane e dell'opportunità di sostituire dei processi spontanei con il “controllo umano cosciente.” Se non mi sbaglio, la psicologia, la psichiatria ed alcuni rami della sociologia, per non parlare della cosiddetta filosofia della storia, sono ancor più influenzate da quello che ho chiamato il pregiudizio scientistico e dai proclami speciosi di ciò che la scienza può realizzare. [7]

Se dobbiamo salvaguardare la reputazione della scienza ed impedire l'arrogarsi di conoscenza basata su una somiglianza superficiale della procedura con quella delle scienze fisiche, un grande sforzo dovrà essere orientato verso la confutazione di tali pretese, alcune delle quali sono ormai diventate interessi acquisiti di sezioni di università riconosciute. Non possiamo essere abbastanza riconoscenti a moderni filosofi della scienza come sir Karl Popper per darci un test con cui possiamo distinguere fra cosa possiamo accettare come scientifico e cosa no – un test che sono sicuro alcune dottrine ora ampiamente accettate come scientifiche non passerebbero. Ci sono alcuni particolari problemi, tuttavia, in relazione a quei fenomeni essenzialmente complessi di cui le strutture sociali sono un caso così importante, che mi fanno desiderare di riaffermare in conclusione in termini più generali le ragioni per le quali in questi campi non soltanto ci sono solo ostacoli assoluti per la previsione di eventi specifici, ma perché comportarsi come se possedessimo la conoscenza scientifica che ci permetterebbe di oltrepassarli può in sé diventare un serio ostacolo al progresso dell'intelletto umano.

Il punto principale che dobbiamo ricordare è che il grande e rapido progresso delle scienze fisiche è avvenuto in campi in cui ha dimostrato che la spiegazione e la previsione possono basarsi su leggi che spiegano i fenomeni osservati come funzioni di comparativamente poche variabili – sia fatti particolari che frequenze relative degli eventi. Questa può persino essere l'ultima ragione per la quale scegliamo questi regni come “fisici” in contrasto con quelle strutture più altamente organizzate che qui ho denominato fenomeni essenzialmente complessi. Non c'è ragione per la quale la posizione deve essere la stessa in questi ultimi come nei primi campi. Le difficoltà che incontriamo negli ultimi non sono, come uno potrebbe inizialmente sospettare, difficoltà di formulare teorie per la spiegazione degli eventi osservati – anche se questi causano anche speciali difficoltà nel verificare le spiegazioni proposte e quindi nell'eliminazione delle teorie difettose. Sono dovuto al problema principale che si presenta quando applichiamo le nostre teorie a qualsiasi situazione particolare nel mondo reale.

Una teoria dei fenomeni essenzialmente complessi deve riferirsi ad un largo numero di fatti particolari; e per derivarne una previsione, o per verificarla, dobbiamo accertare tutti questi fatti particolari. Una volta che riuscissimo a far questo non ci dovrebbero essere particolari difficoltà per derivare delle previsioni verificabili – per mezzo dei calcolatori moderni dovrebbe essere abbastanza facile inserire questi dati negli appropriati spazi vuoti delle formule teoriche e derivarne una previsione. La difficoltà reale, alla soluzione di cui la scienza ha poco da contribuire, e che talvolta è effettivamente insolubile, consiste nella constatazione dei fatti particolari.

Un semplice esempio mostrerà la natura di questa difficoltà. Considerate un certo gioco di pallone giocato da poche persone di abilità approssimativamente uguale. Se conoscessimo alcuni fatti particolari oltre alla nostra generale conoscenza dell'abilità di diversi giocatori, come la loro condizione di attenzione, le loro percezioni e la condizione dei loro cuori, polmoni, muscoli, ecc. ad ogni momento del gioco, potremmo probabilmente predire il risultato. Effettivamente, se fossimo familiari sia con il gioco che con le squadre dovremmo probabilmente avere un'idea ragionevolmente sagace su cosa dipenderà il risultato. Ma naturalmente non potremo accertare quei fatti e di conseguenza il risultato del gioco sarà fuori della gamma scientifica del prevedibile, per quanto bene possiamo sapere che effetti avrebbero sul risultato del gioco gli eventi particolari. Ciò non significa che non possiamo fare alcuna previsione sul corso di un simile gioco. Se conosciamo le regole dei giochi differenti potremmo molto presto sapere, guardandone uno, quale gioco si sta giocando e che tipo di azioni possiamo prevedere e che tipo no. Ma la nostra capacità di predire sarà limitata a tali caratteristiche generali degli eventi da prevedere e non comprende la capacità di predire singoli eventi particolari.

Questo corrisponde a ciò che ho denominato prima semplici previsioni strutturali a cui sempre più siamo limitati nel passare dal regno in cui leggi relativamente semplici prevalgono alla gamma dei fenomeni dove regna la complessità organizzata. Mentre avanziamo, troviamo sempre più frequentemente che possiamo in effetti accertare soltanto alcune ma non tutte le circostanze particolari che determinano il risultato di un processo dato; e di conseguenza possiamo predire soltanto qualcuna ma non tutte le proprietà del risultato che dobbiamo prevedere. Spesso tutto ciò che potremo predire sarà qualche caratteristica astratta della struttura che apparirà – rapporti fra generi di elementi di cui conosciamo singolarmente pochissimo. Tuttavia, poiché sono ansioso di ripetermi, potremo ancora realizzare previsioni che possono essere falsificate e che quindi sono di importanza empirica.

Naturalmente, rispetto alle previsioni precise che abbiamo imparato ad aspettarci nelle scienze fisiche, questo tipo di semplici previsioni strutturali è una seconda scelta di cui non è piacevole accontentarsi. Tuttavia il pericolo di cui voglio avvertire è precisamente la credenza che per avere un'affermazione da accettare come scientifica è necessario realizzare di più. Questo è ciarlatanismo o peggio. Agire sulla convinzione di avere la conoscenza ed il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, è probabile che ci porti ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni alla ricerca di fare l'impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso perché i suoi esperimenti possono dopo tutto produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata che esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli è probabile conduca ad un nuovo potere di costringere altri uomini una volta ottenuta una certa autorità. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d'ordine spontaneo da cui, senza capirle, l'uomo è in effetti così grandemente aiutato nell'inseguimento dei suoi obiettivi. Stiamo soltanto cominciando a capire quanto sottile sia il sistema di comunicazione su cui è basato il funzionamento di una società industriale avanzata – un sistema di comunicazione che chiamiamo mercato e che risulta essere un meccanismo più efficiente per elaborare l'informazione dispersa di qualsiasi deliberatamente progettato dall'uomo.

Se l'uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l'ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permetterebbe la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l'artigiano modella i suoi oggetti, ma piuttosto per coltivare una crescita fornendo l'ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C'è un pericolo nell'esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l'uomo a provare, “ubriaco di successo,” per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a soggiogare non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano al controllo della volontà umana. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve effettivamente insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà che dovrebbe impedirgli di diventare stare un complice nel fatale tentativo degli uomini di controllare la società – un tentativo che lo rende non solo un tiranno dei suoi compagni, ma che può renderlo il distruttore di una civiltà che nessun cervello ha progettato ma che è nata dagli sforzi liberi di milioni di individui.
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Note


[4] V. Pareto, Manuel d'économie politique, 2nd. ed., Paris 1927, pp. 223–4.

[5] Vedi, per esempio, Luis Molina, De iustitia et iure, Cologne 1596–1600, tom. II, disp. 347, no. 3, e specialmente Johannes de Lugo, Disputationum de iustitia et iure tomus secundus, Lyon 1642, disp. 26, sect. 4, no. 40.

[6] Vedi The Limits to Growth: A Report of the Club of Rome's Project on the Predicament of Mankind, New York 1972; per un esame sistematico di questo da un economista competente, cf. Wilfred Beckerman, In Defence of Economic Growth, London 1974, e, per una lista delle prime critiche degli esperti, Gottfried Haberler, Economic Growth and Stability, Los Angeles 1974, che chiama giustamente il loro effetto “devastante.”

[7] Ho dato alcune illustrazioni di queste tendenze in altri campi nella mia conferenza inaugurale come professore in visita all'università di Salisburgo, Die Irrtümer des Konstruktivismus und die Grundlagen legitimer Kritik gesellschaftlicher Gebilde, Munich 1970, ora ristampata per il Walter Eucken Institute, a Freiburg i.Brg. by J.C.B. Mohr, Tübingen 1975.

Friday, December 12, 2008

La presunzione della conoscenza #1

Questo discorso di Hayek alla memoria di Alfred Nobel dell'11 dicembre 1974 è coperto dal copyright della Nobel Foundation, ma veramente non ho potuto fare a meno di tradurla (copiatevela quindi al più presto, non si sa mai) perché oltre ad essere una elegante e attualissima trattazione su inflazione e disoccupazione, i principali mali economici che ancor oggi ci affliggono, è una potente lezione sui limiti della conoscenza umana, sulla presunzione di chi, in nome della scienza e del progresso, pretende di superarli, e sui pericoli che questo atteggiamento comporta.

Una grande lezione di umanità e umiltà, da parte di una delle menti più luminose del nostro secolo e non solo.

In due parti, questa è la prima.
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Di Friedrich A. Hayek


L'occasione particolare di questa conferenza, insieme al principale problema pratico che gli economisti devono affrontare oggi, ha reso la scelta del suo soggetto quasi inevitabile. Da una parte l'ancora recente istituzione del premio Nobel per la Scienza Economica segna un punto significativo nel processo tramite cui, nell'opinione del grande pubblico, all'economia è stata concessa parte della dignità e del prestigio delle scienze fisiche. D'altra parte, gli economisti sono in questo momento chiamati a dire come districare il mondo libero dalla grave minaccia dell'inflazione sempre più veloce determinata, bisogna ammetterlo, dalle politiche che la maggior parte degli economisti hanno suggerito e perfino invitato i governi a perseguire. Abbiamo effettivamente al momento pochi motivi per essere orgogliosi: come professione noi abbiamo fatto un gran pasticcio.

Pare a me che questo fallimento degli economisti nel guidare positivamente la politica sia strettamente collegata con la loro tendenza ad imitare quanto più rigorosamente possibile le procedure delle scienze fisiche così di successo – un tentativo che nel nostro campo può condurre all'errore fatale. È un approccio che è stato descritto come attitudine “ scientistica” – un'attitudine che, come la definii circa trent'anni fa, “è decisamente non scientifico nel senso vero della parola, poiché prevede un'applicazione meccanica e non critica delle abitudini di pensiero a campi differenti da quelli in cui sono stati formati.” [1] Voglio oggi cominciare spiegando come alcuni degli errori più gravi della recente politica economica sono una conseguenza diretta di questo errore scientistico.

La teoria che sta guidando la politica monetaria e finanziaria negli ultimi trent'anni, e che io contesto, è in gran parte il prodotto di tale concezione erronea dell'adeguata procedura scientifica, consiste nell'asserzione che esista una semplice correlazione positiva fra la piena occupazione e la dimensione della domanda aggregata di beni e servizi; conduce alla convinzione che possiamo permanentemente assicurare la piena occupazione mantenendo la spesa totale di moneta ad un livello appropriato. Fra le varie teorie avanzate per spiegare l'ampia disoccupazione, questa è probabilmente l'unica a sostegno di cui una forte evidenza quantitativa possa essere addotta. Tuttavia io la considero fondamentalmente falsa, e l'agire sulla sua base, come sperimentiamo oggi, molto dannoso.

