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Thursday, June 4, 2009

Anarchy in America

L'anno è il 2013. L'America è fallita. Sui marciapiedi davanti alle banche annerite, predicatori gridano “Armageddon! ” Nelle città, scoppiano tumulti per il cibo e le folle saccheggiano i magazzini. Dei poliziotti le respingono con delle cariche; altri si uniscono; nessuno è stato pagato per i mesi. Mentre l'elettricità tremola in tutta l'America, l'orizzonte è illuminato da costruzioni incendiate vicino alle quali si accalcano i senzatetto per scaldarsi. Nelle campagne, eserciti di disoccupati vagano lungo le vie ferroviarie. La maggior parte elemosina lavoro e un pasto; altri prendono ciò di cui hanno bisogno. Nei titoli, i pochi giornali che ancora escono strillano la stessa domanda: è questa la fine dell'America?

Della gente si è riunita silenziosamente ad ascoltare le ultime notizie alla TV in un bar di provincia. “Un altro stato d'emergenza,” annuncia il reporter, “Il presidente parlerà alla nazione tra pochi minuti per dichiarare la legge marziale….”

Il luogo è una piccola comunità sul litorale della California, del tutto simile a molte città in tutta l'America. Ci possono essere alcuni residenti amanti della libertà in più in confronto a buona parte delle altre comunità perché è la sede dell'Istituto per la Libertà, ma la maggior parte dei residenti è apolitica o aderisce ad uno dei principali partiti politici. L'unica cosa che rende diversa questa comunità è che ci sono alcuni individui impegnati, un gruppo variopinto di ribelli, decisi a intraprendere le giuste azioni quando l'occasione si presenta. Nel mezzo di un parziale oscuramento, si riuniscono in un bar locale per sentire la notizia del crollo del governo. Basta un uomo soltanto per accendere la loro determinazione a salvare la loro comunità dal caos.

Questo è l'inizio della web-serie Anarchy in America, un progetto di fiction libertaria di Sky Conway. La serie, che sarà diffusa via internet, sembra molto interessante anche se, al momento, si trova ancora nella fase di raccolta fondi. Ulteriori dettagli (e le modalità per, eventualmente, contribuire) sul sito anarchy.tv.

Monday, February 23, 2009

La teoria di classe Agorista

È pronta la traduzione – opera di RanTasipi e, in misura minore, anche mia – del libello di Wally Conger “La teoria di classe Agorista”, tratto dagli scritti incompleti di Samuel Edward Konkin III.

È scaricabile gratuitamente qui e qui.

Buona lettura.

Sunday, February 8, 2009

Cantoni Virtuali

Ricevo da Gian Piero de Bellis dell'ottimo sito Panarchy.org e volentieri pubblico questo saggio del 1993 di Roderick T. Long sul concetto di aterritorialismo. Una possibile via alla dissoluzione dello stato centralista e totalitario e del potere assoluto che esso concentra in poche mani.
(Vedi anche “Scegli il tuo governo” di Michael S. Rozeff.)
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Di Roderick T. Long


Nota

In futuro, quando qualche studioso traccerà la storia dell’idea di aterritorialismo o di governi post-territoriali, farà probabilmente riferimento a questo saggio, oltre al classico testo di De Puydt sulla Panarchia e agli scritti e alle attività di quella mente geniale che è John Zube. Cantoni Virtuali presenta l’inizio dell’idea di aterritorialismo (la fine della sovranità centralistica e monopolistica dello stato) nella maniera più chiara possibile. Se si legge questo saggio, è difficile non essere convinti dalla proposta, a meno di non appartenere all’elite dominante (o di sperare di farne parte prima o poi). Se la politica fosse una attività scientifica, l’esperimento dei Cantoni Virtuali sarebbe stato effettuato molto tempo fa. Invece, essendo la politica il regno delle formule magiche, delle fedi irrazionali e degli interventi disastrosi, è solo con il superamento della politica e del suo pesante carico di idiozie che sarà possibile sperimentare e mettere in atto forme alternative di organizzazione sociale.

Il problema della struttura

Come apparirebbe la costituzione di una nazione libera? Tentando di rispondere a questa domanda pensiamo subito in termini di una Carta dei Diritti, di limitazioni al potere del governo, e così via. E qualsiasi costituzione degna di essere introdotta includerebbe questi aspetti. Ma se una costituzione deve essere qualcosa di più di un elenco di pii desideri, deve anche specificare la struttura politica necessaria ad assicurare che queste libertà non siano erose o ignorate. Si consideri la Costituzione della vecchia Unione Sovietica, che garantiva ogni sorta di libertà altisonanti per i propri cittadini - ma che in pratica si è rivelata essere un insieme di vuote promesse, dal momento che la sua interpretazione e attuazione rimanevano nelle mani di uno stato centrale monolitico e assoluto.

Delineare una costituzione è un esercizio di economia della scelta pubblica; i politici reagiscono agli incentivi, e per questo la struttura di incentivi politici deve essere disegnata in modo tale che coloro che rivestono posizioni di comando non possano approfittare di una crescita del potere statale.

Questo era l'intento di coloro che redassero la Costituzione degli Stati Uniti d'America quando misero in atto il sistema federale. Si voleva che ogni ramo del governo fosse geloso degli altri rami, e quindi avesse interesse a controllarne l'espansione. Al tempo stesso, l'ampia base di coloro che erano rappresentati doveva assicurare che nessun interesse particolare riuscisse a manipolare il governo.

Come abbiamo da tempo imparato a nostre spese, l'esperimento si è dimostrato fallimentare. Madison e i suoi colleghi non poterono prevedere il processo di reciproco scambio di favori attraverso il quale i rami del governo e gli interessi particolari (“le fazioni”) che avrebbero dovuto controllarsi di continuo a vicenda hanno invece fatto spazio alle reciproche cupidigie in cambio di reciproche concessioni. Eppure qualcuno vide in anticipo il pericolo; un poeta anti-federalista, lamentando la recente ratifica della Costituzione, scrisse:
In five short years, of freedom weary grown,
We quit our plain republics for a throne;
Congress and President full proof shall bring
A mere disguise for Parliament and King.

