"Non c'è modo di evitare il collasso finale di un boom indotto da un'espansione creditizia. La scelta è solo se la crisi debba avvenire prima come risultato dell'abbandono volontario di un'ulteriore espansione del debito o più tardi con la totale catastrofe del sistema monetario coinvolto"
(Ludwig von Mises)

Tuesday, May 26, 2009
Ci vediamo all'angolo
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Paxtibi
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5/26/2009 12:44:00 AM
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Saturday, February 21, 2009
Liberi dalla libertà
L’edizione di ieri di Libero, giornale diretto da Vittorio Feltri, presentava un titolo tanto inquietante quanto rivelatore:
Un liberale ottocentesco che si trovasse catapultato in questo 2009 farebbe una grandissima fatica ad orientarsi. Seguendo la semantica si troverebbe ad appoggiare, forse, un partito che porta il nome di “Popolo delle Libertà” ed a leggere proprio un giornale come Libero, dove tra l'altro scrivono molti di quelli che si considerano "intellettuali liberali."
Prenderebbe una cantonata colossale.
Le parole “libertà” e “libero”, infatti, hanno assunto oggi un significato molto limitato e circostanziato che non ha nulla a che spartire con quello ricoperto in passato. Per capire cosa è successo può essere utile leggere un brano tratto da 1984, capolavoro letterario di George Orwell:
“Il suo lessico [della Neolingua] era costituito in modo tale da fornire espressione esatta e spesso assai sottile a ogni significato che un membro del Partito potesse desiderare propriamente di intendere. Ma escludeva, nel contempo, tutti gli altri possibili significati, così come la possibilità di arrivarvi con metodi indiretti. Ciò era stato ottenuto in parte mediante l'invenzione di nuove parole, ma soprattutto mediante la soppressione di parole indesiderabili e l'eliminazione di quei significati eterodossi che potevano essere restati e, per quanto era possibile, dei significati in qualunque modo secondari. Daremo un unico esempio. La parola libero esisteva ancora in Neolingua, ma poteva essere usata solo in frasi come "Questo cane è libero da pulci" ovvero "Questo campo è libero da erbacce". Ma non poteva essere usata nell'antico significato di "politicamente libero" o "intellettualmente libero" dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più, nemmeno come concetto, ed era quindi, di necessità, priva di una parola per esprimerla.”Risulta chiaro che quando utilizziamo il termine “libertà”, oggi, lo possiamo fare soltanto in frasi come “Previti è stato condannato a due anni di libertà vigilata” oppure come “Mills viene condannato per corruzione mentre Berlusconi rimane libero.”
A questo solo significato di “libertà,” ovvero il "non trovarsi in carcere," ci riferiamo oggi quando parliamo del partito di Berlusconi oppure del giornale di Feltri.
Non esiste un giornale “politicamente o intellettualmente libero” e nemmeno un partito che ponga come proprio obiettivo la tutela delle “libertà politiche ed economiche di tutti gli individui”. Non esistono, infine, nemmeno “intellettuali liberali” che scrivono per quel giornale e sposano la causa di quel partito.
Esistono, invece, intellettuali che si definiscono liberali e liberisti ma che appoggiano un intervento invasivo e totalitario dello Stato nella vita degli individui, lo sterminio di migliaia di persone, la soppressione delle libertà individuali ed il controllo dell’informazione; il tutto dietro lo spauracchio della crisi economica, del terrorismo internazionale, dei cattivi internauti che inneggiano ai mafiosi….
Nell’archeolingua esistevano diversi termini per definire queste persone ma due sono più che sufficienti: ipocriti e fascisti.
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Paxtibi
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2/21/2009 06:43:00 PM
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Friday, January 18, 2008
Got money?

Chissà quanto bisognerà aspettare per vedere esposta la spiegazione austriaca dell'inflazione sui quotidiani nazionali: evidentemente la capacità di prevedere gli eventi economici non è un requisito sufficiente per venir pubblicati. Non quanto la capacità di stendersi a zerbino, senza dubbio.
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Cos'è veramente l'“inflazione”?
di Marco Bollettino
Quante volte avete sentito parlare di “pericolo inflazione” nelle ultime settimane? Moltissime, vero?
E se qualcuno vi chiedesse che cos’è, esattamente, l’inflazione?
Probabilmente la risposta sarebbe questa:
“L’inflazione è l’aumento continuo e generalizzato del livello dei prezzi”
Questa è la definizione più accettata e diffusa al giorno d’oggi ma, come vedremo, è ingannevole ed imprecisa.
La cosa è evidente non appena ci si domanda quali siano le cause dell’inflazione.
Secondo quanto hanno riportato i giornali ad ottobre il rischio inflazione era dettato dall’aumento del prezzo del pane e della pasta., a novembre era invece la benzina. a “far correre” l’inflazione mentre a dicembre il governatore della Banca Centrale Europea, ...
... Claude Trichet, avvertiva di un pericolo di inflazione in caso di aumento dei salari
A gennaio, infine, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, fa un bilancio del 2007 e spiega che la causa dell’inflazione sarebbe da ricercarsi “soprattutto negli aumenti dei prezzi internazionali del greggio e dei beni agricoli”.
L’inflazione sarebbe quindi l’aumento dei prezzi ed i prezzi in aumento… causerebbe l’inflazione!
Corollario di questo ragionamento circolare è che i rincari spesso avvengano a causa di comportamenti opportunistici e speculativi da parte dei negozianti e dei distributori e che quindi il governo possa combattere l’inflazione istituendo un garante, il cosiddetto Mr. Prezzi.
Inflazione monetaria
Ma in un mondo in cui progressivamente le parole si sono svuotate del loro significato (si pensi al termine “missione di pace” per indicare gli interventi militari in Iraq ed Afghanistan) anche il termine “inflazione” ha seguito un simile destino.
Se vogliamo quindi comprendere che cosa sia realmente l’inflazione ed in quale modo causi l’aumento continuativo e generalizzato dei prezzi, dobbiamo tornare alla sua definizione originaria, ovvero quella utilizzata dalla scuola austriaca di economia e qui enunciata da Mises:
“L'inflazione, per come questo termine è sempre stato usato ovunque e specialmente in questo paese, sta ad indicare l'incremento della quantità di moneta e di banconote in circolazione e nei conti correnti. Ma la gente oggi usa il termine inflazione per indicare il fenomeno che non è nient'altro che una conseguenza dell'inflazione stessa, ovvero la tendenza di tutti i prezzi e dei salari di aumentare.”
Insomma, come diceva Ugo Tognazzi, “Inflazione significa essere povero con tanti soldi in tasca”
Vediamo ora per quale motivo, in caso di aumento della quantità di moneta in circolazione, i prezzi tendono a salire:
Immaginiamo che Giorgio l'ortolano si rechi al mercato rionale per vendere le sue patate. Dall'esperienza delle settimane passate sa che fissando il prezzo a 2 euro il Kg riuscirà a vendere tutti e 15 i Kg di patate che ha portato con sé.