Questo ci porta alla questione cruciale. Diversamente della posizione che esiste nelle scienze fisiche, nell'economia ed in altre discipline che si occupano di fenomeni essenzialmente complessi, gli aspetti degli eventi da spiegare di cui possiamo ottenere dati quantitativi sono necessariamente limitati e possono non includere quelli importanti. Mentre nelle scienze fisiche si assume generalmente, probabilmente a buona ragione, che ogni fattore importante che determina gli eventi osservati può essere a sua volta direttamente osservabile e misurabile, nello studio di tali fenomeni complessi come il mercato, che dipendono dalle azioni di molti individui, tutte le circostanze che determineranno il risultato di un processo, per i motivi che spiegherò più avanti, difficilmente potranno mai essere completamente conosciute o misurabili. E mentre nelle scienze fisiche il ricercatore potrà misurare ciò che, sulla base di una teoria prima facie, considera importante, nelle scienze sociali spesso è trattato come importante ciò che è accessibile alla misurazione. Questo fatto a volte è portato al punto in cui si richiede che le nostre teorie debbano essere formulate in termini che fanno riferimento soltanto a grandezze misurabili.

Difficilmente si può negare che una tale richiesta limita del tutto arbitrariamente i fatti che devono essere ammessi come cause possibili degli eventi che si presentano nel mondo reale. Questa visione, accettata spesso abbastanza ingenuamente come richiesta dalle esigenze della procedura scientifica, ha alcune conseguenze piuttosto paradossali. Sappiamo, naturalmente, riguardo al mercato ed a simili strutture sociali, una grande quantità di fatti che non possiamo misurare e sui quali in effetti abbiamo soltanto alcune informazioni generali e molto imprecise. E poiché gli effetti di questi fatti in nessun caso particolare possono essere confermati dalla prova quantitativa, sono semplicemente trascurati da chi è votato ad ammettere soltanto ciò che considera prova scientifica: subito dopo procedono felicemente fingendo che i fattori che possono misurare siano gli unici rilevanti.

La correlazione fra la domanda aggregata e la piena occupazione, per esempio, può solo essere approssimativa, ma poiché è l'unica su cui abbiamo dati quantitativi, è accettata come l'unico collegamento causale che conta. Su questo standard può quindi ben esistere una migliore prova “scientifica” per una falsa teoria, che sarà accettata perché è più “scientifica,” che per una spiegazione valida, rifiutata perché non c'è prova quantitativa sufficiente per essa.

Lasciate che ve lo illustri con un breve abbozzo di ciò che considero la principale causa reale della vasta disoccupazione – un'esposizione che inoltre spiegherà perché tale disoccupazione non può essere curata durevolmente dalle politiche inflazionistiche suggerite dalla teoria oggi alla moda. Questa corretta spiegazione mi sembra che sia l'esistenza delle discrepanze fra la distribuzione della domanda fra i diversi beni e servizi e la ripartizione della forza lavoro e di altre risorse fra queste produzioni. Possediamo una conoscenza “qualitativa” ragionevolmente buona delle forze da cui è determinata una corrispondenza fra l'offerta e domanda nei diversi settori del sistema economico, delle circostanze sotto cui sarà realizzata, e dei probabili fattori che impediranno una tale sistemazione. I passi separati nella spiegazione di questo processo poggiano su fatti di esperienza quotidiana, e pochi tra quelli che si prenderanno il disturbo di seguire la discussione metteranno in discussione la validità degli assunti fattuali, o la correttezza logica delle conclusioni da essi ricavate. Abbiamo effettivamente buona ragione di credere che la disoccupazione indichi che la struttura dei prezzi e degli stipendi relativi è stata distorta (solitamente dal controllo dei prezzi monopolistico o governativo) e che per ristabilire uguaglianza fra la domanda e l'offerta di forza lavoro in tutti i settori siano necessari un cambiamento dei prezzi relativi ed alcuni trasferimenti di forza lavoro.

Ma quando ci viene richiesta una prova quantitativa per la particolare struttura dei prezzi e degli stipendi che sarebbero richiesti per assicurare una vendita continua e regolare dei prodotti e dei servizi offerti, dobbiamo ammettere che non abbiamo tali informazioni. Sappiamo, in altre parole, le condizioni generali in cui ciò che chiamiamo, per certi versi ingannevolmente, un equilibrio, verrà ristabilito; ma non sappiamo mai quali sarebbero i particolari prezzi o stipendi che esisterebbero se nel mercato si verificasse un tale equilibrio. Possiamo soltanto dire quali sono le circostanze nelle quali possiamo attenderci che il mercato stabilisca prezzi e stipendi con cui la domanda uguaglierà l'offerta. Ma non potremo mai produrre informazioni statistiche che mostrino quanto i prezzi e gli stipendi prevalenti deviano da quelli che assicurerebbero una vendita continua dell'attuale offerta di forza lavoro. Benché questa spiegazione delle cause della disoccupazione sia una teoria empirica – nel senso che non potrebbe essere provata falsa, per esempio se, con una massa monetaria costante, un aumento generale degli stipendi non conducesse a disoccupazione – non è certamente il genere di teoria che potremmo usare per ottenere previsioni numeriche specifiche riguardo ai tassi salariali, o la distribuzione del lavoro, che ci si aspettano.

Perché dovremmo, tuttavia, in economia, invocare l'ignoranza del genere di fatti su cui, nel caso di una teoria fisica, ci si aspetterebbe certamente che uno scienziato fornisca informazioni precise? Probabilmente non sorprende che chi sia impressionato dall'esempio delle scienze fisiche troverebbe questa posizione molto insoddisfacente e insisterebbe sugli standard di prova che trovano in esse. Il motivo per questa situazione è il fatto, a cui già ho fatto un breve riferimento, che le scienze sociali, come molta della biologia ma diversamente della maggior parte dei campi delle scienze fisiche, devono occuparsi di strutture di complessità essenziale, vale a dire, con strutture le cui proprietà caratteristiche possono essere esibite soltanto da modelli composti di un numero di variabili relativamente ampio. La concorrenza, per esempio, è un processo che porterà determinati risultati soltanto se procede in un numero ragionevolmente grande di agenti.

In alcuni campi, specialmente dove problemi di tipo simile si presentano nelle scienze fisiche, le difficoltà possono essere superate usando, anziché informazioni specifiche sui diversi elementi, dati sulla frequenza relativa, o la probabilità, dell'occorrenza di varie proprietà distintive degli elementi. Ma questo è vero soltanto dove dobbiamo occuparci di quelli che il dott. Warren Weaver (in precedenza della Fondazione Rockefeller) ha chiamato, con una distinzione che dovrebbe essere molto meglio compresa, “fenomeni di complessità disorganizzata,” in contrasto a quei “fenomeni di complessità organizzata” con i quali ci dobbiamo confrontare nelle scienze sociali. [2]

La complessità organizzata qui significa che il carattere delle strutture che la espongono dipende non solo dalle proprietà di diversi elementi di cui sono composte e dalla frequenza relativa con cui si presentano, ma anche dal modo in cui i diversi elementi sono collegati tra loro. Nella spiegazione del funzionamento di tali strutture non possiamo per questo motivo sostituire le informazioni sui diversi elementi con informazioni statistiche, ma necessitiamo delle informazioni complete su ogni elemento se dalla nostra teoria dobbiamo derivare previsioni specifiche su eventi separati. Senza tali informazioni specifiche sui diversi elementi saremo limitati a ciò che in un'altra occasione ho chiamato semplici previsioni della struttura – previsioni di alcuni degli attributi generali delle strutture che si formeranno, ma non contenenti specifiche dichiarazioni circa i diversi elementi di cui le strutture si comporranno. [3]

Ciò è particolarmente vero per le nostre teorie che spiegano la determinazione dei sistemi dei prezzi e degli stipendi relativi che si formeranno in un mercato ben funzionante. Nella determinazione di questi prezzi e stipendi entreranno gli effetti di informazioni particolari possedute da ciascuno dei partecipanti nel processo di mercato – una somma di fatti che nella loro totalità non possono essere conosciuti all'osservatore scientifico, o a qualunque altro singolo cervello. È in effetti la fonte della superiorità dell'ordine del mercato, e la ragione per cui, quando non è soppresso dai poteri del governo, rimuove regolarmente altri tipi di ordine, che nella risultante allocazione delle risorse sarà utilizzata la maggiore conoscenza dei fatti particolari che esiste soltanto dispersa fra innumerevoli persone, di quella che una sola persona può possedere. Ma poiché noi, gli scienziati che osservano, non potremo quindi mai conoscere tutti i fattori determinanti di un tale ordine, e di conseguenza neanche possiamo sapere a quale particolare struttura di prezzi e stipendi la domanda eguaglierebbe ovunque l'offerta, nemmeno possiamo misurare le deviazioni da quell'ordine; né possiamo verificare statisticamente la nostra teoria che sono le deviazioni da quel sistema di “equilibrio” di prezzi e stipendi che rende impossible vendere alcuni dei prodotti e dei servizi ai prezzi a cui sono offerti.
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Note


[1] “Scientism and the Study of Society,” Economica, vol. IX, no. 35, Agosto 1942, ristampato in The Counter-Revolution of Science, Glencoe, Ill., 1952, p. 15 di questo ristampa.

[2] Warren Weaver, "A Quarter Century in the Natural Sciences," The Rockefeller Foundation Annual Report 1958, capitolo I, “Science and Complexity.”

[3] Vedi il mio saggio “The Theory of Complex Phenomena” in The Critical Approach to Science and Philosophy: Essays in Honor of K.R. Popper, ed. M. Bunge, New York 1964, e ristampato (con le aggiunte) nel mio Studies in Philosophy, Politics and Economics, London and Chicago 1967.

Wednesday, December 10, 2008

Planet terror

“Government is an association of men who do violence to the rest of us.”
(Leo Tolstoy)
Io davvero mi chiedo per quanto dovremo andare avanti a farci prendere per i fondelli, quanto tempo ancora dovrà passare perché la gente apra finalmente gli occhi e accetti la realtà, e si renda conto che ciascuno di noi non è che un piccolo ingranaggio di una spaventosa macchina di morte e distruzione.

Che la ricchezza che ciascuno di noi ha contribuito a produrre viene progressivamente drenata dall'unica industria che prospera in un mondo in recessione, ed è l'industria delle armi, soprattutto quella legata ai grandi programmi di armamenti ad alta tecnologia necessari per le attività belliche degli stati. Scrive il Boston Globe:
La BAE sviluppa tecnologia in campi come la guerra elettronica e la cybersecurity, sistemi specializzati che sono la chiave a combattere una nuova ondata di minacce intorno al globo. In un anno in cui 1,7 milioni di posti di lavoro sono andati perduti negli Stati Uniti, l'azienda sta assumendo 200 tecnici ed operai a Nashua, Hudson e Merrimack nel New Hampshire e Burlington, Lexington e Marlborough nel Massachusetts.

Anche altri appaltatori di elettronica per la difesa, quali Raytheon Co. della Waltham e il centro a Taunton dei sistemi di comunicazione della General Dynamics Corp. continuano a prosperare. Tali aziende rimangono sommerse di ordini del Pentagono e di alleati dell'America sempre più preoccupati per il terrorismo e la proliferazione missilistica.
Tra questi alleati “preoccupati” c'è ovviamente, nel suo piccolo, l'Italia, che ha recentemente acquistato 4 aerei da guerra senza pilota (droni) per la modica cifra di 330 milioni di euro, mentre invia in Afghanistan 4 Tornado – al costo di oltre quattro milioni di euro al mese – ufficialmente con compiti di sorveglianza del territorio e di “acquisizione obiettivi” (ma, come nota il generale Mini, “gli aerei sotto controllo americano non hanno limiti operativi e i nostri cacciabombardieri saranno chiamati a ‘cacciabombardare’”). Tutto questo mentre ai pensionati con la minima il governo “regala” un cappuccino al giorno, per affrontare la crisi.