In cinque brevi anni, logorando la libertà
Lasciammo la repubblica per abbracciare sua maestà;
Il Congresso e il Presidente la prova arrecheranno
che del Parlamento e del Re la copia diverranno.
E così l'agile confederazione divenne un Leviatano imperiale enorme.

Decentralizzare!

Thomas Jefferson formulò molte passaggi interessanti sui diritti naturali dell'essere umano. Ma quando gli fu chiesto di esprimere in sintesi la sua filosofia politica, egli replicò che poteva essere contenuta in una affermazione: “Dividi le regioni in sezioni.” In altre parole: decentralizza, decentralizza, decentralizza!

Esistono parecchi vantaggi che derivano da una decentralizzazione politica intesa come limiti strutturali al potere del governo. Immaginiamo un paese delle dimensioni degli Stati Uniti con solo cinque stati. Adesso immaginiamo lo stesso paese con 500 stati. A parità di condizioni, la seconda situazione ha molte più probabilità di essere favorevole alla libertà che non la prima. Quanto più piccola è l'unità politica, tanto maggiore è l'influenza che può avere ogni singolo cittadino in politica, diminuendo in tal modo il vantaggio che i gruppi di pressione organizzati hanno nei confronti del pubblico in generale. Inoltre, crescendo il numero di giurisdizioni politiche alternative in rapporto alle persone, l'opzione di fuoriuscita da una di esse da parte del cittadino assume un peso notevole. La libertà di abbandonare uno stato è molto ridotta se esistono solo pochi altri stati dove andare; ma, con un numero elevato di stati, la probabilità di trovare una destinazione soddisfacente cresce di molto.

In aggiunta a ciò, la concorrenza tra gli stati può servire da freno al potere dello stato, dal momento che se uno stato diventa troppo oppressivo i cittadini possono votare la sfiducia andandosene. Inoltre, la decentralizzazione attenua l'impatto degli errori del governo. Se un singolo governo centralizzato decide di attuare un qualche piano mal congegnato, tutti ne soffrono. Ma con molti stati che attuano politiche differenti, un provvedimento cattivo può essere evitato mentre una misura positiva può essere copiata. (Anche in questo caso la concorrenza può servire come un processo di scoperta).

La struttura federale degli Stati Uniti, per quanto imperfetta, può ben spiegare perché tale paese non è scivolato così rapidamente nel socialismo statalista come i paesi Europei – questo perché i cittadini di ogni stato americano godevano della libertà di movimento su tutto il territorio federale mentre questo non era il caso nella maggior parte degli stati europei. (Cinquanta stati è certamente meglio che un solo stato - sebbene questa situazione si discosti parecchio dalla concezione Jeffersoniana che sei miglia quadrate fosse la dimensione ottimale per una unità politica all'interno di una repubblica). E il sistema Svizzero dei cantoni, che è ancora più decentralizzato, ha senza dubbio giocato un ruolo simile nel preservare la libertà di cui godono gli Svizzeri. (Il libro di Frances Kendall e Leon Louw, After Apartheid, ha aiutato a porre all'attenzione dei gruppi libertari l'utilità di un sistema basato sui cantoni per i paesi lacerati da conflitti etnici; ma l'attrazione di tale modello non si limita a questi casi).

Case mobili e paesaggi vuoti

La costituzione di una nazione libera, quindi, dovrebbe essere caratterizzata molto probabilmente da un decentramento radicale della struttura di potere, in linea con il sistema cantonale. Ma si potrebbero apportare dei miglioramenti al sistema Svizzero? Io penso di sì.

L'esistenza di una effettiva concorrenza tra giurisdizioni politiche è inversamente proporzionale ai costi di passaggio da una giurisdizione all'altra. Il Massachusetts è in competizione giurisdizionale con lo stato confinante del New Hampshire, ma la competizione è di gran lunga minore nei confronti di uno stato lontano come l'Alaska, dal momento che il costo di rifiutare le politiche dello stato in cui si abita trasferendosi sotto un'altra giurisdizione è, nel secondo caso, molto più elevato. (Lo stesso è vero a livello internazionale; non ci sono segreti riguardo al perché i rifugiati Cubani e Haitiani cercano di arrivare a Miami piuttosto che a Ginevra). E anche quando la giurisdizione alternativa è vicina, i costi di trasferimento non sono proprio irrisori. Staccarsi da una località e forse anche dai propri cari per andare a vivere in un altro stato può essere un fatto costoso in termini sia finanziari che emotivi.

Il costo elevato del trasferimento risulta dal fatto che le giurisdizioni politiche corrispondono a regioni geografiche, e la ricollocazione geografica non è sempre possibile. E tuttavia un sistema decentralizzato serve come un freno più effettivo alla crescita del potere statale in quanto riduce i costi di trasferimento verso un'altra giurisdizione vicina. Per questo, appare desiderabile scindere la giurisdizione politica dalla localizzazione geografica.

David Friedman presenta un ipotetico esempio: “Immagina come sarebbe il nostro mondo se i costi di trasferimento da un paese all'altro fossero zero. Tutti vivono in una casa su ruote e parlano la stessa lingua. Un bel giorno il presidente della Francia annuncia che, a causa di contrasti con i paesi vicini, nuove tasse a favore dell'esercito saranno introdotte e l'arruolamento in massa inizierà in tempi brevi. Il mattino seguente il presidente della Francia si trova a presiedere un territorio pacifico ma privo di popolazione, avendo tutti fatto i bagagli ad eccezione del presidente, di tre generali e ventisette corrispondenti di guerra.” (The Machinery of Freedom, seconda edizione, p. 123).

Se le persone potessero passare da una giurisdizione all'altra senza muoversi di località, avremmo l'equivalente funzionale di quello che David Friedman immagina. La concorrenza tra le giurisdizioni sarebbe più alta, e la quota di interferenza da parte dello stato che le persone tollererebbero sarebbe più bassa rispetto ad un sistema politico in cui la giurisdizione e la localizzazione geografica sono collegati.