In piazza ci sono Anna, Beatrice e Carla che sono scese per fare la spesa: ognuna ha deciso di destinare 10 euro all'acquisto di patate dall'ortolano. Passa prima Anna e ne compra 5 kg, poi Beatrice fa lo stesso ed infine, nella tarda mattinata è il turno di Carla, che acquista gli ultimi 5 kg.
La settimana seguente il prezzo delle patate è sempre di 2 euro ma nel frattempo è successo qualcosa. Anna ha infatti sposato un bravissimo falsario ed ora può destinare all'acquisto di patate 20 euro, di cui 10 falsi.
All'apertura del mercato Anna acquista subito 10 Kg di patate e se ne va. Quando poco dopo giunge Beatrice e compra gli ultimi 5 chili Giorgio si ritrova senza più mercanzia. Siamo solo a metà mattinata e le patate sono già state tutte vendute: non c'è più nulla per Carla, che torna a casa a mani vuote.
Nei giorni seguenti Giorgio ragiona tra sé e sé: “Poiché non posso portare al mercato più di 15 chili di patate e dal momento che a 2 euro le ho vendute tutte subito, potrei provare ad aumentare il prezzo!”
Detto, fatto. La settimana successiva il prezzo delle patate è di 2 euro e cinquanta al chilo.
Come al solito passa Anna con i suoi 20 euro, con i quali ora può acquistare solo 8 kg di patate, seguita da Beatrice e Carla, le quali si dividono a metà gli ultimi 7 chili, pagando 8 euro e 75 centesimi a testa.
Giorgio l'ortolano se ne torna a casa con 37.5 euro, sette e mezzo in più della settimana precedente.
Che cosa ci insegna questo breve aneddoto esemplificativo?
- I primi a ricevere la moneta nuova incrementano il loro reddito a spese di chi la moneta non la riceve:
Anna riesce in un primo tempo ad acquistare i prodotti al “prezzo vecchio” ed anche dopo l’adeguamento dei prezzi può comprare più patate di quanto riuscisse a fare in partenza (+3 Kg), il tutto a spese di Carla e Beatrice (-1,5 Kg a testa).
- Il prezzo aumenta in seguito ad un incremento della domanda
Giorgio non aumenta il prezzo delle patate perché è un negoziante cattivo e speculatore ma lo fa in seguito ad un aumento della domanda di patate innescata dai dieci euro falsi di Anna. Un eventuale intervento governativo volto a calmierare il prezzo non farebbe altro che peggiorare la situazione (nel cap. XII dei Promessi Sposi Manzoni ne dà una splendida descrizione).
- I prezzi non vengono adeguati in modo istantaneo ed uniforme
Trascorre del tempo tra l’introduzione della moneta nuova e l’aumento effettivo dei prezzi e questi ultimi non aumentano in modo uniforme. Vediamo perché:
Siamo sempre al mercato e stavolta ci occupiamo di Dario il macellaio.
Anna è vegetariana, Carla e Beatrice spendono ogni settimana 10 euro per comprare del filetto ed a fine giornata Giorgio l’ortolano destina un terzo dei suoi ricavi (10 euro) all’acquisto di carne.
Immaginiamo che la prima settimana il prezzo della carne sia di 10 euro al Kg e che Dario abbia in negozio 3 Kg di carne, che vengono tutti venduti. Per tre settimane tutto continua come prima fino alla sera della quarta settimana, quando Giorgio arriva in negozio con 13 euro (ne ha incassati 37,5) e vorrebbe acquistare della carne che però non c'è.
Che cosa accadrà la settimana seguente al prezzo della carne?
Dario lo aumenta ad 11 euro al chilogrammo! Tra l'altro sua moglie Laura sì era lamentata con lui per l’"immotivato" aumento del prezzo delle patate....
Col passare del tempo, man mano che la nuova moneta “circola” nell'economia, vi sono adeguamenti nei prezzi di tutti i beni (ed eventualmente anche nei salari), ma in tempi ed in modalità diverse: la settimana successiva all'introduzione dei 10 euro falsi il prezzo delle patate è aumentato del 25% mentre quella seguente è toccato alla carne rincarare del 10%.
L’effetto globale è proprio quello di un aumento continuo e generalizzato dei prezzi e dei salari accompagnato da un trasferimento di ricchezza reale dagli ultimi a “ricevere la moneta nuova” (i salariati il cui stipendio aumenta solo alla fine) verso i primi ad utilizzarla.
Ma nel mondo reale chi è il falsario e soprattutto chi è Anna?
Banca Centrale, il falsario “a norma di legge”
Nessuno avrebbe dubbi nel definire furto l’attività di un falsario, anche quando i lestofanti sono interpretati da Totò e Peppino, come nel film “La banda degli onesti”.
Quando invece il “falsario” è monopolista e svolge la sua attività per legge ecco che la sua attività cessa di essere furto e diventa “politica monetaria” mentre l’immissione in circolazione di nuove banconote create dal nulla viene salutata come “iniezione di liquidità per stimolare l’economia”.
Il meccanismo con cui vengono messe in circolazione le nuove banconote non è semplice: la Banca Centrale Europea non va come Totò a far compere dal tabacchino
Quello che fa è invece regolare il sistema delle banche commerciali stabilendone i requisiti di riserva obbligatoria, ovvero la percentuale dei titoli e soprattutto dei depositi che deve essere depositata presso la Banca Centrale, fissando il tasso di interesse per i propri prestiti ed intervenendo come “prestatore di ultima istanza” ogni volta che le banche si trovano in difficoltà.
Ecco ad esempio i dati pubblicati a dicembre dalla Banca Centrale Europea:
Il broad monetary aggregate M3, ovvero la stima di tutta la moneta circolante e creditizia presente nel sistema, ha registrato un aumento dell'11,5% rispetto allo stesso mese del 2006.
Scordatevi la figura dell’usuraio violento e senza cuore: se siete “Anna” ovvero le banche commerciali, la BCE e la Fed saranno sempre pronte a prestarvi del denaro fresco di stampa!
Non sono le “patate” però l’obiettivo privilegiato degli investimenti bancari. Gli istituti di credito, sicuri di avere le spalle coperte dalla Banca Centrale, si comportano piuttosto come un giocatore d’azzardo che punta su investimenti sempre più rischiosi senza preoccuparsi delle conseguenze.
Così nascono le bolle speculative e così si determinano le crisi che seguono.
Come dite? Sono aumentati i prezzi di latte e uova? Chissà perché!
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Euroinflazione
Di Jeffrey M. Herbener
I membri dell'Unione Economica e Monetaria non hanno potuto nemmeno aspettare l'avvento ufficiale dell'euro il 1 gennaio 1999 per rivelare il suo futuro. Il taglio del tasso di interesse in tutta la UEM nel dicembre del 1998, un tentativo in stile Keynes di anticipare una recessione, era il vero presagio delle cose a venire. Inflazione monetaria ed espansione del credito sono il destino che attendono gli europei e la loro nuova valuta.