Del resto anche in Italia l'unico settore che pare non soffrire è quello degli armamenti. Alenia Aeronautica, per fare un esempio, ha stipulato un contratto da 287 milioni di dollari con la US Air Force per 18 aerei da trasporto tattico G222, anche questi destinati all'Afghanistan, là dove “Barrack” Obama ha già deciso di spedire altri 20.000 soldati nei prossimi 18 mesi. E lì, in quella zona di mondo ricca di tensioni, che il Pentagono ha individuato le migliori prospettive di profitto.

Ecco, io mi domando cos'altro sarà necessario, quando si conosca almeno in parte la vasta letteratura sulle operazioni “false-flag,” per capire il senso del sistema in cui viviamo. A cosa serviranno mai dei “servizi segreti” pagati con i nostri soldi ma delle cui operazioni nulla dobbiamo sapere? Ma neanche questo è del tutto vero. Perché talvolta qualche dettaglio sulle loro funzioni ce lo fanno sapere, per esempio sappiamo che il Proactive, Preemptive Operations Group (P2OG), organismo che riunisce la CIA ed altre agenzie segrete,
lancerebbe operazioni segrete puntate a “stimolare reazioni” fra terroristi e stati in possesso di armi di distruzione di massa – cioè per esempio, spingendo cellule terroriste all'azione per esporle ad attacchi a “risposta-rapida” delle forze USA.
Ovvero, tali organizzazioni segrete servono a accendere i focolai per spegnere i quali è giustificata la loro stessa esistenza nonché la necessità di dirottare sempre maggiori risorse verso l'industria della distruzione e della morte. Allora dovrebbe essere chiaro lo scopo ultimo della macchina statale, che non è di servire gli schiavi che la alimentano, non più di quanto l'aratro è al servizio del bue che lo trascina. Anche se la mano che lo nutre è la stessa che lo frusta, alla fine sarà anche quella che ne farà bistecche.

Some sort of cartel...

Dilbert.com

Tuesday, December 9, 2008

Το αίμα κυλάει, εκδίκηση ζητάει

“Il sangue scorre, vendetta vuole,” questo lo slogan scandito dagli studenti greci nelle tante manifestazioni seguite all'uccisione da parte di un poliziotto del quindicenne Alexi Grigoropoulos. Ma la vendetta, non potendo compiersi sull'assassino, colpisce tutto ciò che la massa trova a portata di mano, senza far distinzione tra stazioni di polizia e negozi di privati cittadini, assumendo l'inquietante aspetto di un'autopunizione.

È il trionfo del caos, pervicacemente voluto dal potere che da tempo lavorava proprio per questo, aumentando, senza validi motivi, la presenza della polizia nel quartiere più frequentato da studenti e a più alta densità antiautoritaria in attesa dell'inevitabile scintilla, che puntuale è arrivata, dando il via alla rabbia ed alla violenza distruttrice che covavano, figlie di un crescente disagio, sotto la calma apparente della normalità.

Si può pensare che tutto ciò sia l'involontario risultato di una serie di errori e di coincidenze, e in una certa misura sicuramente è così. Ma è necessario anche chiedersi per quale motivo si è voluta creare e rendere percepibile una tale spaccatura tra i cosiddetti tutori dell'ordine e gli studenti, i primi reclutati nelle campagne disagiate, i secondi spesso figli di famiglie privilegiate – come la giovane vittima – praticamente “costretti” allo scontro dopo averli ammucchiati nello stesso quartiere.

Obbligati a specchiarsi gli uni negli altri hanno scoperto di odiarsi: per lo sbirro l'invidia del mondo studentesco ovattato e gaudente, per lo studente il disprezzo per l'ignoranza dello sbirro, per la sua sottomissione, e insieme la rabbia per la sua impunità. Nel quadriennio 2003-2007, su 238 denunce a carico di agenti di polizia, solo una è risultata nell'espulsione dal corpo, mentre solo 127 casi sono giunti alla fase del processo, per solo due condanne. Questo non è un caso, ma il risultato di scelte politiche ben precise.

Il “manuale” massonico A Bridge to Light (pubblicato nel 1988 dal Supremo Consiglio del Rito Scozzese) ci ricorda della teoria di Albert Pike secondo cui le crisi e i disordini “renderanno possibile, ed alla fine realizzeranno, il Sacro Impero della vera Fratellanza Massonica.” Da cui il motto massonico “Ordo ab Chao,” l'ordine dal caos. Un nuovo ordine che dovrà nascere dal travaglio provocato dal precedente, e che sarà alfine invocato dai suoi stessi sudditi, inermi e sconvolti dal crollo del sistema, e pronti a cedere ogni residua libertà in cambio di pace e sicurezza.

Monday, December 8, 2008

«Do you think we imprison people on a whim?»

Ecco un film che ha ottenuto molta meno notorietà di quanta ne meritasse, molto probabilmente perché il sistema pervasivo di controllo della DDR che descrive è, ogni giorno di più, così simile a quello, presunto libero, in cui stiamo vivendo. Opprimente e amaro, Das Leben der Anderen (Le vite degli altri, '06) di Florian Henckel von Donnersmarck è una coinvolgente analisi del conflitto tra stato e individuo, che dovrebbe servire da monito su ciò che aspetta la società alla fine della strada collettivista. Consigliato vivamente.


Great Society: una critica libertaria #2

Di Murray N. Rothbard


Il corporativismo formale della NRA è finito da tempo, ma la Great Society mantiene molta della sua essenza. Il locus del potere sociale è enfaticamente assunto dall'apparato statale. Ancora, questo apparato sarà governato permanentemente da una coalizione della grande impresa e dal l'insieme dei grandi sindacati, gruppi che usano lo stato per operare e dirigere l'economia nazionale. L'usuale riconciliazione tripartita di grande impresa, grandi sindacati e grande governo simbolizza l'organizzazione della società per blocchi, enti e società, regolate e privilegiate dalla federazione, dallo stato e dai governi locali. Tutto ciò essenzialmente compone lo “stato corporativo,” che, durante gli anni 20, servì da faro per i grandi imprenditori, i grandi sindacati e molti intellettuali liberal come il sistema economico adeguato per una società industriale del ventesimo secolo. [9]

Il ruolo intellettuale indispensabile della costruzione del consenso popolare per il governo dello stato è svolto, per la Great Society, dall'intellighenzia liberal, che fornisce la spiegazione razionale di “benessere generale,” “umanità,” e “bene comune” (proprio come gli intellettuali conservatori lavorano sull'altro lato della Great Society offrendo la spiegazione razionale di “sicurezza nazionale” e “interesse nazionale”). I liberal, in breve, spingono la parte “welfare” del nostro onnipresente welfare-warfare state, mentre i conservatori sollecitano la parte “warfare” della torta. Questa analisi del ruolo degli intellettuali liberal mette in una prospettiva più sofisticata l'apparente “vendersi” di questi intellettuali rispetto al loro ruolo durante gli anni 30. Quindi, fra numerosi altri esempi, c'è l'anomalia apparente di A.A. Berle e David Lilienthal, acclamati e maledetti come ardenti progressisti negli anni 30, che ora scrivono tomi inneggianti al nuovo regno della grande impresa. In realtà, le loro opinioni di base non sono cambiate minimamente. Negli anni 30, questi teorici del New Deal erano occupati a condannare come “reazionari” quei grandi imprenditori che rimasero legati ai vecchi ideali individualisti e non riuscivano a capire o ad aderire al nuovo sistema monopolista dello stato corporativo. Ma ora, negli anni 50 e negli anni 60, questa battaglia è stata vinta; i grandi imprenditori sono tutti vogliosi di essere monopolisti privilegiati nel nuovo ordinamento e quindi possono ora essere accolti favorevolmente da teorici quali Berle e Lilienthal come “responsabili” e “illuminati,” il loro individualismo “egoista” una reliquia del passato.

Il mito più crudele promosso dai liberal è che la Great Society sia di grande vantaggio e beneficio per i poveri; in realtà, scavando sotto la superficiale apparenza, i poveri sono le vittime principali dello stato sociale. I poveri sono quelli che saranno coscritti per combattere e morire per stipendi letteralmente da schiavi nelle guerre imperiali della Great Society. I poveri sono quelli che perdono le loro case sotto il bulldozer del rinnovo urbano, quel bulldozer che lavora a favore di interessi immobiliari e dei costruttori polverizzando gli appartamenti a basso costo disponibili. [10]

Tutto questo, naturalmente, in nome della “pulizia dei bassifondi” e dell'aiuto all'estetica degli immobili. I poveri sono la clientela dell'assistenza sociale le cui case sono inconstituzionalmente ma regolarmente invase dagli agenti di governo per scovare il peccato nel mezzo della notte. I poveri (per esempio, negri nel sud) sono quelli resi disoccupati dall'aumento del salario minimo, istituito a favore dei datori di lavoro e dei sindacati nelle zone di alto-salario (per esempio, il Nord) per impedire all'industria di muoversi verso le zone a basso reddito. I poveri sono crudelmente perseguitati da un'imposta sul reddito che la destra e la sinistra fraintendono allo stesso modo come programma egalitario per drenare i ricchi; nella realtà, vari trucchi ed esenzioni assicurano che siano i poveri e le classi medie ad essere i più colpiti. [11]

I poveri sono perseguitati ugualmente dallo stato sociale il cui principio macroeconomico cardinale è l'inflazione perpetua seppur controllata. L'inflazione e la pesante spesa pubblica favoriscono i commerci del complesso militar-industriale, mentre i poveri ed i pensionati, quelli con pensioni fisse o la previdenza sociale, sono colpiti più duramente. (I liberal hanno spesso deriso l'insistenza degli anti-inflazionisti “sulle vedove e sugli orfani” come vittime principali dell'inflazione, tuttavia tali rimangono.) Ed il fiorire della pubblica istruzione obbligatoria tiene milioni di giovani fuori dal mercato del lavoro per molti anni in scuole che servono più da case di detenzione che come veri centri di formazione. [12]

Programmi agricoli che si presume aiutino gli agricoltori poveri servono in realtà i grandi e ricchi agricoltori a scapito dei mezzadri e dei consumatori; e commissioni che regolano l'industria servono per cartellizzarla. La massa degli operai è spinta a forza dalle misure governative nei sindacati che addomesticano ed integrano la forza lavoro nello stato corporativo in accelerazione, per essere sottoposto ad arbitrarie “guide di riferimento” per i salari ed infine all'arbitrato obbligatorio.

Il ruolo dell'intellettuale e della retorica liberal è ancor più rigido nella politica economica estera. Progettato apparentemente “per aiutare i paesi sottosviluppati,” l'aiuto estero è servito come gigantesca sussidio del contribuente americano per le ditte di esportazione americane, come simile sussidio agli investimenti all'estero americani con garanzie e prestiti di Stato sovvenzionati, come motore di inflazione per il paese beneficiario e forma di enorme sussidio agli amici ed ai clienti dell'imperialismo degli Stati Uniti nel paese beneficiario.

La simbiosi fra gli intellettuali liberal e lo statalismo despotico all'interno ed all'estero è, ancora, non un caso; perché al cuore della mentalità welfarista c'è un enorme desiderio di “fare del bene” alla massa dell'altra gente e poiché la gente non desidera solitamente che le si faccia del bene – poiché ciascuno ha una sua idea di quel che vorrebbe fare – il welfarista liberal finisce inevitabilmente per brandire un grosso bastone con cui spingere le masse ingrate. Quindi, l'ethos liberal in sé costituisce per gli intellettuali un potente stimolo a cercare il potere dello stato e ad allearsi con gli altri capi dello stato corporativo. I liberal diventano così ciò che Harry EImer Barnes a ragione ha chiamato “liberal totalitari.” O, come disse Isabel Paterson una generazione fa:
Il filantropo desidera essere un motore primo nelle vite degli altri. Non può ammettere l'ordine divino o naturale, per cui gli uomini hanno il potere di aiutarsi. Il filantropo si mette al posto di Dio.