Il Caso dell'Islanda

Ci sono alcuni precedenti storici di questa idea. Per prendere un esempio famoso, la libera Comunità Islandese (930-1262) operava attraverso il sistema della “Cosa” [Thing]. Una “Cosa” era una corte o assemblea. (La parola inglese “thing” aveva all'origine anche questo significato; quando Amleto dice: “The play's the thing wherein I'll catch the conscience of the King” (“La rappresentazione è la cosa attraverso cui catturerò la coscienza del re”) il gioco di parole ha effetto perché al tempo di Shakespeare la parola “thing” (cosa) iniziava ad avere il significato moderno, ma conservava ancora le connotazioni precedenti di procedimento giudiziario teso a stabilire la colpevolezza o l'innocenza.) L'assemblea legislativa nazionale, con il concomitante apparato nazionale di giustizia, era chiamato la Cosa-Complessiva (the All-Thing); al di sotto di essa vi erano quattro Cose-Quarte (Quarter-Things) in corrispondenza delle quattro regioni geografiche dell'Islanda. Ma a questo punto il legame tra geografia e giurisdizione finiva.

Sotto ogni Cosa-Quarta vi erano tre o quattro Quartine (Varthings) e assegnate a ciascuna di esse vi erano tre Corti (Things). Gli abitanti di un Quarto erano liberi di scegliere di far parte di qualsiasi delle nove o dodici Corti che erano collegate (attraverso le Quartine) alla loro Regione (la Quarter-Thing).

L'appartenenza ad una Corte (Thing) determinava chi fosse il tuo Godhi o capo; un Godhi proteggeva i suoi Soggetti (Thingmen) contro le minacce locali, nominava i giudici reclutati all'interno della Cosa per amministrare la giustizia, e rappresentava i suoi Soggetti nell'Assemblea nazionale. In cambio, i Soggetti del Godhi pagavano contributi e adempivano vari favori. Un Soggetto poteva trasferire la propria appartenenza da una Corte all'altra semplicemente facendo una dichiarazione pubblica di fronte ad un testimone. Dal momento che il costo di trasferimento della propria fedeltà ad un altro Capo era di molto inferiore al caso in cui le Corti fossero state entità puramente territoriali, la concorrenza tra Capi mise un freno alla possibilità che ciascun Capo opprimesse i suoi Soggetti troppo severamente o domandasse eccessivi favori o tributi! Questo sistema decentralizzato sembra essere stato abbastanza efficace. La libera Comunità Islandese alla fine cadde preda della centralizzazione, ma ci vollero trecento anni perché ciò avvenisse; per gli Stati Uniti d'America ce ne sono voluti molti meno.

(Per maggiori informazioni sul sistema Islandico si veda Jesse Byock, Medieval Iceland, William Miller, Bloodtaking and Peacemaking, e David Friedman “Private Creation and Enforcement of Law: A Historical Case” (Journal of Legal Studies n°8, 1979). Per una rassegna storica di sistemi similari si veda Bruce Benson, Enterprise of Law, e i saggi bibliografici di Tom Bell e Albert Loan in Humane Studies Review, vol. 7, no. 1, 1991/92.)

I Cantoni Virtuali

Il caso dell'Islanda ha rappresentato un modello popolare tra i libertari favorevoli al libero mercato. Ma è importante rendersi conto che offre validi insegnamenti anche a coloro che si interessano di governabilità. All'interno dell'inquadramento di uno stato, lo scindere la giurisdizione dalla localizzazione geografica non costituisce una opzione a livello nazionale; ma rimane una scelta del tutto possibile a livello locale. Come una nazione può essere divisa in molti cantoni geograficamente distinti ai fini del governo locale e della rappresentanza nazionale, così potrebbe anche essere divisa in unità politiche omogenee che non avrebbero significato territoriale. Questi potrebbero essere chiamati "cantoni virtuali".

Due funzioni dei Cantoni Virtuali

Alla pari delle Assemblee Islandesi (Icelandic Things) i cantoni virtuali hanno due funzioni: quella di rappresentazione a livello nazionale e quella di governo a livello locale (il termine "locale" è utilizzato nel senso di struttura e non ha connotazioni geografiche).

Nel primo caso, ogni cantone virtuale invia un rappresentante al Parlamento nazionale. I cittadini sarebbero sempre liberi di aderire ad un altro cantone, senza per questo dover cambiare di residenza; sarebbe come vivere a New York e, al tempo stesso, scegliere di essere rappresentati da un senatore dell'Arizona. Sarebbe anche consigliabile una clausola della costituzione che consenta a qualsiasi gruppo di cittadini al di sopra di un certo numero di formare un nuovo cantone. (L'assenza di questo aspetto cruciale si dimostrò una omissione grave all'interno del sistema islandese: dal momento che i Godhordh, o seggi parlamentari, erano beni commerciabili, divenne alla fine possibile per un ristretto numero di famiglie (che avevano ottenuto la loro ricchezza attraverso la riscossione di tasse che, a differenza delle quote che andavano ai Godhi (Capi), non erano legate a qualsiasi funzione di responsabilità - risultato della conversione coatta dell'Islanda al Cristianesimo) comperare questi seggi e monopolizzare il Parlamento. La costituzione Islandese non prevedeva la formazione di nuovi Godhordh per contrastare questa minaccia.)

A livello “locale” ogni cantone virtuale adotterebbe le proprie leggi e si occuperebbe della loro attuazione. I cittadini sarebbero soggetti alle leggi del Parlamento nazionale e a quelle del proprio cantone, ma non a quelle di altri cantoni. Un compito essenziale del governo nazionale sarebbe quello di regolare i rapporti tra cantoni, formulando linee guida per la risoluzione di controversie tra membri dei diversi cantoni, risolvendo conflitti tra leggi di differenti cantoni, e così via. Ma all'interno del quadro nazionale, esisterebbe libera concorrenza tra i cantoni virtuali.