Dietro la facciata pubblica dei benefici di una singola moneta, i funzionari della UEM vogliono l'euro allo scopo di coordinare una politica monetaria allentata su tutto il continente. Una singola valuta di carta può essere inflazionata senza il dolore della svalutazione che ne consegue nell'Europa delle molte valute. Come gli asiatici orientali, i russi ed i brasiliani sanno, la svalutazione può essere effettivamente dolorosa. E perfino nei casi in cui l'inflazione monetaria precedente non è sufficiente per causare tale trauma finanziario, la svalutazione contrasta le politiche fiscali e monetarie dei governi.
Se la spinta per la singola valuta interessasse soltanto i benefici dell'eliminazione dei costi e delle incertezze inerenti agli scambi di valuta, allora l'Unione Europea avrebbe optato per una parità aurea pura. L'euro si fa per questi benefici quanto il Nafta per il libero scambio.
Nella sua spinta per il potere politico sul mercato, l'UE ha adottato una strategia pericolosa con l'euro. Perché diversamente dal ristabilire una parità aurea, per partorire l'euro l'UE affronta un rischio della legge economica.
Ogni istituzione che introduce una nuova moneta deve riscattarla con i soldi attuali ad un tasso fisso. Solo allora la gente conoscerà il potere d'acquisto della nuova moneta negli scambi del mercato. Senza prezzi definiti nella nuova moneta per tutte le merci e i fattori allo stesso tempo l'oggetto non può trasformarsi in denaro.
Questa legge regge anche per una valuta iper-gonfiata quale il marco tedesco degli anni '20. Subito dopo che la Reichsbank ebbe azionato le presse tipografiche, i prezzi in Germania cominciarono a salire. Per la fine del 1922, i prezzi erano 1.475 volte il loro livello prebellico. Un anno più tardi, i prezzi erano un trilione di volte più su.
Alla conclusione della prima guerra mondiale ci volevano quattro marchi per comprare un dollaro nei mercati di cambio. Nel luglio del 1922, 493 marchi erano necessari comprare un dollaro, entro il gennaio del 1923 il marco aveva svalutato a 17.792 contro il dollaro ed al picco iper-inflazionistico del novembre 1923 i tedeschi dovevano pagare 4,2 trilioni di marchi per comprare un dollaro.
L'iper-inflazione si concluse il 20 novembre 1923 quando il governo tedesco sostituì il vecchio marco con il nuovo rentenmark ad un tasso ufficiale di 4,2 marchi per dollaro o un nuovo marco per i vecchi marchi da un trilione.
Nel novembre del 1923, il prezzo di un francobollo tedesco era 500 miliardi di marchi (era 20 pfennigs prima dell'iper-inflazione). Ad un tasso di cambio di un trilione di vecchi marchi per un nuovo marco, un cliente sapeva di pagare 50 pfennigs per un francobollo. Se lo stipendio orario di un operaio di fabbrica era di 4 trilioni di vecchi marchi, un imprenditore sapeva di dover pagare 4 nuovi marchi. Senza aver fissato il tasso di cambio fra i vecchi ed i nuovi soldi, la gente non avrebbe potuto stimare i prezzi nella nuova valuta e non avrebbe quindi potuto usarli come denaro.
Quando i tedeschi sostituiscono per la seconda volta in questo secolo il loro marco, l'euro deve essere denaro non soltanto per i tedeschi ma per tutti gli europei. Cominciando in gennaio, l'euro sarà introdotto in ciascuno degli undici paesi della UE che hanno soddisfatto le condizioni per la partecipazione alla UEM. Il 2 maggio di quest'anno, i rappresentanti dei 15 stati membri dell'UE hanno deciso i tassi fissi di cambio fra ciascuna delle valute domestiche degli undici paesi della UEM e l'euro. Un euro sarà equivalente a 1,98 marchi tedeschi, a 13,91 schillings austriaci, a 6,33 franchi francesi, a 168,20 pesetas spagnole, a 202,70 escudos portoghesi, a 1958,0 lire italiane, a 40,78 franchi belgi, a 2,23 fiorini olandesi, a 6,01 marchi finlandesi, a 0,80 punt irlandesi ed a 40,78 franchi lussemburghesi.
Per rendere l'euro moneta, la Banca Centrale Europea (BCE) o la banca centrale di ogni Stato membro o entrambe devono redimere gli euro per ogni valuta domestica al relativo tasso fisso. Ma fissando il tasso di cambio di ogni valuta domestica contro l'euro, i paesi della UEM fissano il tasso di cambio di ogni valuta domestica contro ogni altra valuta domestica. Se scambio 1,98 marchi per un euro e così 13,91 schillings, devo quindi cambiare 7.025 schillings per un marco. Quando la BCE acconsente per redimere 1,98 marchi per un euro e 13,91 schillings per un euro, sta acconsentendo a redimere 7.025 schillings per un marco.
Per tre anni dopo la sua introduzione, fino a gennaio 2002, l'euro verrà usato dai governi e dalle istituzioni finanziarie. Assetti finanziari saranno denominati, conti saranno tenuti, debito verrà emesso e le riserve saranno tenute in euro. I primi rapporti hanno sostenuto che l'euro verrà scambiato contro altre valute nei mercati internazionali di cambio. Ma la recente agitazione finanziaria sembra avere sciolto questa ambizione. Per ora, le dichiarazioni pubbliche implicano che l'euro sarà soltanto un ECU glorificato, l'attuale "unità di conto" del paniere dell'UE.
Questa ritirata è comprensibile poiché, sui mercati valutari internazionali, i tassi di cambio sono in perpetua fluttuazione. Ed i tassi di cambio europei in particolare hanno una storia di volatilità. Ogni variazione del tasso di cambio del mercato fra due valute ed il tasso fisso di redenzione genererà vantaggiose possibilità di arbitraggio per gli speculatori di valuta.
Per esempio, se lo schilling svaluta contro il marco nei mercati internazionali a 10 - 1 mentre la BCE riacquista gli schillings a 7.025 - 1, allora gli speculatori di valuta venderanno un marco per 10 schillings sul mercato di valuta estero, porteranno i 10 schillings alla BCE e li cambieranno con 1,42 marchi per un guadagno del 42%. Quello che gli speculatori guadagnano, la BCE perde, e alla fine la BCE esaurirebbe la propria riserva di marchi.
Le sue riserve potrebbero essere riempite soltanto tramite i contributi degli stati membri dell'UE. Ma questo richiederebbe tassazione domestica o inflazione monetaria. L'inflazione di una valuta domestica eserciterà soltanto la pressione su di essa a svalutarsi contro altre valute aggravando il problema originale. Tasse addizionali provocherebbero invece risentimento e resistenza.
Neppure la conversione completa della prestazione economica e l'armonizzazione perfetta della politica fiscale e monetaria fra gli undici paesi dell'UE assicurerebbero il mantenimento dei tassi di cambio fisso fra le loro valute. Le svalutazioni e gli apprezzamenti delle valute fuori del blocco dell'euro possono rompere i collegamenti fissi. La svalutazione russa del rublo ha il potenziale di esercitare molta più pressione a cambiare il valore del marco che della peseta poiché la banca tedesca ha investito pesantemente nel debito russo.