Ma è confrontato da due fatti scomodi; in primo luogo, che il competente non ha bisogno della sua assistenza; ed in secondo luogo, che la maggior parte della gente… non vuole positivamente che le sia fatto “del bene” dal filantropo…. Naturalmente, ciò che il filantropo propone in realtà è che farà ciò che pensa sia bene per ognuno. È a questo punto che il filantropo installa la ghigliottina. [13]
Il ruolo retorico del welfarismo nel pressare la gente può essere veduto chiaramente nella guerra del Vietnam, dove la pianificazione liberal americana per il presunto benessere vietnamita è stata particolarmente prominente, per esempio, nei programmi e nelle azioni di Wolf Ladejinsky, di Joseph Buttinger e del gruppo Michigan State. Ed il risultato è stato molto simile ad una “ghigliottina” americana per la gente vietnamita, del nord e del sud. [14]

E perfino la rivista Fortune invoca lo spirito dell'“idealismo” umanitario come giustificazione per essere gli Stati Uniti “gli eredi dell'oneroso compito di sorvegliare queste frantumate colonie” dell'Europa occidentale e di impiegare la propria forza dovunque. La volontà per portare questo sforzo all'estremo, particolarmente nel Vietnam e forse in Cina, costituisce per Fortune “la prova infinita dell'idealismo americano.” [15] Questa sindrome liberal-welfarista può inoltre essere veduta nella zona molto differente dei diritti civili, nell'indignazione terribile fatta soffrire dei liberali bianchi alla determinazione recente dei negri di prendere il comando nell'aiuto, piuttosto che continu aare rinviare ai signori ed alle signore ricchi di liberalismo bianco.

Insomma, il fatto più importante sulla Great Society in cui viviamo è la disparità enorme fra retorica e contenuto. Nella retorica, l'America è la terra della libertà e della generosità, che gode delle benedizioni di un mercato libero temperato da una montante assistenza sociale, che distribuisce riccamente la sua abbondanza ai meno fortunati nel mondo. Nella pratica reale, l'economia della libera impresa virtualmente è finita, sostituita da uno stato Leviatano imperiale e corporativo che organizza, ordina, sfrutta il resto della società e, effettivamente, il resto del mondo, per il suo potere ed il suo arricchimento. Abbiamo sperimentato, come Garet Garrett indicò acutamente più di una decade fa, “una rivoluzione nella forma.” [16] La vecchia repubblica limitata è stata sostituita dall'impero, all'interno ed al di fuori dei nostri confini.
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Note


[9] Parte di questa storia è stata raccontata in “Flirtation with Fascism: American Pragmatic Liberals and Mussolini's Italy,” di John P. Diggins, American Historical Review, LXXI (gennaio 1966), pp. 487–506.

[10] Vedi Martin Anderson, The Federal Bulldozer (Cambridge, Mass., 1964).

[11] Quindi, vedi Gabriel Kolko, Wealth and Power in America (New York, 1962).

[12] Quindi, vedi Paul Goodman, Compulsory Mis-Education and The Community of Scholars (New York, Vintage paperback edition, 1966).

[13] Isabel Paterson, The God of the Machine (New York, 1943), p. 241.

[14] Vedi John McDermott, “Welfare Imperialism in Vietnam,” The Nation (July 25, 1966), pp. 76–88.

[15] Fortune (agosto 1965). Come destra del Great Society Establishment, Fortune presumibilmente supera il test di Berle-Lilienthal come portavoce per gli “illuminati” in contrasto con il capitalismo “egoista.”

[16] Garet Garrett, The People's Pottage (Caldwell, Idaho, 1953).
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Link alla prima parte.

Sunday, December 7, 2008

Great Society: una critica libertaria #1

Con buon tempismo Mises.org ripropone questo saggio (pubblicato per la prima volta nel 1967 in The Great Society Reader: The Failure of American Liberalism) di Rothbard sulla Great Society, il vasto programma di interventi economici del presidente Lyndon B. Johnson sul modello del New Deal di Roosevelt, uno di quelle grandi operazioni che i governi organizzano quando le bolle scoppiano e le nazioni sprofondano nelle recessioni. Naturalmente il risultato è sempre lo stesso, un peggioramento della situazione, e un'ulteriore limitazione delle libertà.

È impressionante vedere quanto poco sia cambiato da allora, comprese le misure adottate dai governi attuali e quelle promesse dal neo-eletto presidente Obama. Considerati i precedenti e le attuali scoraggianti condizioni dei mercati, le prospettive non sono per niente rosee.

Prima parte.

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Di Murray N. Rothbard


La Great Society è la discendente diretta e l'intensificazione di quelle altre politiche dal nome presuntuoso dell'America del ventesimo secolo: lo Square Deal, la New Freedom, la New Era, il New Deal, il Fair Deal, e la New Frontier. Tutti questi accordi assortiti hanno costituito una variazione basilare e fondamentale nella vita americana: uno spostamento da un'economia relativamente “laissez faire” e da uno stato minimo ad una società in cui lo stato è certamente sovrano. [1]

Nel secolo precedente, il governo poteva essere ignorato in sicurezza da quasi tutti; ora ci siamo trasformati in in un paese in cui il governo è la grande e infinita fonte di potere e privilegi. Quello che un tempo fu un paese in cui ogni uomo poteva generalmente decidere della sua vita, si è trasformato in una terra in cui lo stato detiene ed esercita il potere di vita e di morte su ogni persona, gruppo ed istituzione. Il grande governo Moloch, un tempo limitato e confinato, ha spezzato i suoi deboli legami per dominarci tutti.

La ragione alla base di questo sviluppo non è difficile da immaginare. È stata riassunta al meglio dal grande sociologo tedesco Franz Oppenheimer; Oppenheimer ha scritto che ci sono fondamentalmente due, e soltanto due, percorsi per l'acquisizione di ricchezza. Una via è la produzione di un bene o servizio ed il suo scambio volontario per beni o servizi prodotti da altri. Questo metodo – il metodo del libero mercato – Oppenheimer l'ha chiamato i “mezzi economici” per la ricchezza. L'altro percorso, che evita la necessità della produzione e dello scambio, è che una o più persone s'impadroniscano dei prodotti altrui mediante l'uso della forza fisica. Questo metodo di rubare i frutti della produzione di un altro uomo è stato chiamato sagacemente da Oppenheimer i “mezzi politici.” Attraverso la storia, gli uomini sono stati tentati di impiegare i “mezzi politici” di rubare la ricchezza piuttosto che sforzarsi nella produzione e nello scambio. Dovrebbe essere chiaro che mentre il processo del mercato moltiplica la produzione, il mezzo politico e di sfruttamento è parassitico e, come con tutte le azioni parassitiche, scoraggia ed elimina la produzione e il rendimento nella società. Per regolarizzare ed ordinare un sistema permanente di sfruttamento predatore, gli uomini hanno creato lo stato, che Oppenheimer definisce brillantemente come “l'organizzazione dei mezzi politici.” [2]

Ogni atto dello stato è necessariamente un'occasione per infliggere oneri ed assegnare sovvenzioni e privilegi. Estorcendo il reddito per mezzo della coercizione ed assegnando ricompense con l'esborso di fondi, lo stato crea “classi” o “caste” di governo e governate; per esempio, le classi che Calhoun ha distinto come i “contribuenti” e i “consumatori di tasse,” coloro che vivono di tasse. [3] E poiché, per la sua natura, la rapina può essere sostenuta soltanto dal surplus di produzione oltre la sussistenza, la classe dirigente deve costituire una minoranza della cittadinanza.

Dato che lo stato è, palesemente, un potente motore di rapina organizzata, il governo dello stato, durante i suoi numerosi millenni di storia registrata, ha potuto essere conservato soltanto persaudendo la massa del pubblico che il suo governo in realtà non è sfruttatore – che, al contrario, è necessario, caritatevole o persino, come nei dispotismi orientali, divino. La promozione di questa ideologia fra le masse è stata sempre una delle funzioni principali degli intellettuali, una funzione che ha generato la base per cooptare un corpo di intellettuali in una nicchia sicura e permanente nell'apparato statale. Nei secoli precedenti, questi intellettuali formavano una casta sacerdotale in grado di ammantare di mistero e di semi-divinità le azioni dello stato per un pubblico credulo. Al giorno d'oggi, l'apologia dello stato prende forme più sottili ed apparentemente più scientifiche. Il processo resta essenzialmente lo stesso. [4]

Negli Stati Uniti, una forte tradizione antistatalista e libertaria ha impedito al processo di statizzazione di svolgersi velocemente. La forza principale nella sua propulsione è stata quel teatro favorito dell'espansionismo dello stato, identificato brillantemente da Randolph Bourne come “la salute dello stato,” ovvero la guerra. Perché anche se in tempo di guerra vari stati si trovano in pericolo, ogni stato trova nella guerra un terreno fertile per propagare il mito tra i propri sudditi, che sono quelli che corrono pericolo mortale, da cui il loro stato li protegge. In questo modo gli stati hanno potuto costringere i propri sudditi a combattere e morire per salvarli, con il pretesto che erano i sudditi ad essere salvati dal temuto nemico straniero. Negli Stati Uniti, il processo di statizzazione è cominciato seriamente con il pretesto della guerra civile (coscrizione, regola militare, imposta sul reddito, tasse indirette, alte tariffe, banche nazionali ed espansione del credito per le imprese favorite, cartamoneta, concessioni terriere alle ferrovie) ed ha raggiunto la piena fioritura come conseguenza della prima e seconda guerra mondiale, per culminare infine nella Great Society.

Il gruppo recentemente emerso dei “conservatori libertari” negli Stati Uniti ha afferrato una parte dell'immagine recente dell'accelerato statalismo, ma la loro analisi soffre di parecchi punti ciechi. Uno di questi è la loro totale incapacità di realizzare che la guerra, culminante nell'attuale stato fortezza e nell'economia militar-industriale, è stata la via reale allo statalismo aggravato in America. Al contrario, l'impulso di riverente patriottismo che la guerra provoca sempre nei cuori conservatori, accoppiato al loro entusiasmo di indossare scudo e armatura contro la “cospirazione comunista internazionale,” ha reso i conservatori i partigiani più pronti ed entusiasti della Guerra Fredda. Da qui la loro incapacità di vedere le enormi distorsioni e interventi imposti sull'economia dall'enorme sistema dei contratti di guerra. [5]

Un altro punto cieco conservatore è il fallimento nell'identificare quali gruppi sono stati responsabili del germogliare dello statalismo negli Stati Uniti. Nella demonologia conservatrice, la responsabilità ricade soltanto sugli intellettuali liberal, aiutati ed incoraggiati dai sindacati e dagli agricoltori. I grandi imprenditori, d'altro canto, sono stranamente esenti dalla colpa (gli agricoltori sono imprenditori abbastanza piccoli, apparentemente, per essere un'equa preda per la censura.) Come spiegano allora i conservatori la corsa chiaramente palese dei grandi imprenditori per abbracciare Lyndon Johnson e la Great Society? Con la totale stupidità (non aver letto le opere degli economisti di mercato), con la sovversione da parte di intellettuali liberal (per esempio, l'educazione dei fratelli Rockefeller alla Lincoln School), o con la pusillanime codardia (l'omissione di levarsi decisamente in difesa dei principi di mercato di fronte al potere governativo). [6] Quasi mai è indicato l'interesse come motivo principale per lo statalismo fra gli imprenditori. Questa mancanza è tanto più curiosa alla luce del fatto che i liberali “laissez faire” del diciottesimo e diciannovesimo secolo (per esempio, i filosofici radicali in Inghilterra, i jacksoniani negli Stati Uniti) non si vergognarono mai di identificare ed attaccare la rete di privilegi speciali garantiti agli imprenditori nel mercantilismo del loro tempo.