Questa concorrenza arrecherebbe molti benefici. La minaccia di perdere “clienti” spingerebbe le tasse e lo spreco di denaro pubblico molto al di sotto dei livelli attuali esistenti in regime di monopolio. La presenza di alternative ridurrebbe anche l'incidenza dell'oppressione governativa collegando la tassazione con la responsabilità. (Immaginate ad esempio quanto rapidamente il Dipartimento di Polizia di Los Angeles avrebbe perso i suoi clienti dopo il pestaggio di Rodney King se agenzie rivali di protezione esistenti nella zona fossero entrate in concorrenza presso il pubblico.)

Un sistema di cantoni virtuali è anche molto più giusto di un sistema di semplice maggioranza. In base alla regola della maggioranza, se il 51% della popolazione è a favore della legge X e il 49% è per la legge Y, allora la legge X è imposta a tutti, inclusa la minoranza dissenziente. Detto altrimenti, la regola della maggioranza crea degli effetti esterni negativi per la minoranza. Un sistema di cantoni virtuali contribuirebbe a internalizzare queste esternalità: la minoranza opposta alla legge X non deve necessariamente esserne soggetta, ma può invece aderire a un cantone virtuale che ha adottato la legge Y. Coloro che hanno la maggioranza non possono arruolare a forza la minoranza di modo che appoggi i suoi progetti (o viceversa), ma deve sopportare direttamente su di sé l'intero costo del progetto.

I cantoni virtuali consentono anche di porre sotto controllo i capoccia locali meglio dei sistemi decentralizzati. In un sistema territoriale, coloro che sono in una data regione geografica possono trovare che votare la sfiducia andandosene a vivere in un'altra regione potrebbe essere estremamente costoso, e devono quindi sopportare qualsiasi misura il governo locale decida di imporre; la possibilità di cambiare cantone senza cambiare di residenza offre l’equivalente funzionale di votare contro un governo senza dover andare in un altro paese, e questo a un prezzo molto più basso. In generale, i cantoni virtuali fornirebbero controlli e contrappesi molto più effettivi di quelli offerti dai tre rami del governo (esecutivo, legislativo, giudiziario) nel sistema federale, proprio a causa delle possibilità di competizione (di cui non v'è traccia nel sistema federale) che permette di aderire ad un altro cantone o di formarne di nuovi.

Il sistema dei cantoni virtuali risolve anche problemi di informazione: tenderanno i cantoni a suddividersi in base a frontiere geografiche oppure no? cambieranno essi notevolmente quanto a dimensioni? quanti cantoni ci sarebbero alla fine? La concorrenza aiuterebbe a determinare la soluzione ottimale che risponde ai bisogni dei cittadini.

Il Governo Nazionale

Il governo nazionale ha un ruolo essenziale da svolgere nel coordinare le politiche dei vari cantoni. E, nonostante ciò, i suoi poteri devono essere rigorosamente ridotti, altrimenti l'intero obiettivo del decentramento non sarà realizzato. Se il governo nazionale, piuttosto che i cantoni, è il luogo principale dove si prendono le decisioni, allora la concorrenza tra giurisdizioni diventa priva di valore, e i cantoni degenererebbero in raggruppamenti di interessi particolari in gara per conquistarsi il potere centrale. Per questo i poteri nazionali devono essere più severamente limitati (non già attraverso buone intenzioni scritte su carta, ma strutturalmente) dei poteri dei cantoni, in modo da indirizzare le eventuali controversie verso il basso, a livello cantonale (e quindi verso il mercato concorrenziale).

Ci sono molti modi per realizzare ciò: limiti severi all'esercizio del potere, super-maggioranze come condizione per la presa di decisioni, un potere esecutivo pluralistico, ecc. Un suggerimento promettente, avanzato da Robert Heinlein nel suo racconto The Moon is A Harsh Mistress, sarebbe quello di un Parlamento composto da due Camere: una Camera in cui si richiedono i due terzi dei voti per far passare una legge, un'altra in cui è sufficiente un terzo dei voti per cancellare una legge. Sarebbe soprattutto utile che la prima fosse composta di rappresentanti dei cantoni (assicurando così la massima partecipazione dei vari gruppi di interesse al processo legislativo) e l'altra da rappresentanti eletti dal popolo (attuando in tal modo il principio sostenuto da Isabel Paterson in The God of the Machine, che ogni regime politico stabile deve garantire un canale ufficiale perché le masse esercitino il diritto di veto).

Un governo centrale debole e cantoni virtuali floridi potrebbe essere il modo per unire il meglio dell'anarchia e di un governo limitato.

Friday, October 10, 2008

L'Anti-Mida

Significativo estratto da un articolo del Sole24Ore:
I fatti degli ultimi due anni hanno ampiamente dimostrato che il coordinamento della politica monetaria “transatlantica” deve divenire un tassello di base del nuovo ordine mondiale.
Com'era prevedibile, si vuole utilizzare il disastro economico prodotto dalle deliranti politiche monetarie degli stati per preparare il terreno ad un'autorità dello stesso tipo, ma estesa ad un livello globale, un super-stato mondiale da cui non ci sarebbe via d'uscita. Ma per quanto i poteri costituiti si sforzino di presentarla come unica strada praticabile, altre vie sono possibili, e certamente più consone alla natura umana e più rispettose del desiderio di libertà che la contraddistingue.


Questo saggio, tradotto dall'ottimo sito Panarchy.org, offre una visione estremamente illuminante dell'auto-determinazione non-territoriale, una forma di governo possibile e augurabile se vogliamo evitare l'oppressione dei presenti stati o peggio ancora, di un unico governo centrale territoriale e centralizzato i cui prodromi sono già ben visibili in questi giorni di crisi globale.
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Tutto quello che il governo tocca...

Di Michael S. Rozeff


Una ricerca fatta con Google fa emergere solo 657 documenti per la frase “tutto quello che il governo tocca si trasforma in”. Questa non sembra essere una espressione molto conosciuta. Io l'ho sentita per la prima volta da un economista di Chicago di nome Karl Brunner. È attribuita a Ringo Starr, il chitarrista dei Beatles. La frase completa è: “Tutto quello che il governo tocca si trasforma in merda.”