Se i fallimenti bancari in Germania inducono la massa monetaria a restringersi o crescere meno velocemente del tasso armonizzato che mantiene il tasso di cambio del marco contro la peseta, allora il marco si apprezzerebbe contro la peseta. L'unico modo di impedirlo è che la Bundesbank neutralizzi la deflazione monetaria con un'inflazione monetaria più veloce. Ma questo disturberebbe l'armonizzazione della politica monetaria fra i paesi.
L'UE non può eludere per sempre la legge economica usando l'euro soltanto come "unità di conto." Se deve transformarsi in moneta, alla fine l'UE deve consentire il commercio nazionale ed internazionale dell'euro a tassi di estinzione fissi. Il programma corrente è di avere un semestre, dopo la fine dell'introduzione triennale il 1 gennaio 2002, dove l'euro sarà usato dalla gente negli undici paesi della UEM, insieme alle loro valute domestiche, per comprare e vendere le merci. Il 1 luglio 2002, secondo il programma, ogni valuta domestica perderà la sua condizione di moneta a corso legale e sarà ritirata dall'uso.
Le prospettive per questo schema sono dubbi nel migliore dei casi. E non sono necessarie se l'UE è seria nel dare ai popoli europei i benefici della moneta comune. Il raggiungimento del quell'obiettivo richiede soltanto di abbandonare l'invenzione di una nuova moneta artificiale e controllata dal governo e di ristabilire la vecchia e naturale moneta del mercato: l'oro.
Ritornare alla parità aurea non presenterebbe il problema che la UE affronterà con l'introduzione dell'euro. Ogni Stato membro semplicemente renderebbe la propria scorta di denaro redimibile in oro ad un tasso fisso che esaurisca le proprie riserve di oro. Se la Germania ha 100 milioni di marchi in moneta e 50 milioni di once in riserve d'oro, allora dovrebbe promettere di riacquistare un marco per la metà di un'oncia d'oro. Se la Francia ha 500 milioni di franchi in moneta e 25 milioni di once in riserve d'oro, allora dovrebbe fissare il tasso di cambio di un franco per un ventesimo di un'oncia d'oro. Se ogni paese facesse lo stesso allora l'oro si trasformerebbe nella moneta comune in tutta l'Europa.
I prezzi di tutte le merci sarebbero definiti, fondamentalmente, in oro e le valute domestiche sarebbero accettate dappertutto. La gente saprebbe che se il prezzo di una bottiglia di vino francese a Parigi è di un franco allora potrebbe essere comprato per 10 pfennigs poiché ciascuno di questi prezzi in valuta è un ventesimo di un'oncia d'oro. E finché le valute saranno al cento per cento sostenute dall'oro, il venditore di vino francese potrà accettare il pagamento in franchi o in marchi poiché sta ricevendo, in entrambi i casi, la proprietà della stessa quantità di oro. Alla stessa maniera, a tutti gli operai sarebbero pagati gli stipendi in oro.
Una parità aurea pura offrirebbe i benefici della valuta comune: eliminando sia la necessità di commerciare le valute per comprare e vendere merci internazionalmente, sia l'incertezza delle fluttuazioni del tasso di cambio. E, diversamente dall'euro, il denaro in una parità aurea non può essere manipolato dai funzionari di governo. Significherebbe la fine dell'inflazione dei prezzi e dei cicli delle bolle che derivano dall'inflazione della banca centrale e dall'espansione del credito monetario.
Ma perchè aspettare l'Europa? L'America ha l'economia principale e la valuta più importante del mondo. Sarebbe bene per una riforma monetaria internazionale cominciare a rendere il dollaro di nuovo buono quanto l'oro.
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1/18/2008 05:44:00 PM
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Thursday, November 8, 2007
Piccole storie di provincia
Di Marco Bollettino (Ashoka)
Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati?
(Sant'Agostino, De Civitate Dei)
Abbiamo lavorato per la fine della clamorosa e vergognosa illegalità che dominava sotto Berlusconi
(Furio Colombo)
La nostra storia ha inizio negli anni novanta, in una sala riunioni di Ivrea, dove un manipolo di alti dirigenti sta decidendo le sorti dell'Olivetti.
Le vie percorribili sono due. La prima strada, irta di ostacoli, prevede il rilancio dell'azienda in quello che è il suo core business, ovvero l'informatica: quella è la strada che avrebbe scelto un Adriano Olivetti; è la strada difficile.
La seconda invece si presenta più appetibile. Si tratta di liquidare in qualche modo i rami aziendali in perdita e lanciarsi su quello che è il nuovo mercato emergente: la telefonia.
Gli amministratori, manco a dirlo, scelgono la seconda ipotesi.Ed il core business che fine fa?
Olivetti Servizi viene venduta all'americana Wang mentre allo stabilimento di Scarmagno, creato a fine anni sessanta e specializzato nella produzione di personal computer, viene riservato un trattamento speciale.
Per prima cosa si crea ex novo una società (Opc – 1995) e le si affida il ramo aziendale. Quindi questo viene ceduto ad una nuova società (Op Computer) ...
... la quale, costituita nel '96, fallisce per bancarotta in meno di tre anni, nel 1999.
Ecco come i giudici del tribunale di Ivrea hanno ricostruito il triste destino dello stabilimento di Scarmagno, nelle motivazioni della sentenza di primo grado (11 Luglio 2007), per la bancarotta di Op Computer.
“E' raggiunta la prova del fatto che Op Computer sia stata deliberatamente costituita al fine di consentire a Olivetti s.p.a. di 'disfarsi' di un ramo in grave costante perdita, così da poter investire sul mercato della telefonia. Per ottenere tale scopo, gli allora amministratori di Olivetti s.p.a. non hanno esitato a costituire una società del tutto priva di liquidità e di linee di credito, privata, già prima del suo iniziale operare della liquidità ad essa derivata dalla capitalizzazione stessa”Insomma Op computer era una bella scatola vuota dove accumulare tutte le perdite di Olivetti e da far morire in disparte, insieme ai suoi 1200 dipendenti. Nel frattempo la dirigenza poteva lanciarsi nella sua avventura telefonica, iniziata con la creazione di Omnitel ed Infostrada e concretizzatasi con la grandiosa acquisizione di Telecom, nel 1999.
Questa era la cornice.
Veniamo ora ai protagonisti della vicenda, ovvero gli amministratori di Op Computer, i quali, sempre secondo il tribunale di Ivrea “ben conoscevano i dati necessari per avere un quadro complessivo della situazione, sì da comprendere che le scelte operative che effettuavano e l'esecuzione di accordi decisi in altre sedi [..] erano oggettivamente contro gli interessi di Op Computer e, pertanto, avrebbero solo aggravato il dissesto”
Se un ruolo di primattore può essere senz'altro attribuito al “texano” Roberto Schisano, condannato per la vicenda a cinque anni di reclusione e coinvolto in molte altre brutte storie eporediesi, tuttavia è molto interessante soffermarsi su di un altro protagonista della vicenda, ovvero Giovanni Vaccarono.
Membro del Consiglio di Amministrazione di Op Computer, Vaccarono viene chiamato, nel 2002, a presiedere la Società Canavese Servizi, che gestisce la raccolta rifiuti per un consorzio di 57 comuni del Canavese.