Infatti, una delle forze motrici principali della dinamica statalista dell'America del ventesimo secolo sono stati i grandi imprenditori e questo molto prima della Great Society. Gabriel Kolko, nel suo innovativo Triumph of Conservatism, [7] ha indicato che lo spostamento verso lo statalismo nel periodo Progressista fu incitato dagli stessi gruppi della grande impresa che si presumeva, nella mitologia liberale, venissero sconfitti e regolati dalle misure progressiste e della New Freedom. Piuttosto che un “movimento del popolo” per il controllo della grande impresa; la spinta per le misure regolarici, dimostra Kolko, provenne dai grandi imprenditori i cui tentativi di monopolio erano stati sconfitti dal mercato competitivo e che quindi si rivolsero verso il governo federale come dispositivo per la cartellizzazione obbligatoria. Questa spinta per la cartellizzazione con il governo accelerò durante la New Era degli anni 20 e raggiunse il suo apice nella NRA di Franklin Roosevelt. Significativamente, questo esercizio di cartellizzazione del collettivismo fu messo in atto dalla grande impresa organizzata; dopo che Herbert Hoover, che aveva fatto molto per organizzare e cartellizzare l'economia, aveva esitato davanti ad una NRA che si avvicinava troppo ad un'autentica economia fascista, la Camera di Commercio degli Stati Uniti ottenne da FDR la promessa che avrebbe adottato un tale sistema. L'ispirazione originale era lo stato corporativo dell'Italia di Mussolini. [8]
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Note


[1] Le rilevazioni trionfali recenti di storici economici che il “laissez faire” puro non è esistito nel'America del diciannovesimo secolo sono fuori bersaglio; nessuno ha mai sostenuto che lo fosse. Il punto è che il potere dello stato nella società era minimo, relativo ad altri tempi e paesi e che il locus generale di risoluzione risiedeva quindi negli individui che compongono la società piuttosto che nello stato. Cf. Robert Lively, "The American System," Business History Review, XXIX (1955), pp. 81–96.

[2] Franz Oppenheimer, The State (New York, 1926), pp. 24-27. O, come concludeva Albert Jay Nock, molto influenzato dall'analisi di Oppenheimer: “Lo stato proclama ed esercita il monopolio del crimine” nella sua zona territoriale. Albert Jay Nock, On Doing the Right Thing, and Other Essays (New York, 1928), p. 143.

[3] Vedi John C. Calhoun, Disquisition on Government (Columbia, S. C., 1850). Sulla distinzione fra questo concetto e quello di Marx di classe dirigente, vedi Ludwig von Mises, Theory and History (New Haven, Conn., 1957), pp. 112 ff. Forse i primi utilizzatori di questo genere di analisi di classe furono gli scrittori francesi libertari del periodo della Restaurazione del primo diciannovesimo secolo, Charles Comte e Charles Dunoyer. Cf. Elie Halevy, The Era of Tyrannies (Garden City. N. Y., 1965), pp. 23–34.

[4] Sulle varie funzioni dell'alleanza fra gli intellettuali e lo stato, vedi The Intellectuals (Glencoe, Ill., 1960); Joseph A. Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy (New York, 1942), pp. 143–55; Karl A. Wittfogel, Oriental Despotism (New Haven, Conn., 1957); Howard K. Beale, “The Professional Historian: His Theory and Practice,” The Pacific Historical Review (August, 1953), pp. 227–55; Martin Nicolaus, “The Professor, The Policeman and the Peasant,” Viet-Report (June-July, 1966), pp. 15–19.

[5] Quindi, cf. H.L. Nieburg, In the Name of Science (Chicago, 1966); Seymour Melman, Our Depleted Society (New York, 1965); C. Wright Mills, The Power Elite (New York, 1958).

[6] (nota degli editori originali che si riferiscono ad un altro saggio nella raccolta.)

[7] New York, 1963. Inoltre vedi Railroads and Regulation (Princeton, N. J., 1965) di Kolko. La revisione elogiatoria di questo libro di George W. Hilton (American Economic Review) e George W. Wilson (Journal of Political Economy) rappresenta un'alleanza potenziale fra la “Nuova Sinistra” e la storiografia del libero mercato.

[8] La National Recovery Administration, una delle creazioni più importanti del primo New Deal, fu istituita dal National Industrial Recovery Act del giugno 1933. Prescriveva ed imponeva codici “di concorrenza leale” sull'industria. Fu dichiarato inconstituzionale dalla Corte Suprema nel 1935. Per un'analisi dell'istituzione della NRA, vedi il mio America's Great Depression (Princeton, N. J., 1963).
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Link alla seconda parte.

Saturday, December 6, 2008

Afrika Vs Amerika

Quando i rigori dell'inverno cominciano a farsi sentire, l'isola di Laputa con tutti i suoi abitanti veleggia verso lidi più caldi: è la fortuna di essere un paese extraterritoriale e volante, che lascia noi poveri terrestri ai sospiri ed alla malinconia, limitati come siamo dai confini nazionali.

Ma bando ai sentimentalismi. Ci pensa il nostro inviato, il Pesce Volante, a regalarci con il suo ultimo dispaccio un assaggio di quell'Africa che al momento starà probabilmente sorvolando, un'Africa ricca, letale e misteriosa, centro di intrecci internazionali al massimo livello, di commerci illeciti e di congiure.

Voliamo allora con la nostra guida nel cuore del continente nero, per provare qualche brivido, anche se non di freddo. Buon fine settimana e... hakuna matata a tutti!
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Di Giovanni Pesce


Uncle Pom, il più esperto conoscitore delle ricchezze del sottosuolo di Laputa, mi ha raccontato un’intrigante storia relativa al Congo, dove su un substrato di avventure coloniali sono accaduti eventi come genocidi, contrasti atomici e misteriosi incidenti aerei .

Un esploratore inglese, Morton Stanley, girovagando in quella regione africana, tramite la cessione di “un pezzo di vestiario al mese,” riuscì ad ottenere dai vari capi locali alcuni diritti territoriali, che una volta ceduti a Leopoldo II del Belgio permisero a quest’ultimo la costituzione nel 1885 del Libero Stato del Congo al fine di “promuovere il libero scambio e combattere la schiavitù in quei territori.”

Con il nobile proposito di evitare che gli abitanti del Congo potessero prendere cattive abitudini, vennero massacrati (uccisi, ndr) oltre 10 milioni di congolesi, mentre altri milioni di indigeni furono semplicemente mutilati.

Questa vicenda di depopolazione del 50% degli abitanti del Congo non ha mai avuto la dovuta notorietà, forse per lo stretto controllo del mainstream mediatico da parte di Leopoldo II o forse per la totale assenza di un John Wayne belga con relativo codazzo di cineasti hollywoodiani.

La proprietà del Congo fu un’esclusiva della Corona Belga fino al 1906 e l’amministrazione fu affidata alla Societé Generale du Belgique, sorella più povera ma non meno terribile rispetto alla East Indian Company.

Nel maggio 1960 l’amministrazione Belga concesse l’autonomia politica ma tentò di conservare il controllo tecnico amministrativo e militare di quella regione africana; il leader nazionalista congolese Patrick Lumumba nel giugno 1960 fu eletto Primo Ministro del nuovo stato indipendente.

In quegli anni 60, avere accesso alle miniere di uranio congolese costituiva un punto di forza non indifferente nel Balance of Power atomico; per questa ragione le grandi potenze hanno sempre fatto “carte false” per tenere sotto controllo l’approvvigionamento atomico.

Così, nella notte del 16 gennaio 1961, Patrick Lumumba, leader nazionalista congolese, viene ucciso da ignoti.

Per l’assassinio di Lumumba venne sospettato nei primi momenti il Katanghese Tchombe ed il suo subordinato Mobuto; ma senza molte convinzioni.

Un’altra ipotesi puntava il dito contro l’invito fatto da Lumumba a Krusciov per ottenere l’invio di consiglieri sovietici; questa mossa avrebbe fatto scattare una reazione Usa.

Inoltre si ipotizzava che anche il contrasto tra Lumumba ed il segretario dell’ONU, Dag Hammarskjöld, dovesse richiedere un supplemento di istruttoria ma il 18 Settembre 1961 un DC-6B che trasportava il 56enne Dag Hammarskjöld, si schiantò nella giungla vicino a Ndola oggi Zambia.

Un’autopsia stabilì che due delle vittime erano state colpite da proiettili – ufficialmente da una scatola di munizioni esplosa dopo l’impatto. L’inchiesta invece concluse sentenziando ufficialmente un “errore del pilota.”

Lo stesso Harry S. Truman, ex presidente degli Stati Uniti, disse: "Dag Hammarskjöld era sul punto di raggiungere un risultato concreto quando fu ucciso. Notate che ho detto, ‘quando fu ucciso.’”

Quindi è evidente che i risultati ufficiali delle commissioni d’inchiesta di incidenti vadano re-interpretati con il buon senso del “judicous reader,” come diceva il buon Jonathan Swift.

Tornando all’omicidio Lumumba, solo dopo qualche decennio viene registrata questa confessione da parte di un agente belga:
«Avevamo fucilato Lumumba nel pomeriggio» racconta Soete alla commissione parlamentare belga incaricata delle indagini a 40 anni di distanza dall’omicidio. «Poi tornai nella notte con un altro soldato, perché le mani dei cadaveri spuntavano ancora dal terriccio. Prendemmo l’acido che si usa per le batterie delle automobili, dissotterrammo i corpi, li facemmo a pezzi con l’accetta; poi li sciogliemmo in un barile, facendo tutto di fretta, perché non ci vedesse nessuno.»
L’ordine portava la firma dell’allora capo della Cia, Allen Dulles, ed era stato presumibilmente visionato dal presidente statunitense uscente Dwight Eisenhower e dalla monarchia belga.
Incredibilmente il 17 Gennaio 1961, il giorno successivo all’omicidio Lumumba, Eisenhower aveva pronunciato il famoso discorso di commiato, indicando nel complesso militar-industriale l’artefice massimo della politica; un atteggiamento a “lingua biforcuta”: da una parte un attacco a parole alle corporations e dall’altra una collaborazione tramite dirty works con queste organizzazzioni.

Il 20 Gennaio 1961 JFK subentrò ad Ike Eisenhower nell’incarico di Presidente USA, ereditando molte rogne della passata presidenza.

Il pomeriggio del 17 Gennaio 2001 venne ucciso il presidente congolese Laurent Cabila, ed il 20 Gennaio GWB subentra a Bill Clinton alla Presidenza USA.

Coincidenze incredibili.

Vedremo a fine Gennaio 2009 che succederà tra GWB ed Obama.

Thursday, December 4, 2008

«Great principles don't get lost»

Mr. Smith Goes to Washington (Mr. Smith va a Washington, '39) è forse il primo film in cui viene rappresentata la corruzione della politica, opposta all'idealismo un po' ingenuo di un signor Smith diventato senatore quasi per caso. Molta retorica, un lieto fine – con il politico “cattivo” che si pente! – poco credibile, ma grazie alla grande maestria di Frank Capra e dei protagonisti il film è tuttora godibilissimo e denso di significato. Un classico.

Bush, terzo mandato

Mentre i giovani americani preferiscono sempre in maggior numero l'arruolamento piuttosto che affrontare la probabile disoccupazione e conseguente miseria in un mercato del lavoro agonizzante, e mentre la flotta USA continua ad accumulare squadre navali nel mar Arabico, arrivano i primi commenti sulle nomine di “Barrack” Obama, e i “critici” sono prodighi di elogi per il cast:

“[L]a nuova amministrazione comincia bene.”
Leader repubblicano del Senato, Mitch Mcconnell.