Il detto di Ringo è vero. Fino a quando un paese come il nostro sarà sotto un governo Solo e Unico, questo sarà il caso. Nessuna persona isolata e nessuna istituzione del settore non statale, da sola, sia essa una chiesa, una impresa, un istituto o una università, può confrontarsi per dimensioni e potere con un governo nazionale come quello americano. Qualsiasi industria toccata dal governo scompare di fronte al potere del governo. Quella industria cederà terreno, appassirà, si inchinerà umilmente davanti al governo, perderà la sua capacità di innovazione, sbaglierà investimenti, chiederà sussidi, verserà fondi agli uomini politici, cercherà di diventare un gruppo monopolistico, e alla fine perderà qualsiasi traccia che stia operando davvero in un libero mercato. Il governo ha il potere di sopprimere qualsiasi forma di libero mercato. Questo si è verificato, impresa dopo impresa e mercato dopo mercato. Ma quel che é peggio, poiché tutto quello che il governo tocca si trasforma in merda, dal momento che i poteri del governo gli consentono di toccare sempre più cose, ci troviamo in una situazione di deterioramento continuo. Potrei dire la stessa cosa con riferimento alle libertà individuali.

Al giorno d'oggi, il governo nazionale impone la sua visione paralizzante su ogni cosa esistente nell sua sfera territoriale di potere. Lo Stato, la metropoli, la città, il piccolo centro, sono assoggettati e costretti a subire le misure del governo come ognuno di noi. In nessun caso esiste un certo livello di competizione tra centri decisionali che darebbe una boccata d'ossigeno al sistema.

Ma per quanto io possa pensare che tutto ciò sia vero, sono in netta minoranza rispetto a tutti quegli americani che hanno idee diverse dalle mie. Questo scritto verte sul modo in cui la maggior parte di noi potrebbe raggiungere una posizione migliore, nonostante tutte le nostre differenze, seplicemente avendo un governo di loro scelta sempre.

Gli americani sono divisi politicamente. Questo è naturale. Non c'è modo che essi saranno mai uniti su questioni politiche, come non si è uniti sulla religione. Ed essere uniti su faccende politiche non è né necessario per migliorare la situazione in cui ci troviamo né una buona idea. I libertari non possono convertire un gran numero di democratici all'idea libertaria. I democratici non possono convertire grandi schiere di repubblicani. Gli anarchici non possono convertire moltissimi libertari all'anarchia. Comunque sia, la maggior parte di noi è interessata per prima cosa e soprattutto a migliorare la propria situazione, non quella di tutti gli altri in generale.

Per progredire abbiamo bisogno di una certa base di accordo comune. Altrimenti, se e quando il nostro governo nazionale fallisce, finiremmo per dividerci in clans e sette combattendoci a vicenda per vedere chi imporrà la sua visione agli altri. Oppure, noi non saremo in grado di approfittare pienamente dell'opportunità offertaci da tale tracollo e fallimento. L'Unione Sovietica è andata in pezzi, e le popolazioni si sono poste nuovamente dentro e sotto gli Stati. Non hanno ricavato nulla dall'esperienza. Non erano pronti per progredire riguardo alla natura del loro governo.

Gli atteggiamenti delle persone rispetto alla situazione in fase di deterioramento che io noto variano notevolmente. Dove io vedo deterioramento, moltri altri non vedono alcun problema. Alcuni pensano che noi siamo a pochi passi dal disastro totale. Ad altri non interessa assolutamente nulla. Alcuni hanno perso ogni speranza. È un fatto politico importante che gli atteggiamenti siano così diversi. Lo è soprattutto perché la felicità di una persona dipende da tali modi di pensare e di agire, ed ognuno di noi ha il diritto di ricercare la felicità come ritiene giusto e appropriato (all'interno dei limiti posti dalla legge di natura).

Gli atteggiamenti mentali e comportamentali sono anche sostenuti in maniera molto forte. Nessuna mole di scritti da parte mia e nessuna serie infinita di lettere e messaggi tra me e le persone che hanno idee diverse dalla mia riuscirà, con tutta probabilità, a convertirli al mio modo di pensare. Se qualcuno è a favore dei programmi di Assistenza Sociale e approva il trasferimento di fondi per la costruzione di case popolari, io non sono in grado di convincerlo del contrario. E se ci provassi, si sentirebbe minacciato dalla mia posizione e punterebbe i piedi. Cercare di far emergere la verità in scritti come questo è un conto. Fare pressione per convertire le persone è un altro. Ognuno è il giudice migliore del proprio benessere. Nessuno vuole essere dominato da me come io non voglio essere dominato da qualcun'altro. Questo atteggiamento reciproco ci offre il terreno comune di cui abbiamo bisogno per costruire un nuovo modo di convivenza.

Quindi io non chiedo a nessuno di convertirsi al mio modo di pensare. Chiedo solo una cosa: che mi lasci libero dall'essere soggetto al suo governo. Al tempo stesso, gli dò la libertà di avere il suo governo - con una clausola importante. E cioè che nessuno di noi chieda che l'altro sia allontanato dai luoghi (questo paese, questo luogo e queste persone) a cui entrambi siamo affezionati. Se uno vuole programmi di assistenza sociale amministrati dal suo governo, che li abbia, senza che si frappongano ostacoli. Io non mi opporrò. A quel punto, sarebbe forse troppo chiedere di vivere senza essere forzato a sostenere i programmi promossi da altri? Mi sarà concesso di avere il governo di mia scelta, avendo gli altri il governo che loro hanno scelto, e rimanendo entrambi a vivere in questo paese che noi ora chiamiamo America? Sarà consentito a ciascuno di noi di avere il governo non-territoriale che preferiamo? Lascerete che esistano governi concorrenti che operano sullo stesso territorio e rappresentano raggruppamenti volontari di popolazioni diverse? Sosterrai tu questo come modo ideale di organizzazione sociale?