L'azienda ha i conti in rosso e va risanata. Non viene forse naturale chiamare alla guida proprio chi ha già tanto bene operato a Scarmagno, accompagnando per mano Op Computer al fallimento e finendo indagato per bancarotta fraudolenta?
Ma S.C.S. è una di quelle aziende pubblico/private che operano in regime di monopolio e che bene incarnano la filosofia del moderno ”socialismo di mercato,” ovvero socializzare i costi e privatizzare i profitti.
Ed infatti i “costi” vengono spalmati su tutto il bacino d'utenza, traducendosi in tariffe più elevate per i cittadini (tanto il servizio è offerto in monopolio!) mentre i profitti vanno ad ingrassare il generoso emolumento mensile percepito dal presidente (venticinquemila euro) e dai suoi colleghi.
Mentre la storia del nostro eroe si avvia al lieto fine ecco però intervenire l'antagonista, o meglio, gli antagonisti. Sono i giudici del tribunale di Ivrea che condannano l'oculato amministratore a 5 anni di reclusione ed interdizione da tutte le cariche pubbliche per quella bancarotta oramai dimenticata.
Qualcuno storce il naso, altri iniziano a protestare, si mormora di questione morale, di legalità.
Passa l'estate e nulla sembra muoversi ma poi, a Settembre, Vaccarono sembra cedere e presenta le dimissioni.
«Non mi sento una persona incollata alla poltrona che occupo. Lo dico sinceramente: non c’è l’attack che mi tiene alla sedia di presidente. E’ un incarico che mi è stato proposto quando l’azienda era in difficoltà e che io ho svolto e svolgo con impegno e con passione»E' la sconfitta dell'eroe oppure si tratta soltanto di una manovra pro forma alla Gustavo Selva?
Non serviva il Santone interpretato da Guzzanti per indovinare la risposta. Erano sufficienti le parole le parole del sindaco di Banchette, il diessino Maurizio Cieol pronunciate qualche mese prima, subito dopo la sentenza di primo grado:
«[Vaccarono]Ha operato con serietà e capacità. Se qualcuno mi chiederà ufficialmente le dimissioni del presidente, le respingerò»Ecco giungere la cavalleria, o meglio la Casta, in aiuto del protagonista.
Le dimissioni presentate da Vaccarono, per divenire operative, devono essere accettate dai sindaci dei comuni consorziati, cosa che puntualmente non è avvenuta. Sono stati infatti solo in quattro i comuni ad accettarle (Parella, Settimo Vittone, Carema e Montalenghe) mentre tutti gli altri le hanno respinte, rinnovando la fiducia all'ex amministratore di Op Computer.
Le ragioni di questa decisione? Ce le spiegano i sindaci:
Elio Ottino (Salerano)
«Nei più altri scranni della nostra società siedono persone che ci rappresentano pur avendo subito condanne in via definitiva e, per quanto a mia conoscenza, non mi risulta che le forze politiche si siano mosse per chiederne la rimozione»Discorso prevedibile da parte di chi si è candidato per la terza volta a sindaco nonostante la legge lo impedisse. Ineleggibile, come altri illustri precedenti.
Maurizio Cieol (Banchette)
«Mi è parso un dibattito maturo e consapevole, concreto e senza demagogia o populismo. Il giudizio positivo sull’operato di Vaccarono è prevalso sull’altro aspetto»Peccato che l'altro aspetto, come abbiamo visto, sia una condanna a 5 anni di reclusione con tanto di interdizione a vita dalle cariche pubbliche. Ed è poco importante se, come ha dichiarato sempre Elio Ottino, « L’azienda è stata gestita in modo egregio» poiché in quella seduta non si dando un giudizio sull'operato di Vaccarono presso S.C.S. ma si stava decidendo se accogliere o meno le sue dimissioni, presentate proprio in conseguenza di quell'altro aspetto.
E' il solito modus operandi, insomma, valido tanto nella Capitale quanto in provincia.
Alla fine di questa storia rimane però un dubbio. la riconferma di Domenico Vaccarono ai vertici di SCS, è stata “pilotata” da gran parte dei sindaci canavesani (in maggioranza appoggiati dalla “sinistra”). Perchè? Domenico Vaccarono non risulta infatti affiliato con il Centro Sinistra.
Cui prodest? si domanderebbe la Medea di Seneca. A chi giova tutto ciò?
La risposta, e se volete la morale del racconto, può essere forse questa.
Se siete stati sindaci ed avete esaurito i vostri due (o tre) mandati, se non vi hanno candidato alla Provincia o alla Regione e vi hanno addirittura rifiutato una poltrona in parlamento, perché non pensare di raggiungere l'ex sindaco di Caluso nel Consiglio di Amministrazione di SCS?
Magari come successore dello stesso Vaccarono?
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Paxtibi
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11/08/2007 02:21:00 PM
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Monday, October 1, 2007
Valore e Scambio: tre diversi approcci
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Di Marco Bollettino (Ashoka)
"I Cartaginesi raccontano anche questo, che vi è una regione della Libia e uomini che la abitano, al di là delle colonne d’Ercole. Quando siano giunti tra questi e abbiano scaricato le mercanzie, dopo averle esposte in ordine lungo la spiaggia risalgono sulla nave e alzano una fumata. Allora gli indigeni vedendo il fumo vanno al mare e poi in sostituzione delle mercanzie depongono oro e si ritirano lontano dalle merci. E i Cartaginesi sbarcati osservano e se l’oro sembra loro degno delle mercanzie lo raccolgono e si allontanano, se invece non sembra degno, risaliti sulla nave di nuovo attendono; e quelli, fattisi avanti, depongono altro oro, finché li soddisfino. E non si fanno torto a vicenda, perché né essi toccano l’oro prima che quelli l’abbiano reso uguale al valore delle mercanzie, né quelli toccano le merci prima che gli altri abbiano preso l’oro"
(Erodoto, Storie IV, 196)
Il racconto di Erodoto illustra ciò che gli antichi intendevano per scambio equo: una lenta e silenziosa trattativa in cui entrambe le parti offrivano le loro mercanzie sino a che non veniva trovato un accordo.
Ma come determinare il valore di queste mercanzie? Oppure dell'oro che veniva offerto in cambio? Esiste un criterio oggettivo per determinare dall'esterno quando uno scambio è equo?
Sin dall'antichità filosofi ed economisti hanno cercato di rispondere a queste domande formulando diverse “teorie del valore”.
Esaminiamo le tre più importanti.
Aristotele, Marx ed il valore oggettivo
Nelle sue opere Aristotele sostiene che ogni bene (una casa, una misura di grano, un letto) ha un suo valore proprio ed oggettivo e quando si effettua uno scambio equo non si fa altro che pareggiare i valori dei beni tramite delle semplici equivalenze.