“[S]uperbo… il meglio dei membri di Washington… questa sarà una valedictocrazia – guidata dai migliori laureati delle High School.”
David Brooks, cronista conservatore del New York Times.

“[V]irtualmente perfetto…”
Senatore Joe Lieberman, ex democratico e principale delegato di John McCain nella campagna 2008.

“[R]assicurante.”
Karl Rove, il “cervello di Bush.”

“Sono stupefatto da queste nomine, la maggior parte delle quali potrebbero giusto essere state fatte da un presidente McCain… questo non significa altro che un termine alla timetable di 16 mesi per il ritiro dall'Iraq, i summit incondizionati con i dittatori e altre sciocchezze inizialmente emanate dalla campagna di Obama… [Hillary] Clinton e [James] Steinberg agli interni dovrebbero essere voci potenti per il ‘neo-liberalism’ che non è così differente per molti aspetti dal ‘neo-conservatorivismo.’”
Max Boot, attivista neoconservatore, ex membro del personale di McCain.

“Le vedo come una specie di centro destra del partito democratico.”
James Baker, ex ministro dell'interno e l'uomo che condusse il furto dell'elezione 2000.

“[S]orprendente continuità sulla politica estera fra il secondo termine del presidente Bush e la prossima amministrazione… certamente niente che rappresenti un cambiamento drastico su come Washington conduce i suoi affari. L'aspettativa è che Obama continui il corso fissato da Bush…”
Michael Goldfarb del neoconservatore Weekly Standard.

“Certamente applaudo molte delle nomine…”
Senatore John McCain.

“Fin qui, tutto bene.”
Senatore Lamar Alexander, leader congressuale repubblicano.

“Hillary Clinton sarà ‘eccezionale’ come ministro dell'interno”
Henry Kissinger, criminale di guerra.

“Rahm Emanuel è ‘una scelta saggia’ nel ruolo di capo del personale”
Senatore repubblicano Lindsey Graham, migliore amico di John McCain.

La squadra di Obama dimostra che “la nostra politica estera è indipendente.”
Ed Rollins, massimo stratega repubblicano e responsabile della campagna di Mike Huckabee 2008.

“Il paese sarà in buone mani.”
Condoleezza Rice, ministro di George W. Bush.

Non c'è forse migliore dimostrazione di come l'evoluzione naturale di uno stato è di diventare una vera e propria macchina di distruzione e morte, fino alle estreme conseguenze. Non è altro che il logico risultato di una dottrina che ammette tra i suoi principi la violazione dei diritti naturali dell'uomo, la negazione della libertà, il furto e la violenza tutto in nome di un non meglio precisato alto scopo facilmente identificabile nel sole nascente (o è un tramonto?) del logo di Obama.

Ma forse quella luce all'orizzonte è solo un'esplosione.

Wednesday, December 3, 2008

Questione di fede

Con il passare dei giorni, e l'emergere di molti dettagli riguardo agli attacchi terroristici di Mumbai, la narrativa ufficiale appare sempre meno credibile, mentre allo stesso tempo diventa più facile capire chi otterrà un guadagno da questo evento, indicando quindi una pista più coerente con i fatti conosciuti.

Ma i media principali, come al solito, non danno peso alle incongruenze di ciò che riportano. Non si soffermano ad analizzare l'assoluta e incredibile incompetenza che avrebbero dimostrato i servizi di sicurezza indiani, apparentemente incapaci di impedire il massacro e di eliminare o bloccare una decina di terroristi per tre giorni. Pare a loro una cosa perfettamente normale, così come i resoconti che raccontano di poliziotti che non usano le loro armi, lasciando che gli assassini facessero il loro lavoro.

Non trovano niente di strano nel fatto che la guardia costiera indiana non sia stata in grado di notare gli spostamenti della nave proveniente da Karachi, né l'approccio su gommoni del commando fuoriuscito da essa in alto mare, e nemmeno tutti gli spostamenti del gruppo una volta giunto a terra. Ovviamente i terroristi hanno lasciato sulla nave un telefono satellitare, le cui chiamate registrate hanno consentito di risalire al gruppo fondamentalista Lashkar-e-Taiba, il cui presunto leader Hafiz Mohammed Saeed è stato prontamente indicato dalle autorità indiane come responsabile degli attacchi.

Tuttavia, Saeed ha negato il suo coinvolgimento, e già questo dovrebbe suscitare qualche interrogativo, dal momento che i terroristi, in genere, usano rivendicare le loro imprese. Ma porsi delle domande non rientra più tra i compiti del giornalista mainstream, che le domande si limita a farle alle autorità costituite per riportarne le risposte. Ma la cosa ancor più sorprendente è che il prof. Saeed guida l'associazione umanitaria Jama’t-ud-Da’wah, il cui portavoce ha smentito qualsiasi collegamento con il Lashkar-e-Taiba.

C'è anche un risvolto particolarmente comico della vicenda: l'unico superstite del commando, Ajmal Amir Kamal (o Azam Amir Kasav, o Azam Ameer Qasab), sulla cui “confessione” si basa l'intera ricostruzione ufficiale, sarebbe originario di Faridkot, un villaggio di 3000 anime nel Punjab, in Pakistan, subito “invaso” da uomini di ogni agenzia di sicurezza alla ricerca di indizi. Gli abitanti del villaggio di capanne di fango, sorpresi in massimo grado, affermano di non sapere nulla dell'intera faccenda. “Non ci sono jihadisti qui,” dice uno degli abitanti, “posso pensare a 10 o forse 20 persone qui che sono andate al massimo fino a Multan.” Di Ajmal Amir Kamal si dice che parli correntemente l'inglese, lingua praticamente sconosciuta a Faridkot, e nessuno lo ha riconosciuto nelle foto che gli agenti hanno mostrato. Un altro locale ha detto: “sembra un ragazzo sveglio. Non abbiamo niente del genere qui.”

Abbiamo quindi, come sempre è accaduto in ciascuno degli eventi terroristici che hanno insanguinato questo decennio e non solo, una narrativa ufficiale traballante costellata da incongruenze che ciononostante pretende di indicare accuratamente i responsabili. Ma abbiamo anche qualcuno che con ogni probabilità beneficerà del sangue versato, che Justin Raimondo descrive con la consueta lucidità:
L'effetto del massacro di Mumbai sulla politica indiana è un'altra possibile analogia con l'11 settembre, che diede potere ai neocons e catapultò i peggiori guerrafondai al livello più alto della burocrazia della sicurezza nazionale. Nel caso dell'India, dove gli elettori andranno presto alle urne, siamo pronti ad assistere ad una vittoria elettorale per il movimento politico militante più nazionalista e sciovinista nel paese, il partito Bharatiya Janata (BJP).

Il BJP è l'espressione politica del movimento Hindutva, una versione fondamentalista dell'induismo tradizionale che fa risalire la genealogia della “razza indiana” fino all'antica invasione ariana dal nord. Secondo gli ideologi di Hindutva, la loro razza è nata al Polo Nord ed era originariamente – nella sua forma “pura” – una tribù di ariani biondi e dagli occhi azzurri. Di conseguenza, il capo della loro organizzazione centrale, il Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), deve essere un bramino Saraswat dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. L'obiettivo del movimento, come gli obiettivi di tutti i movimenti fascisti di ogni luogo, è di riprendere la gloria perduta di un passato semi-leggendario, in questo caso il ripristino dell'antico impero indù.

Il grande problema del governo indiano è stata la mancanza di coesione del paese. Il fallimento del Partito del Congresso nell'unire la nazione intorno ad un modello laicista-federalista e la persistenza del separatismo localista ha aperto la strada al BJP per unificare il paese su una base differente: il nazionalismo estremo alimentato dal fanatismo religioso, ovvero, il fondamentalismo indù.

Il BJP ha conquistato importanza aumentato grazie ai tumulti di piazza iniziati da gruppi guidati dal partito, che hanno condotto alla distruzione di una moschea locale. Il governo municipale del BJP ha abbattuto la costruzione rovinata ed ha costruito un tempio indù sul sito, considerato il luogo di nascita del dio indù Ram. Quei disordini civili hanno causato 1.200 morti, principalmente musulmani, un modello di violenza che sicuramente si riaffermerà dopo i fatti di Mumbai.
Se inquadriamo allora in questo scenario l'assassinio del capo dell'antiterrorismo indiano Hemant Karkare – tra i primi a cadere negli attacchi – che aveva scoperto la responsabilità dei fondamentalisti indù in una serie di attentati inizialmente attribuiti ai musulmani, il tutto comincia ad avere una certa logica. Una logica di cui purtroppo non c'è traccia nei media ufficiali, troppo impegnati nella loro attività di servili veline del potere.

Tuesday, December 2, 2008

Contro la scuola

Questo è un pezzo che da tempo volevo tradurre, ma grazie alla segnalazione del blog Progetto Mayhem ho scoperto che una versione in italiano esisteva già. Ne approfitto quindi per ripostarlo qui integralmente, poiché ritengo che sia bene diffonderlo il più possibile.

John Taylor Gatto è un ex insegnante dell'anno della città e dello stato di New York, e autore, più recentemente, di The Underground History of American Education. Potete trovare il suo sito web qui. (Scarica il pdf).
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Come l'istruzione pubblica mutila i nostri ragazzi, e perché

DI John Taylor Gatto


Ho insegnato per trent'anni in alcune delle peggiori scuole a Manhattan, e in alcune delle migliori, e durante questo periodo sono diventato un esperto in noia. La noia era ovunque nel mio mondo, e se chiedevi ai ragazzi, come facevo spesso, perché si sentissero così annoiati, davano sempre le stesse risposte: dicevano che il lavoro era stupido, che non aveva senso, che lo sapevano già. Dicevano di voler fare qualcosa di reale, non solo starsene seduti senza far nulla. Dicevano che gli insegnanti non sembravano saperne molto delle loro materie e chiaramente non erano interessati ad impararne di più. E i ragazzi avevano ragione: gli insegnanti erano annoiati tanto quanto loro.

La noia è la condizione comune degli insegnanti, e chiunque abbia passato del tempo in un'aula insegnanti può garantire che vi si possano trovare scarsa energia, lagnanze, e abbattimento. Alla domanda perché si sentissero così annoiati, gli insegnanti erano soliti incolpare i ragazzi, come c'era da aspettarsi. Chi non si annoierebbe ad insegnare a dei ragazzi che sono maleducati ed interessati solo ai voti? Ammesso che li interessino almeno quelli. Ovviamente, gli insegnanti sono loro stessi un prodotto degli stessi dodici anni di programmi didattici coercitivi che tanto annoiano i loro studenti, e il tutto mentre il personale scolastico è intrappolato in strutture persino più rigide di quelle imposte ai ragazzi. Allora, chi dobbiamo incolpare?

Tutti noi. Me lo ha insegnato mio nonno. Un pomeriggio, quando avevo 7 anni, mi lamentai con lui della noia, e lui mi picchiò violentemente sulla testa. Mi disse che non avrei dovuto usare mai più quel termine in sua presenza, e che se ero annoiato era colpa mia e di nessun altro. L'obbligo di divertirmi ed istruirmi era del tutto mio; le persone che non lo sapevano erano infantili, da evitare, se possibile. Certamente persone a cui non prestare fiducia. Quell'episodio mi curò dalla noia per sempre, e qua e là nel corso degli anni fui in grado di trasmettere la lezione a qualche notevole studente. Ma in generale, trovai futile mettere in discussione la nozione ufficiale che la noia e l'infantilità fossero lo stato naturale nella classe. Spesso dovetti sfidare le consuetudini, e persino piegare la legge, per aiutare i ragazzi ad uscire da questa trappola.