Questo ideale, la libertà di scegliersi e ottenere il proprio governo, è sommamente giusta. È un diritto naturale che deriva direttamente dai nostri diritti alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Lo è in quanto esiste una multitudine di nazionalità che sono sorte all'interno degli confini degli Stati Uniti. “In base a questa visione politica, gli Stati Uniti riconoscono l'esistenza di 550 nazioni originarie dentro i suoi confini. Esse non sono agenzie statali o federali. Questa politica fu introdotta nel 1970 dal Presidente Richard Nixon e riaffermata il 14 Giugno 1991 dal Presidente George Bush.”

Non possono gli americani in genere avere gli stessi diritti degli americani originari del continente e avere il governo di loro scelta?

L'amministrazione e la regolamentazione producono vari effetti positivi. Ognuno ha una visione differente di quali siano questi effetti positivi, del loro valore e di come conseguirli. Se io sostengo la libertà dell'individuo, come è il mio caso, allora devo necessariamente sostenere la tua libertà di scegliere i beni che vuoi consumare in mercati non-liberi. La libertà di scelta riguardo al governo include la tua libertà di cedere una parte di libertà per il desiderio di essere governato da altri, se ciò è quello che ti rende felice. Se io credo nella libertà, non posso costringere gli altri a gestire la propria vita in base alle libertà a cui io attribuisco valore e che considero giuste e appropriate. Al tempo stesso però loro non devono forzarmi ad accettare le loro vedute sul governo e schiacciarmi sotto il governo di loro scelta.

La situazione in cui ci troviamo attualmente è una situazione di forza, sia per per coloro che sono a favore o contro lo stato, per gli anarchici puri e per coloro che sono moderatamente anarchici, per i democratici, per i repubblicani e per coloro che preferiscono altri partiti. Molti tra di noi sono in cerca di potere per controllare tutti gli altri e rimodellare la società secondo la propria visione. Dobbiamo smetterla con questa dinamica perversa se vogliamo davvero progredire.

La mia proposta consiste nell'auto-determinazione non-territoriale (panarchia). La nozione di autodeterminazione ha bisogno di essere ripresa in maniera esauriente al fine di rimuoverne l'aspetto territoriale. Altrimente è contraddittoria e porta a conflitti e guerre civili. I Georgiani, ad esempio, si staccano dall'Unione Sovietica, ma poi a una parte di loro non è concesso di secedere. Le colonie americane conquistano l'indipendenza dall'Inghilterra, ma quando il Sud vuole staccarsi dal Nord il risultato è la guerra in quanto il Nord cerca di impedire la secessione.

Nell'enciclopedia Wikipedia troviamo che "L'auto-determinazione è definita come la libera scelta di compiere atti senza costrizioni esterne, e soprattutto come la libertà delle persone che vivono su un dato territorio di determinare la loro condizione politica o l'indipendenza dallo stato esistente." Questa definizione è incompleta perché limita l'auto-determinazione alle persone di un dato territorio. In pratica però qualsiasi governo esistente esige l'obbedienza di tutti coloro che vivono su un dato territorio, per cui l'auto-determinazione definita in quel modo è contraddittoria al suo interno.

L'auto-determinazione non-territoriale significa che ogni persona ha il diritto di determinare (o scegliere) il governo o le istituzioni governative che vuole, su una base volontaria e non imposta. Questo significa che in una data regione possono co-esistere un certo numero di governi. E le persone scelgono quella o probabilmente quelle amministrazioni a cui esse vogliono appartenere. Questi governi possono mantenere la sovranità e la legittimità che le persone soggette conferiscono loro, ma differiranno totalmente dai governi esistenti per un aspetto: essi non saranno necessariamente territoriali. Essi non costringeranno nessuno in una data regione a sottomettersi al loro potere. (Ci possono essere governi territoriali nella misura in cui le persone volontariamente uniscono degli appezzamenti di terra e si separano dagli altri.)

Noi possiamo progredire. Ma per fare ciò abbiamo bisogno della libertà di avere governi in competizione tra di loro su questo suolo che chiamiamo America, allo stesso modo che abbiamo chiese, supermercati, città, stati e università che competono tra di loro. Possiamo aprire potenzialità immense se gestiamo le nostre forme di governo in modi più efficaci. Questi saranno modi di auto-governo che consistono in sistemi di gestione liberamente scelti, dove è possibile fuoriuscire facilmente quando l'amministrazione non funziona.

Smettere di alimentare con le nostre sudate risorse un governo che non ci piace dovrebbe essere agevole come passare ad un'altra stazione di rifornimento di benzina. O cambiare scuola dovrebbe essere semplice come cambiare il supermercato dove facciamo i nostri acquisti.

Noi diamo per scontato il fatto che il governo debba esistere in quanto non ci possiamo fare niente. In tal modo evitiamo complicazioni nella nostra vita; ma facendo così rimpiccioliamo noi stessi e i nostri figli. Se pensiamo di trasformare la forma di base del governo, allora dobbiamo impegnarci seriamente in una attività che tendiamo a evitare. Se avessimo la scelta tra sistemi di governo, e non solo tra candidati ad una data forma di governo, presteremmo molta più attenzione alle questioni dei modi di governabilità.

Ci sono indizi su come procedere che è necessario esaminare. Alcuni governi sono meglio di altri. Dovremmo chiederci perché. Talvolta i governi fanno alcune cose meglio di altre. Dovremmo chiederci perché. Spesso un governo fa più danni che l'essere senza governo. Dovremmo chiederci perché. Spesso i governi iniziano dando speranza e finiscono lasciando disperazione. Dovremmo chiederci perché.

Non possiamo avanzare se non siamo disposti ad abbandonare credenze erronee che accettiamo come dati di fatto e non mettiamo in discussione. La principale tra queste credenze erronee è che il governo debba essere territoriale e controllare un territorio estremamente grande e le persone che vivono su di esso. Solo in Erie County ci sono 3 grandi centri urbani e 25 città di medie dimensioni in un'area che copre grosso modo 30 miglia per 35 miglia. Erie è una delle 62 contee dello Stato di New York.

Una città è una forma semi-territoriale di governo. Nessuna città pretende di coprire l'intera contea, ma ogni città governa una specifica area. All'interno della mia città sussiste già una ripartizione di giurisdizioni per quanto riguarda le strade. Ci sono già diverse forze di polizia. C'è già un insieme di sistemi diversi per quanto riguarda la gestione dei parchi, delle scuole, della rete fognaria.