Siano A una casa, B dieci mine, C un letto. A è la metà di B, se la casa vale cinque mine, o se è uguale a cinque mine. E il letto è la decima parte, C è un decimo di B. E' chiaro pertanto quanti letti costituiscono l'equivalente di una casa, cioè cinque. [..] Infatti non fa nessuna differenza o avere cinque letti in cambio di una casa o pagarli quanto valgono cinque letti.I pilastri di questa teoria sono quindi due:
(Aristotele, Etica Nicomachea, V,8)
- ogni bene è dotato di un “valore” che è oggettivo e misurabile
- uno scambio equo avviene solo tra mercanzie di pari valore
Per il filosofo greco non vi sono dubbi che il valore delle merci scambiate sia uguale: afferma infatti che “non vi sarebbe scambio se non vi fosse uguaglianza, né uguaglianza se non vi fosse commensurabilità”. Tuttavia, sempre Aristotele, nota che “è impossibile che cose tanto diverse siano commensurabili”.
Cos'è questo “valore” che rende rapportabili tra loro una casa e cinque letti? Che cos'è che li renderebbe uguali?
Aristotele non indaga oltre e parla di un generico “bisogno”. Gli economisti classici (Smith, Ricardo e soprattutto Marx) invece individueranno questo principio comune nel “lavoro”.
Il filosofo tedesco, infatti, riprende le argomentazioni di Aristotele e le approfondisce nel primo libro del Capitale in cui afferma:
Prendiamo poi due merci: p. es. grano e ferro. Quale che sia il loro rapporto di scambio, esso è sempre rappresentabile in una equazione, nella quale una quantità data di grano è posta come eguale a una data quantità di ferro, p. es. un quarter di grano = un quintale di ferro. Che cosa ci dice questa equazione? Che in due cose differenti, in un quarter di grano come pure in un quintale di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Dunque l'uno e l'altro sono eguali a una terza cosa, che in sé e per sé non è né l'uno né l'altro.La “terza cosa” sarebbe quel principio che permetteva la “commensurabilità” di cui parlava Aristotele.. Questo qualcosa, il valore di scambio, deve essere indipendente dalle qualità “fisiche” delle merci, che sono ovviamente molto diverse. Secondo Marx “rimane loro soltanto una qualità, [comune a tutte le merci scambiate e cioé] quella di essere prodotti del lavoro”.
(Marx, Il Capitale, Cap. I)
Ricapitolando, per Marx due merci vengono scambiate quando hanno pari valore e quest'ultimo è determinato dalla quantità di lavoro necessario a produrle. Nell'esempio precedente se cinque letti venivano scambiati con una casa era perché “contenevano” la stessa quantità di valore, ovvero le stesse ore di lavoro.
Critiche alla concezione di valore oggettivo
Le critiche che si possono fare a questa teoria sono molteplici e ne verranno presentati solo alcuni esempi.
Innanzitutto si estromette dal processo di scambio quello che è l'attore principale, cioè l'uomo, ed il suo giudizio di valore, che è prettamente soggettivo:
Che differenza c'è, in termini di “valore-lavoro” tra la pallina da baseball con cui Barry Bonds ha realizzato il record di fuoricampo della MLB ed una pallina da baseball qualunque? Nessuna.
Eppure, se messa all'asta, la prima potrebbe essere venduta ad un collezionista per centinaia di miglia di dollari; meno se le accuse a Bonds di aver utilizzato steroidi verranno provate.
Eppure è solo una palla da baseball indistinguibile dalle altre!
In secondo luogo se le merci si scambiano attraverso il loro valore-lavoro non ha alcun effetto, nella determinazione dei prezzi, l'interazione tra domanda ed offerta ma ogni giorno assistiamo al contrario. Marx tenta di giustificare la variazione di prezzo in questo modo:
La grandezza di valore di una merce rimarrebbe quindi costante se il tempo di lavoro richiesto per la sua produzione fosse costante. Ma esso cambia con ogni cambiamento della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro è determinata da molteplici circostanze, e, fra le altre, dal grado medio di abilità dell'operaio, dal grado di sviluppo e di applicabilità tecnologica della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione, dall'entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione, e da situazioni naturali. P. es. la stessa quantità di lavoro si presenta in una stagione favorevole con 8 bushel di grano, in una situazione sfavorevole solo con quattro.
Se però la produttività rimane costante (vengono prodotti sempre 8 bushel di grano) ma cresce la sua domanda, per l'effetto ad esempio di un aumento della popolazione, non si spiegano, con questa teoria, le variazioni di prezzo del grano relativamente agli altri beni, la cui domanda è rimasta costante (ad esempio gli aratri).
Infine Marx sostiene che nello scambio vi sono due fattori:
la motivazione dello scambio, cioè per consumare il bene che riceverò, ovvero quello che Marx chiama “valore d'uso;”
il rapporto di scambio (5 letti per una casa) che è dato invece dal valore-lavoro.
In poche parole se voglio comprare un panino è perché ho fame ma il prezzo che sono disposto a pagare (ovvero il valore di scambio con gli altri beni e con la moneta) è determinato solo dal lavoro necessario a produrlo.
Questo ci conduce alla situazione assurda in cui se il negoziante fissa per un panino un prezzo maggiore del suo valore-lavoro, gli avventori si rifiutano di acquistarlo (pur avendone la possibilità economica!) fino al punto di morire di fame.
Insomma il mondo descritto da Marx è un mondo fittizio popolato di automi che mettono ogni giorno a repentagli la loro vita, non la realtà.
La teoria neoclassica, il valore soggettivo e l'utilità marginale
Nella teoria neoclassica, invece, è l'individuo ad esprimere il giudizio di valore, che pertanto diventa soggettivo e lo fa ricorrendo al concetto di utilità.
Gli uomini, si dice, desiderano acquisire i beni per consumarli e soddisfare i propri bisogni. Ad esempio compriamo un panino perché abbiamo fame, ma potremmo preferire un hamburger oppure, se siamo vegetariani, optare per un'insalata.
E' quindi l'individuo a dare valore alle cose in base alle sue preferenze ed alla situazione in cui si trova: difficilmente daremo lo stesso valore ad un gelato in inverno ed in estate!
Il giudizio di valore, inoltre, non si esprime soltanto riguardo la categoria generale (preferisco l'acqua alla coca cola per dissetarmi) ma anche riguardo quantità differenti dello stesso bene: è la cosiddetta legge dell'utilità marginale decrescente.
Gli economisti neoclassici sostengono che ogni unità addizionale dello stesso bene/servizio che consumiamo ci fornisce una quantità di utilità inferiore alla precedente.
Se John è affamato otterrà molta utilità dal mangiare un bel panino. Se ne avrà a disposizione un secondo sarà contento e lo mangerà volentieri, ma traendone meno soddisfazione rispetto al primo e così via per ogni panino addizionale.
John ovviamente preferirà sempre avere più panini a disposizione ma ogni panino extra aggiungerà meno utilità al totale.
Se introduciamo il concetto di valore soggettivo e di utilità marginale ecco che lo scambio (e la nozione di scambio equo) diventa qualcosa di molto diverso rispetto alla formulazione classica.
Proviamo a vedere un esempio.
Marco e Luca collezionano figurine di calciatori e sono entrambi arrivati ad un passo dal completare il loro album: a Marco manca la figurina di Ibrahimovic ed a Luca quelle di Ronaldo e Del Piero.
Fortunatamente entrambi hanno un po' di figurine doppie e Marco si trova proprio a possedere in copia multipla sia Ronaldo che Del Piero, mentre Luca ha un Ibrahimovic extra che è disposto a scambiare.