L'impero ha colpito ancora, naturalmente; gli adulti infantili uniscono regolarmente l'avversione con la slealtà. Una volta tornai da un periodo di congedo da malattia per scoprire che tutte le prove che la scuola mi aveva concesso il permesso di assenza erano state distrutte di proposito, che il mio lavoro era finito, e che non possedevo più nemmeno una licenza di insegnamento. Dopo nove mesi di tormentati sforzi fui in grado di riavere la licenza quando una segretaria scolastica testimoniò di aver visto svolgersi il complotto. Nel frattempo la mia famiglia soffrì più di quanto vorrei ricordare. Quando finalmente andai in pensione, nel 1991, avevo ragioni più che sufficienti per considerare le nostre scuole - con la loro reclusione forzata a lungo termine a mo' di prigione sia degli insegnanti che degli studenti – come a effettive fabbriche di infantilità. Ma onestamente non riuscivo a capire perché dovesse essere così. La mia esperienza mi aveva rivelato quel che, indubbiamente, molti altri insegnanti apprendono col tempo ma tengono per se, temendo rappresaglie: se volessimo, potremmo facilmente ed economicamente liberarci di strutture vecchie e stupide ed aiutare i ragazzi a prendere un'educazione piuttosto che meramente ricevere un'istruzione [Gatto sta usando qui un verbo mai usato con "education" in inglese: invece di dire il solito "to get an education", lui sta usando il verbo attivo "to take an education", in violento contrasto con il "merely receive a schooling" che viene dopo. Sta sottolineando che spetta sempre agli studenti educare se stessi, ndt]. Potremmo incoraggiare le migliori qualità della gioventù - curiosità, avventura, determinazione, capacità di intuizioni sorprendenti - semplicemente con una maggiore flessibilità sul tempo, i test ed i compiti, facendo conoscere ai ragazzi degli adulti davvero competenti in questo o quel settore della società, e dando ad ogni studente quell'autonomia di cui ha bisogno per poter anche rischiare, qualche volta.

Ma non lo facciamo. E più chiedevo perché no, persistendo nel pensare al "problema" dell'istruzione come farebbe un ingegnere, più mancavo il punto: e se non ci fosse alcun "problema" con le nostre scuole? E se esse fossero come sono, così costosamente contraddicenti il senso comune e una lunga esperienza nel modo in cui i bambini imparano le cose, non perché stiano facendo qualcosa di sbagliato, ma perché stanno facendo quel che devono? È possibile che George W. Bush abbia accidentalmente detto la verità quando dichiarò che non avremmo "lasciato indietro nessun bambino" (1)? Potrebbe essere che le nostre scuole siano progettate per assicurarsi che nessuno possa mai davvero diventare grande?

Abbiamo davvero bisogno della scuola? Non intendo l'educazione, ma solo l'istruzione forzata: sei classi al giorno, cinque giorni alla settimana, nove mesi all'anno, per dodici anni. E' davvero necessaria questa routine mortale? E se lo è, per quale scopo? Non nascondetevi dietro il "leggere, scrivere e far di conto" come se fossero una ragione, in quanto 2 milioni di felici ragazzi che studiano a casa hanno sicuramente messo fine ad una tale banale giustificazione. Anche se non lo avessero fatto, un numero considerevole di ben noti Americani non è mai passato nel compressore di dodici anni che attraversano ora i nostri ragazzi, e tutti loro si sono rivelati persone per bene. George Washington, Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln? Qualcuno insegnò loro, certo, ma non erano prodotti di un sistema scolastico, e nessuno di loro è mai stato "diplomato" in una scuola secondaria. Durante la maggior parte della storia americana, generalmente i ragazzi non andarono alla scuola superiore, ma i non-scolarizzati ascesero fino ad essere ammiragli, come Farragut; inventori, come Edison; magnati dell'industria, come Carnegie e Rockefeller; scrittori, come Melville e Twain e Conrad; e persino studiosi, come Margaret Mead. Infatti, fino ad un periodo relativamente recente, le persone che raggiungevano l'età di 13 anni non erano più considerate come fanciulli. Ariel Durant, co-autrice insieme a suo marito Will di una enorme ed ottima storia del mondo multi-volume, era felicemente sposata a quindici anni, e chi potrebbe ragionevolmente affermare che Ariel Durant era una persona non-educata? Non istruita, forse, ma non non-educata.

In questo paese ci hanno insegnato (ossia, istruito) a pensare al "successo" come ad un sinonimo, o almeno come dipendente, dalla "istruzione", ma storicamente non è vero né in senso intellettuale, né economico. E molte persone nel mondo di oggi trovano un modo per educarsi senza ricorrere ad un sistema coercitivo di scuole superiori che troppo spesso ricorda le prigioni. Perché, dunque, gli Statunitensi confondono l'educazione proprio con un tale sistema? Qual'è esattamente lo scopo delle nostre scuole pubbliche?

L'istruzione di massa coercitiva ha affondato i denti negli Stati Uniti tra il 1905 e il 1915, nonostante fosse stata concepita molto prima e promossa per la maggior parte del diciannovesimo secolo. La ragione data per questo enorme sconvolgimento della vita famigliare e delle tradizioni culturali era, grosso modo, triplice:
  1. Creare delle buone persone.
  2. Creare dei buoni cittadini.
  3. Fare di ogni persona il suo meglio personale.
Questi obbiettivi vengono regolarmente tirati fuori ancora oggi, e la maggior parte di noi li accetta in una forma o nell'altra come una definizione decente di scopo dell'educazione pubblica, sebbene le scuole non li raggiungano. Siamo in torto marcio. Ad aggravare il nostro errore c'è il fatto che la letteratura nazionale registra numerose e sorprendentemente consistenti dichiarazioni del vero scopo della scuola dell'obbligo. Abbiamo, per esempio, il grande H. L. Mencken, che scrisse su The American Mercury nell'aprile 1924 che lo scopo dell'educazione pubblica non è
colmare di conoscenza i giovani della specie e svegliare la loro intelligenza... Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Lo scopo... è semplicemente ridurre quanti più individui possibile allo stesso livello di sicurezza, per alimentare ed addestrare una cittadinanza standardizzata, per reprimere il dissenso e l'originalità. Questo è lo scopo negli Stati Uniti... ed è lo scopo in ogni altro posto.
A causa della reputazione di Mencken come autore satirico, potremmo essere tentati di scartare questo brano come una forma di sarcasmo iperbolico. Il suo articolo, comunque, va avanti facendo risalire il modello per il nostro sistema educativo fino all'oramai scomparso, sebbene mai da dimenticare, stato militare della Prussia. E nonostante egli fosse certamente consapevole dell'ironia che eravamo da poco stati in guerra con la Germania, erede del pensiero e della cultura di Prussia, Mencken era del tutto serio in questo punto. Il nostro sistema educativo è davvero prussiano in origine, e questo è davvero un motivo di preoccupazione.

Lo strano fatto di una provenienza prussiana delle nostre scuole rispunta ancora e ancora quando sai di poterla cercare. William James alluse ad essa molte volte, all'inizio del secolo. Orestes Brownson, l'eroe del libro di Christopher Lasch risalente al 1991, The True and Only Heaven, già negli anni '40 dell'800 denunciava pubblicamente la prussianizzazione delle scuole americane. Il "Settimo Rapporto Annuale" di Horace Mann al Consiglio per l'Educazione dello Stato di Massachusetts, nel 1843, è essenzialmente un peana alla terra di Federico il Grande e un appello ad importare qui la sua scuola. Che la cultura prussiana si profilasse enorme negli Stati Uniti non sorprende, data la nostra remota associazione con quello stato utopico. Un Prussiano prestò servizio come aiutante di campo del comandante in capo George Washington durante la Guerra Rivoluzionaria (2), ed erano talmente tante le persone che parlavano tedesco stabilitesi qui che nel 1795 il Congresso considerò di pubblicare un'edizione in lingua tedesca delle leggi federali. Ma quel che scuote è che abbiamo così entusiasticamente adottato uno dei peggiori aspetti della cultura prussiana: un sistema educativo deliberatamente ideato per produrre intelletti mediocri, per frustrare la vita interiore, per negare agli studenti doti apprezzabili di leadership, e per assicurarsi cittadini docili ed incompleti - tutto per rendere la popolazione "gestibile".

Fu grazie a James Bryant Conant - presidente di Harvard per vent'anni, specialista di gas velenoso durante la prima guerra mondiale, un direttore del progetto per la bomba atomica durante la seconda guerra mondiale, alto commissario della zona statunitense in Germania dopo il conflitto, e una delle figure realmente più influenti del ventesimo secolo - che ebbi sentore dei veri scopi dell'istruzione Usa. Senza Conant, probabilmente non avremmo lo stesso stile e grado di test standardizzati di cui godiamo oggi, né saremmo benedetti con gargantuesche scuole superiori che immagazzinano dai 2.000 ai 4.000 studenti alla volta, come la famosa Columbine High School a Littleton, Colorado (3). Poco dopo che mi ritirai dall'insegnamento, presi in mano il libro di Conant del 1959, The Child the Parent and the State (4) e fui più che un po' intrigato dal vederlo menzionare di sfuggita che le scuole moderne da noi frequentate sono il risultato di una "rivoluzione" architettata tra il 1905 e il 1930. Una rivoluzione? Evita di approfondire, ma indirizza i curiosi e gli ignari al libro di Alexander Inglis del 1918, Principles of Secondary Education, in cui "si vide questa rivoluzione con gli occhi di un rivoluzionario".

Inglis, il cui nome è stato dato ad un corso di conferenze ad Harvard, rende perfettamente chiaro che l'istruzione coercitiva in questo continente era intesa ad essere esattamente quel che era stata per la Prussia negli anni '20 dell'800: una quinta colonna nel movimento democratico in ascesa che minacciava di dare ai contadini e ai proletari una voce nel tavolo delle trattative. L'istruzione moderna, industrializzata, e obbligatoria doveva eseguire una sorta di incisione chirurgica nella potenziale unità di queste sotto-classi. Dividere i bambini per materie, e per età, con moltissime valutazioni mediante i test, e con molti altri mezzi più subdoli, ed era improbabile che una massa ignorante di esseri umani, separati nell'infanzia, si sarebbe mai reintegrata in una pericolosa unità.

Inglis scompone lo scopo - il vero scopo - dell'istruzione moderna in sei funzioni di base, ognuna delle quali è sufficiente a far drizzare i capelli di quelli abbastanza innocenti da credere ai tre obbiettivi dichiarati esposti in precedenza:

1) La funzione aggiustativa o adattativa. Le scuole devono fondare delle abitudini fisse di reazione all'autorità. Questo, ovviamente, preclude del tutto il giudizio critico. Inoltre, ciò distrugge l'idea che dovrebbe essere insegnato del materiale utile od interessante, perché non puoi fare dei controlli dell'obbedienza riflessiva finché non sai di poter far imparare, e far fare, ai ragazzi cose folli e noiose.

2) La funzione integrativa. Questa potrebbe essere chiamata "la funzione di conformità", perché il suo intento è rendere i bambini quanto più simili possibile. Le persone che si conformano sono prevedibili, e questo è di grande utilità a quelli che desiderano bardare e manipolare un'ampia forza lavoro.

3) La funzione diagnostica e direttiva. La scuola deve determinare l'adeguato ruolo sociale di ogni studente. Ciò viene fatto registrando prove matematiche e aneddotiche su registri cumulativi. Come nel "tuo schedario permanente". Sì, ne hai uno.