Nessuno di noi ha una mappa precisa verso l'auto-determinazione non-territoriale o può addirittura definirla in maniera precisa. La mia tesi è che l'auto-determinazione non-territoriale è la strada giusta e in quanto obiettivo giusto è un obiettivo ben fondato. La tesi che l'auto-determinazione non-territoriale ci porterà ad una situazione migliore di quella attuale è solida.

Questo è un obiettivo che può essere condiviso da gruppi che sono altrimenti su posizioni politiche antagoniste. I nazisti locali possono sedersi al tavolo con gli anarchici ed essere d'accordo sul fatto che ognuno ha diritto alla sua auto-determinazione non-territoriale. Possono i democratici e i repubblicani imparare a tollerarsi a vicenda se ognuno ha le sue prorie istituzioni? Un certo livello di auto-separazione potrebbe derivare da ciò. Nessuno lo sa per certo, ma potrebbe essere il caso. Un buddista potrebbe non volere nel vicinato i nazisti che marciano di strada la notte o bruciano libri.

Presuppongo in tutto ciò l'esistenza di un quadro di base di azioni lecite. Non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo. La tolleranza di un governo non significa approvazione di qualsiasi cosa una persona faccia sotto quel governo o di qualsiasi cosa compia il governo stesso. Per una esposizione di quello che significa la tolleranza nel contesto della panarchia si veda lo scritto di John Zube.

Tutto quello che il governo fa diventa merda. Questa è la mia opinione. Alcuni condividono, molti dissentono. In ogni caso, tutti noi siamo attualmente con un governo unico nazionale. Molti sono infelici a causa di ciò. I perdenti ad ogni elezione sono immancabilmente scontenti. Eppure, essi non sono costretti a soffrire. Esiste una via d'uscita. Essi possono avere sempre il loro governo. Voi potete avere il vostro. E io posso avere il mio. Ma solamente se ogni governo è non-territoriale o ex-territoriale. Questa via d'uscita si chiama panarchia.

Tuesday, August 12, 2008

Anarchia senza aggettivi

Sulla scia del post dedicato a Berneri, riporto l'inizio di un bellissimo pezzo di Karl Hess, la cui traduzione integrale potete trovare sul neonato ma molto promettente blog Liberteo.

Anche per Hesse l'ideale anarchico coincide con la liberazione dell'uomo dalla coercizione e dall'imposizione, con la coscienza della sua capacità di organizzarsi senza necessariamente ledere il diritto altrui a farlo in maniera diversa. Tutto il resto, tutto ciò che ricade nel mondo del “come,” attiene alla sfera delle preferenze individuali, ed è per questo secondario rispetto all'urgenza di spezzare le catene che ci imprigionano tutti.
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Di Karl Hesse


C’è solo un tipo di anarchico. Non due. Solo uno. Un anarchico, di quell’unico genere, è definito dalla letteratura e dalla lunga tradizione della posizione stessa, ed è un individuo che si oppone all’autorità imposta attraverso il potere gerarchico dello stato. L’unico ampliamento a questa definizione che mi sembri ragionevole è dire che un anarchico si sollevi contro ogni autorità imposta. Un anarchico è un volontarista.

Ora, oltre a questo, gli anarchici sono persone e, come tali, contengono le mille sfaccettature della personalità umana. Alcuni anarchici marciano, volontariamente, sotto la croce di Cristo. Alcuni si affollano, volontariamente, intorno ad altre figure che amano e che sono fonte di ispirazione. Alcuni vogliono fondare delle cooperative industriali volontarie. Alcuni cercano di stabilire volontariamente la produzione agricola all’interno di kibbutz. Alcuni vogliono, volontariamente, estraniarsi da tutto, compresi tutti i loro rapporti con altre persone; gli eremiti. Alcuni anarchici hanno deciso, volontariamente, di accettare solo oro come pagamento, di non cooperare mai, e di far ruotare i propri capi. Alcuni anarchici, volontariamente, adorano il sole e la sua energia, costruiscono cupole, mangiano solo vegetali e suonano il salterio. Alcuni anarchici adorano il potere degli algoritmi, giocano a giochi strani e si infiltrano in strani templi. Alcuni anarchici vedono solo le stelle. Alcuni anarchici vedono solo il fango.

Spuntano da un solo seme, non importa come fioriscano le loro idee. Il seme è la libertà. E questo è tutto. Non è un seme socialista. Non è un seme capitalista. Non è un seme mistico. Non è un seme determinista. E’ semplicemente una dichiarazione. Noi possiamo essere liberi. Quello che viene dopo sono tutte scelte e probabilità.

Thursday, August 7, 2008

Una sola libertà

Luigi Camillo Berneri, una delle figure più importanti nella storia anarchica italiana: collaborò con Errico Malatesta a Umanità Nuova, ma anche con riviste antiautoritarie non anarchiche, come Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti. In polemica con Trotzki che la considerava un “assurdo storico,” individuava nella burocrazia sovietica la naturale conseguenza dell'aver mantenuto l'apparato satale, e la identificava con lo strumento coercitivo dello stato accentratore.

Soprattutto, parlando di economia Berneri dichiarava: “sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti, sul terreno politico sono intransigenti al cento per cento!” Ovvero, se la critica allo stato e la negazione del principio di autorità erano mete irrinunciabili, la forma economica anarchica doveva rimanere aperta, e quindi l'idea di Berneri era che si dovesse sperimentare la libera concorrenza tra lavoro e commercio individuali e lavoro e commercio collettivisti. La collettivizzazione era quindi da condannare se frutto dell'imposizione e non della libera scelta: l'anarchia non doveva portare ad una società dell'armonia assoluta, ma alla società della tolleranza.

Berneri verrà ucciso dai comunisti durante la guerra civile spagnola, falciato dal fuoco dei mitra alle spalle, poco dopo aver commemorato a Radio Barcellona la morte di Gramsci che aveva scritto su Ordine Nuovo: “Non ammetteremo mai di essere avversari degli anarchici, avversarie sono due idee contradditorie, non due idee diverse.”