Lo scambio avviene.
Poiché ora sia Marco che Luca possono completare la loro collezione, entrambi preferiscono la situazione attuale a quella precedente e sono convinti di averci guadagnato.
Non si ha più uno scambio equo quando vengono trattate merci di pari valore ma quando entrambe le parti valutano di più ciò che ricevono rispetto a ciò che danno in cambio.
Homo oeconomicus e critica alla teoria neoclassica del valore
Secondo la teoria neoclassica l'individuo cerca di massimizzare la sua utilità ma, ovviamente, ha un vincolo di bilancio da rispettare. Poiché ogni unità addizionale di un certo bene (il secondo panino) conferisce meno utilità rispetto a quella precedente il nostro homo oeconomicus sarà disposto a spendere di meno per acquistarla.
Di fronte a diversi beni che hanno lo stesso prezzo agirà in modo razionale ed opterà per l'acquisto di un'unità di quello che gli conferisce un'utilità maggiore e così via.
Si può quindi stabilire un criterio per raggiungere l'utilità massima: spendere i propri soldi in modo che l'utilità marginale dell'ultimo euro che state per spendere sia la stessa per ogni bene che potete acquistare.
In altre parole avete speso bene ed in modo razionale i soldi che avevate ed ora non c'è modo di aumentare ulteriormente la vostra utilità spendendo il poco che vi è rimasto nel portafoglio.
Ma se l'uomo marxiano era completamente avulso dalla realtà anche l'homo oeconomicus, questo calcolatore perfetto e pienamente consapevole dei suoi bisogni, è un qualcosa che difficilmente si trova in natura.
Inoltre si è parlato del concetto astratto di utilità, questa quantità che aumenta e diminuisce consumando i beni, ma non si è ancora spiegato bene come e perché consumare qualcosa ci porti beneficio.
Come si può infatti parlare di utilità che un bene ci offre senza ragionare dello scopo per cui lo consumiamo? Questo è l'approccio della scuola Austriaca di economia.
La teoria dell'utilità marginale secondo la dottrina austriaca
Gli economisti austriaci incentrano il loro studio sull'azione dell'uomo intesa come comportamento intenzionale: ogni individuo, in sintesi, utilizza i mezzi che ha a disposizione per cercare di raggiungere i propri obiettivi.
Ovviamente ci sono delle priorità da rispettare e quindi l'azione dell'individuo sarà volta a soddisfare prima i bisogni che sono reputati più urgenti (come mangiare, bere, etc.) e poi via via tutti gli altri, ordinati secondo l'importanza a loro attribuita.
Secondo questa interpretazione il panino fornisce utilità a John perché soddisfa il suo bisogno di nutrirsi: un secondo panino potrà servire ancora a questo scopo, anche se i morsi della fame sono già stati placati, ma sicuramente dopo un po' John avrà la pancia piena e passerà ad altro.
Consideriamo ora la seguente situazione:
Paolo il pizzaiolo ha prodotto quattro pizze. Queste ultime sono le risorse che ha disposizione (i suoi mezzi) per riuscire a raggiungere i suoi obiettivi.
Ipotizziamo che la sua priorità più alta sia avere qualcosa da mangiare e che quindi conserverà una delle pizze appena sfornate per raggiungere questo obiettivo. Il secondo obiettivo di Paolo è dissetarsi con una bottiglia di birra ed è fortunato perché riesce a trovare qualcuno d'accordo a scambiarla con lui in cambio di una pizza. Il nostro pizzaiolo utilizzerà la terza pizza come mezzo per raggiungere il suo terzo obiettivo, che è comprarsi una maglietta, mentre con l'ultima pizza cercherà di ottenere un cappello nuovo.
Osserviamo innanzitutto che, mentre per raggiungere il primo obiettivo Paolo può servirsi dei suoi prodotti (le pizze), per gli altri è costretto ad effettuare degli scambi: la pizza viene scambiata con una bottiglia di birra.
Ciò che dà valore ad un bene è quindi la sua particolare attitudine a soddisfare il fine che si sta perseguendo: diamo valore ad una fetta di pizza quando il nostro scopo è sfamarci, ad una bottiglia d'acqua quando vogliamo dissetarci e così via.
Parafrasando Machiavelli è il fine che ci fa dar valore ai mezzi.
Concentriamoci ora sulle risorse a nostra disposizione: le pizze.
Innanzitutto bisogna osservare che le pizze sono “intercambiabili” tra loro. Paolo le ha appena sfornate tutte e quattro ed ancora non sa quale mangerà, quale verrà scambiata per la birra, quale per la maglietta e quale per il cappello; sa soltanto che quelle quattro pizze gli permetteranno di raggiungere quei quattro obiettivi.
Non potendo distinguere tra le diverse pizze Paolo dovrà attribuire a ciascuna uno stesso valore soggettivo: lo possiamo constatare tutti i giorni quando entriamo in un negozio ed osserviamo che gli stessi articoli hanno tutti lo stesso prezzo.
Quant'è questo valore che Paolo attribuisce alle singole pizze?
Abbiamo visto che quando effettuiamo uno scambio valutiamo di più ciò che riceviamo rispetto a ciò che abbiamo dato.
Poiché Paolo ha mangiato la pizza evidentemente preferiva sfamarsi rispetto al conservare la pizza intera. Allo stesso modo possiamo affermare che preferiva una bottiglia di birra, la maglietta ed il cappello alle tre pizze che ha scambiato per ottenerli.
Il valore attribuito alle pizze dipende quindi dall'ultimo obiettivo (comprarsi il cappello) che è stato raggiunto tramite il loro impiego.
La quarta ed ultima pizza a disposizione di Paolo, che viene impiegata per raggiungere questo fine è chiamata unità marginale oppure unità al margine e dal momento che soddisfa il bisogno meno importante diciamo che offre il beneficio minore.
Consideriamo ora la situazione in cui Paolo riesca solo a preparare tre pizze. Questa volta il nostro pizzaiolo sarà in grado di soddisfare solo i primi tre obiettivi e quindi l'unità marginale sarà la terza, quella che gli permette di comprare una maglietta. Dal ragionamento precedente possiamo dedurre che le pizze avranno per Paolo il valore dell'ultimo fine soddisfatto (comprarsi la maglietta), quindi un valore superiore a quello del caso precedente.
Generalizzando possiamo affermare che quando il numero di pizze offerte diminuisce (da 4 a 3) l'importanza dell'unità marginale aumenta (da “comprarsi il cappello” a “comprarsi una maglietta”) e viceversa.
L'utilità marginale non è quindi, per gli economisti austriaci, un'aggiunta all'utilità totale dell'individuo ma piuttosto il valore del fine marginale (l'ultimo in ordine di importanza che viene soddisfatto).