4) La funzione differenziativa. Una volta che il loro ruolo sociale è stato "diagnosticato", i bambini vanno divisi per ruolo e addestrati solo quanto merita la loro destinazione nella macchina sociale - e non un attimo di più. Ecco il "meglio personale" dei ragazzi.

5) La funzione selettiva. Essa non si riferisce affatto alla scelta umana, ma alla teoria della selezione naturale di Darwin applicata a quelle che egli chiamò "le razze favorite". In breve, l'idea è far procedere le cose tentando coscientemente di migliorare il bestiame da riproduzione. Le scuole devono marcare gli inadatti –- con voti bassi, corsi di recupero, ed altre punizioni -- abbastanza chiaramente che i loro compagni li accetteranno come inferiori e li interdiranno dalle lotterie riproduttive. Ecco a cosa servono tutte quelle piccole umiliazioni dalla prima elementare in su: acqua per lavare via lo sporco.

6) La funzione propedeutica. Il sistema societario implicato da queste regole richiederà un gruppo elitario di guardiani. A quel fine, ad una piccola frazione di ragazzi sarà silenziosamente insegnato come gestire questo progetto continuo, come osservare e controllare una popolazione deliberatamente istupidita e a cui sono stati tolti gli artigli in modo che il governo possa procedere senza contestazioni e le aziende non debbano più preoccuparsi di come avere una classe lavoratrice obbediente.

Questo, sfortunatamente, è lo scopo dell'educazione pubblica coercitiva in questo paese. E se credete che Inglis fosse un maniaco isolato con una posizione fin troppo cinica sull'industria educativa, dovreste sapere che non era affatto solo nel sostenere queste idee. Lo stesso Conant, basandosi sulle idee di Horace Mann ed altri, si batté senza sosta per un sistema scolastico statunitense ideato sulle stesse direttive. Uomini come George Peabody, che finanziò la causa dell'istruzione obbligatoria nel Sud, capirono sicuramente che il sistema prussiano era utile nel creare non solo un elettorato inoffensivo e una forza-lavoro servile, ma anche un gregge di consumatori idioti. Col tempo molti giganti dell'industria giunsero a riconoscere gli enormi profitti possibili coltivando e badando proprio ad un tale gregge mediante l'educazione pubblica. Tra di loro: Andrew Carnegie e John D. Rockefeller.

Eccoci. Ora lo sapete. Non abbiamo bisogno del concetto di guerra tra le classi di Karl Marx per vedere che istupidire le persone, demoralizzarle, dividerle le une dalle altre e scartarle se non si conformano è tutto negli interessi del complesso gestionale, economico e politico. La nozione di 'classe' può essere adottata come la base della proposta, come quando Woodrow Wilson, allora Presidente dell'Università di Princeton, disse quanto segue all'Associazione degli Insegnanti Scolastici della città di New York nel 1909: "Vogliamo una classe di persone che abbia un'educazione liberale, e vogliamo un'altra classe di persone, una classe molto più ampia, necessariamente, in ogni società, che rinunci ai privilegi di un'educazione liberale e si conformi a eseguire specifici ed impegnativi compiti manuali". Ma non è affatto necessario che i motivi dietro le disgustose decisioni atte a creare questi fini siano basati sulla classe. Possono scaturire semplicemente dalla paura, o dall'idea ormai famigliare che la cosiddetta "efficienza" sia la virtù primaria, al posto di amore, libertà, gioia o speranza. Soprattutto, possono scaturire dalla semplice avidità.

C'erano vaste fortune da fare, dopotutto, in un'economia basata sulla produzione di massa e organizzata per favorire le grandi aziende piuttosto che quelle piccole o la fattoria famigliare. Ma la produzione di massa richiede un consumo di massa, e alla volta del ventesimo secolo la maggior parte degli Statunitensi considerava innaturale e poco saggio fare cose di cui non aveva davvero bisogno. L'istruzione coercitiva è stata una manna, in questo senso. La scuola non aveva bisogno di insegnare ai bambini in modo diretto a pensare che avrebbero dovuto consumare non-stop, perché ha fatto qualcosa di ancora meglio: li ha incoraggiati a non pensare affatto. E questo li ha resi bersagli facili per un'altra grande invenzione dell'era moderna - il marketing.

Ora, non dovete aver studiato marketing per sapere che ci sono due gruppi di persone che possono sempre essere convinti a consumare più di quanto abbiano bisogno: i dipendenti [nel senso di "dipendente da qualcosa", come "tossicodipendente" – ndt] e i bambini. La scuola ha fatto un buon lavoro nel trasformare i nostri figli in dipendenti, ma ha fatto un lavoro spettacolare nel trasformare i nostri bambini in bambini. Di nuovo, non è un caso. I teorici da Platone a Rousseau al nostro dottor Inglis sapevano che se i bambini potevano essere rinchiusi con altri bambini, privati di responsabilità ed indipendenza, incoraggiati a sviluppare solo le banalizzanti emozioni di avidità, invidia, gelosia, e paura, cresceranno in età ma non diverranno mai grandi. Nell'edizione del 1934 del suo allora ben noto libro Public Education in the United States (5), Ellwood P. Cubberley spiegò in dettaglio ed esaltò il modo in cui la strategia di progressivi ampliamenti scolastici avesse prolungato l'infanzia da due a sei anni, nonostante l'istruzione obbligatoria fosse ancora una novità. Lo stesso Cubberley — che era decano della Facoltà di Educazione a Stanford University, un curatore di libri di testo alla Houghton Mifflin [notevole casa editrice di testi scolastici – ndt], oltre che amico e corrispondente di Conant ad Harvard — aveva scritto quanto segue nell'edizione del 1922 del suo libro Public School Administration: "Le nostre scuole sono... fabbriche in cui i prodotti grezzi (i fanciulli) devono essere modellati e foggiati... Ed è compito della scuola costruire i suoi alluni secondo le specifiche stabilite".

È perfettamente ovvio dalla nostra società di oggi quali erano quelle specifiche. La maturità è stata bandita da quasi ogni aspetto della nostra vita. Le leggi sul divorzio facile hanno rimosso la necessità di lavorare sulle relazioni; il credito facile ha rimosso la necessità dell'auto-controllo fiscale; il divertimento facile ha rimosso la necessità di imparare a divertirsi; le risposte facili hanno rimosso la necessità di fare domande. Siamo diventati una nazione di bambini, lieti di cedere i nostri giudizi e voleri alle esortazioni politiche e alle lusinghe commerciali che dovrebbero essere un insulto per dei veri adulti. Compriamo televisori, e poi compriamo le cose che vediamo sul televisore. Compriamo computer, e poi compriamo le cose che vediamo al computer. Compriamo scarpe da ginnastica da 150 dollari sia che ne abbiamo bisogno o meno, e quando deperiscono troppo presto ne compriamo un altro paio. Guidiamo SUV e crediamo alla bugia che costituiscano una sorta di assicurazione sulla vita, anche quando siamo capovolti dentro uno di essi. E, peggio di tutto, non battiamo ciglio quando Ari Fleischer [portavoce della Casa Bianca 2001-2003, all'inizio della "guerra contro il terrore" – ndt] ci dice di "essere cauti in quel che diciamo", anche se ricordiamo di aver sentito da qualche parte ai tempi della scuola che l'America è la terra dei liberi. Semplicemente, beviamo anche questa. La nostra istruzione, come progettato, se n'è occupata.

Ora le buone notizie. Una volta che avete capito la logica dietro l'istruzione moderna, i suoi trucchi e le sue trappole sono piuttosto facili da evitare. La scuola addestra i bambini ad essere impiegati e consumatori; insegnateli ad essere leader e avventurieri. La scuola addestra i bambini ad obbedire riflessivamente; insegnate ai vostri figli a pensare criticamente ed indipendentemente. I ragazzi ben istruiti hanno una bassa soglia della noia; aiutate i vostri a sviluppare una vita interna in modo da non essere mai annoiati. Sollecitate i vostri ragazzi a provare del materiale serio, in storia, letteratura, filosofia, musica, arte, economia, teologia - tutto quello che gli insegnanti sanno benissimo evitare. Sfidate i vostri ragazzi con molta solitudine, così che imparino a godere della loro stessa compagnia, a condurre dialoghi interni. Le persone ben istruite sono condizionate a temere la solitudine, e cercano una costante compagnia con la TV, il computer, il telefonino, e con amicizie poco profonde, presto acquisite e presto abbandonate. I vostri figli dovrebbero avere una vita più significativa, e possono averla.

Prima, però, dobbiamo svegliarci riguardo a quel che sono davvero le scuole: laboratori di sperimentazione su giovani menti, centri di addestramento per le abitudini e gli atteggiamenti che richiede la società aziendale. L'educazione coercitiva serve ai bambini solo accidentalmente; il suo reale scopo è trasformali in servi. Non lasciate che anche i vostri figli abbiano delle infanzie estese, anche solo per un altro giorno. Se David Farragut poté prendere il commando da pre-adolescente di una nave da guerra britannica conquistata , se Thomas Edison poté pubblicare un manifesto all'età di 12 anni, se Benjamin Franklin poté impratichirsi ad un tipografo alla stessa età (e poi intraprendere un corso di studi che stupirebbe un senior di Yale oggi), è inesprimibile quello che potrebbero fare i vostri ragazzi. Dopo una lunga vita, e trent'anni nelle trincee della scuola pubblica, ho concluso che il genio è comune come lo sporco. Sopprimiamo il nostro genio solo perché non ci siamo ancora immaginati come gestire una popolazione di uomini e donne educati. La soluzione, penso, è semplice e gloriosa. Lasciare che si gestiscano da soli.
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Note


1. "No Child Left Behind" (NCLB – Nessun bambino lasciato indietro) è il nome di un programma del governo statunitense con lo scopo apparente di aiutare alunni che hanno svantaggi nell'apprendimento. Il Congresso ha votato la legge "No Child Left Behind Act" (Public Law 107-110) nel dicembre 2001. Un piccolo paragrafo (n. 9528) del No Child Left Behind Act creava un dovere sulla parte delle scuole secondarie di fornire l'elenco dei loro allievi ai reclutatori militari quando venga richiesto, con il risultato che alcuni genitori chiamano il programma "No Child Left Unrecruited". Vedi http://www.ed.gov/nclb/landing.jhtml, oppure http://en.wikipedia.org/wiki/No_Child_Left_Behind_Act.

2. Friedrich Wilhelm von Steuben (1730-1794), un veterano dello Stato Maggiore prussiano, nell'estate del '77 incontrò a Parigi il ministro degli esteri della nascente repubblica americana – Benjamin Franklin. Ottenne da questi una lettera di introduzione al comandante in capo dell'Esercito Continentale – George Washington – e da febbraio 1778 era aiutante del generale Washington all'accampamento invernale di Valley Forge. Con la sua conoscenza di guerra e dei metodi di addestramento, von Steuben diventò il padre dell'esercito americano. In seguito suo nome è stato dato a diversi navi di guerra e luoghi negli Usa. Vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Friedrich_Wilhelm_von_Steuben.

3. La Columbine High School, nel comune di Columbine vicino a Denver, Colorado, è noto per il "Columbine Massacre" del 20 aprile 1999, un massacro di 12 studenti e 1 insegnante da parte di 2 studenti fortemente armati, che alla fine si uccisero. Vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Columbine_High_School_massacre.

4. L'edizione del 1960 è disponibile online gratis in formato TXT, PDF, e DJVU, a http://www.archive.org/details/childtheparentan012902mbp.

5. L'edizione del 1947 è disponibile online gratis in formato TXT, PDF, e DJVU, a http://www.archive.org/details/publiceducationi032029mbp.

(Scelto da Anton Kleugten e tradotto da Carlo Martini per www.comedonchisciotte.org)