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Dello stesso autore:
Quando lo Stato diventa falsario
Bankestein revisited, dal baratto al baratro:
Capitolo 1: La creazione della moneta
Capitolo 2: La moneta diventa "di stato"
Capitolo 3 Nascita del debito pubblico e fallimento dello Stato
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Paxtibi
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10/01/2007 03:37:00 PM
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Thursday, August 23, 2007
Quando lo Stato diventa falsario

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Di Marco Bollettino (Ashoka)
Spesso, quando si assiste ad un dibattito sul tema “signoraggio” viene proposto, come soluzione, di affidare allo Stato la stampa delle banconote, sull'esempio di quanto fatto da Abramo Lincoln nell'Ottocento, prima del suo assassinio.
Ma cosa è successo, nella storia, quando uno Stato si è stampato la sua cartamoneta a corso forzoso?
Basta una parola per descriverlo, ovvero “inflazione”.
Vediamone tre esempi, tra cui gli Stati Uniti di Abramo Lincoln.
La rivoluzione americana
Il comportamento dei neonati Stati Uniti d'America durante la guerra di indipendenza illustra perfettamente ciò che i governi sono tentati di fare quando possono emettere moneta a piacimento. Come fa notare (1) lo storico William Graham Sumner, mentre nel maggio del 1775 stava approntando i preparativi per la guerra contro la Gran Bretagna, il Congresso fu messo di fronte al dilemma di come finanziare e rifornire l'esercito che l'avrebbe combattuta.
L'idea di ricorrere alla tassazione dei cittadini delle ex-colonie non fu presa nemmeno in considerazione e si decise invece di ricorrere alla stampa di una moneta di carta, il Continental dollar, e di immetterla sul mercato, con la promessa di accettarlo in pagamento per eventuali tasse future.
Quello era anche il metodo scelto dal Congresso per “stabilizzare” la quantità di banconote in circolazione. Si chiedeva infatti ai singoli stati di ricorrere alla tassazione...
... per “ritirare dal mercato” quei certificati e dar modo così al Congresso di stamparne altri senza che questi si deprezzassero eccessivamente.
La cosa non funzionò.
Gli Stati, infatti, si guardarono bene dall'imporre nuove tasse (dopotutto erano una delle ragioni della guerra!) e così i certificati rimasero in circolazione, deprezzandosi nei confronti dei “dollari di metallo” ogni giorno di più. Vennero tentati provvedimenti “dirigisti” per cercare di mantenere artificialmente alto il potere d'acquisto del Continental: venne dichiarato “nemico del paese” chi rifiutava quelle banconote come pagamento oppure chi le accettava ma con sovrapprezzo rispetto alla moneta metallica, vennero istituiti dei calmieri dei prezzi ma ovviamente fu tutto inutile.
I prezzi continuarono a salire ed il tentativo di “controllare i prezzi dei beni” non fece altro che farli sparire dal mercato. Quel cibo però serviva per mantenere i soldati, pagati con i Continental, e vennero quindi fatte approvare apposite leggi che consentissero ai militari di confiscare ciò che serviva loro e “lasciare in garanzia” certificati di debito dello Stato.
In parallelo continuavano a circolare dollari metallici e quindi osservando il rapporto di cambio tra le banconote governative e le monete metalliche possiamo stimare l'inflazione monetaria.
Alla fine della guerra quel pezzo di carta emesso dallo Stato non valeva più nulla tanto che fu coniato il modo di dire “not worth a Continental” (non vale un Continental) per indicare un oggetto di scarsissimo valore. In tantissimi furono rovinati ma non tutti i contemporanei giudicarono l'operazione come un disastro. Per Benjamin Franklin, anzi, il Continental fu una “macchina meravigliosa” che pagò e tenne rifornito l'esercito, si pagò da solo attraverso il suo deprezzamento e funzionò come una tassa equa.
Per lo Stato, certamente, funzionò bene, ma per i cittadini americani?
La rivoluzione francese
A pochi anni di distanza, nel vecchio continente, si stava consumando la Grande Rivoluzione che ci ha tramandato i valori della libertà, uguaglianza e fraternità, accompagnati però dal Terrore di Stato e dalla moneta di carta straccia per eccellenza: l'assegnato.
Le necessità della macchina statale erano sempre le stesse: la Francia rivoluzionaria era assediata e bisognava difenderla, pagare i soldati e rifornirli. In più, questa volta, vi erano da finanziare grandiosi progetti pubblici e sussidi sul pane per tenere buono il burrascoso popolo parigino.
Si stamparono 400 milioni di assegnati nel 1790, poi altri 800, in un'escalation che portò, nel 1795, alla stampa di 33 miliardi di assegnati per coprire le spese statali. A quel punto l'assegnato aveva un potere d'acquisto che era solo più un seicentesimo di quello iniziale per cui si pensò di cambiare.
Si introdusse un'altra moneta, il mandato, che nominalmente valeva 30 assegnati, e si ripartì con la spinta inflazionistica: nel giro di pochi mesi, da febbraio ad agosto del 1796, la nuova moneta era già scesa al 3% del suo valore iniziale.
Ci pensò Napoleone Bonaparte a reinstaurare il sistema monetario metallico, intuendo che fosse più popolare e più saggio per lui depredare le nazioni conquistate invece dei suoi concittadini.
Lincoln, i Greenbacks e la guerra civile
Il campione indiscusso (con John Kennedy) dei sostenitori della moneta di Stato rimane però Abramo Lincoln con i suoi Greenbacks.
Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole: una guerra (stavolta civile) da combattere e la necessità di integrare le maggiori entrate garantite dalle nuove tasse e tariffe imposte, con ulteriore liquidità senza ricorrere a prestiti che avrebbero avuto condizioni molto svantaggiose.
Invece di “andare per strada a chiedere prestiti,” tuonavano voci dai banchi del Congresso, “preferiamo affermare la dignità ed il potere del Governo di emettere le proprie banconote.” E così fu, dal febbraio 1862.
150 milioni di banconote di valore legale per il pagamento di tutti i debiti privati, delle tasse e per l'acquisto di terra e... di titoli di stato.
Le conseguenze furono quelle che ogni economista si aspetterebbe, portando alla scomparsa dalla circolazione delle monete metalliche, al deprezzamento dei Greenbacks e quindi, nel luglio dello stesso anno, ad una nuova emissione governativa: altri 150 milioni.
Alla fine della guerra erano stati stampati più di 400 milioni di Greenbacks ed il cambio con il dollaro (metallico) era sceso dalla parità al 39%.
Conclusioni
Ogni volta che il governo si è arrogato il potere di stampare cartamoneta a corso legale (e forzoso) si è assistito sempre a disastri inflazionistici il cui effetto netto è stato redistribuire il reddito da chi veniva aveva un salario fisso e veniva pagato in moneta deprezzata a chi invece era il beneficiario delle commesse statali o poteva effettuare vantaggiose speculazioni.
Siete ancora pronti ad affidare al governo la stampante?
(1) William Graham Sumner, The Financier and the Finances of the American Revolution, 2 vols. (1891; repr. New York: Burt Franklin, 1970)
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Sullo stesso argomento, dello stesso autore:
Bankestein revisited, dal baratto al baratro
Capitolo 1: La creazione della moneta
Capitolo 2: La moneta diventa "di stato"
Capitolo 3 Nascita del debito pubblico e fallimento dello Stato
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8/23/2007 05:17:00 PM
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