Di seguito pubblico una sua lettera a Piero Gobetti, che dimostra quanto labili siano in realtà le barriere tra i pochi che, nel nome della libertà, si oppongono al potere oppressivo dello stato.
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Il liberismo nell'Internazionale


di Camillo Berneri


Caro Gobetti,

m'è accaduto più volte, trovandomi a discutere delle mie idee con persone colte, di dover constatare, per le domande rivoltemi e per le obbiezioni mossemi, che il movimento anarchico, che pure fa parte, e non piccola, della storia del socialismo, è o semi-ignorato o malamente conosciuto. Non mi sono, quindi, stupito, leggendo l'articolo del prof. Gaetano Mosca sul materialismo storico, nel vedere annoverato tra i socialisti utopisti il Proudhon, che rimarrebbe mortificato nel vedersi posto a braccetto con quel Blanc, che egli saettò con la più aspra ironia per aver posto “l'Eguaglianza a sinistra, la Libertà a destra e la Fratellanza in mezzo, come il Cristo fra il buono e il cattivo ladrone.”

Per escludere il Proudhon dagli scodellatori della zuppa comunista, basterebbe la critica alla formula, che divenne poi il credo Krapotkintano “da ciascuno secondo le sue forze ed a ciascuno secondo i suoi bisogni,” formula che egli chiama una casuistica avvocatesca, poiché non vede chi potrà fare la valutazione delle capacità e chi sarà giudice dei bisogni. (Cfr. L'Idée générale de la Révolution au dix-neuviéme siécle. - Garnier, Paris, 1851, p. 108).

L'errore in cui è caduto il Mosca è interessante, poiché dimostra come sia sfuggito a molti studiosi della storia del socialismo questa verità: che il collettivismo dell'Internazionale ebbe un valore essenzialmente critico. Fatto che è stato negato anche da alcuni anarchici, come da L. Fabbri, che sostiene essere l'anarchismo "tradizionalmente e storicamente socialista" in quanto ha per base della sua dottrina economica "la sostituzione della proprietà socializzata alla proprietà individuale" (cfr. Lettere ad un socialista; Pensiero - 1910, n. 14, p. 213).

Basta una rapida scorsa alla storia della Iª Internazionale per smentire questa affermazione. L'Internazionale nacque in Francia, nell'atmosfera ideologica del mutualismo proudhoniano, e, come dice Marx in una sua lettera relativa al Congresso di Ginevra (1866), non aveva, nel suo primo tempo, espressa alcuna idea collettivista né comunista. Il rapporto Longuet nel Congresso di Losanna (1867) dimostra che Proudhon dominava ancora. E tale dominio si riscontra nel Congresso di Bruxelles (1868), in cui, tuttavia, si affacciò l'idea collettivista, ma in modo generico e limitata alla proprietà fondiaria e alle vie di comunicazione. La collettivizzazione affermata nel IV Congresso, quello di Basilea (1869), fu limitata al suolo. L'influenza praudhoniana, dunque, è parallela all'anti-comunismo e all'anti-collettivismo.

Al collettivismo aderirono Bakounine e seguaci; ma vedendo in esso più che un progetto di forma economica, una formula di negazione della proprietà capitalista. Bakounine era entusiasta di Proudhon. Egli (Cfr. Oeuvres, I, 13-26-29) esalta il liberismo nord-americano [non erano ancora sorti i trusts], e dice “La libertà dell'industria e del commercio è certamente una gran cosa, ed è una delle basi essenziali della futura alleanza internazionale fra tutti i popoli del mondo.” E ancora: “I paesi d'Europa ove il commercio e l'industria godono comparativamente della più grande libertà, hanno raggiunto il più alto grado di sviluppo.” L'entusiasmo per il liberismo non gli impedisce di riconoscere che fino a quando esisteranno i governi accentrati e il lavoro sarà servo del capitale “la libertà economica non sarà direttamente vantaggiosa che alla borghesia.” In quel direttamente vi è una seconda riserva. Infatti egli vedeva nella libertà economica una molla di azione per la classe borghese, che egli afferma essere ingiusto considerare estranea al lavoro (Cfr. Oeuvres, I, pp. 30 e segg.), e non poteva non riconoscere la funzione storica del capitalismo attivo. Interessanti sono anche i motivi delle simpatie del B. per il liberalismo nord-americano, poiché ci spiegano che cosa egli intendesse per proprietà.

Il B. fa presente che il sistema liberista nord-americano “attira ogni anno centinaia di migliaia di coloni energici, industriosi ed intelligenti,” e non si impressiona punto all'idea che costoro divengano, o tentino divenire, proprietari.

Anzi, si compiace che vi siano coloni che emigrano nel Far West e vi dissodino la terra, dopo essersela appropriata, e nota che “la presenza di terre libere e la possibilità per l'operaio di diventare proprietario, mantiene i salari ad una notevole altezza ed assicura l'indipendenza del lavoratore” (Cfr. Oeuvres, I, 29).

La concezione del valore energetico della proprietà, frutto del proprio lavoro, è la nota fondamentale della ideologia economica del B. e dei suoi più diretti seguaci. Tra questi Adhémar Schwitzguébel, che nei suoi scritti (Cfr. Quelques écrits, a cura di J. Guillaume, Stock, Paris, pagina 40 e seguenti) sostiene che l'espropriazione rivoluzionaria deve tendere a concedere ad ogni produttore il capitale necessario a far valere il suo lavoro. La dimostrazione storica dell'anti-comunismo bakunista sta nel fatto che le tendenze comuniste nell'Internazionale italiana trionfarono nel 1867, quando l'attività del Bakounine era quasi interamente sospesa (Cfr. Introd. del Guillaume alle Oeuvres de B., p. XX) e nel fatto che in Spagna, ove l'Alleanza aveva piantato profonde radici, perdura una corrente anarchica collettivista in senso bakunista.

Se il collettivismo dell'Internazionale fosse stato compreso dal Mazzini non ci sarebbe stato il fenomeno della sua critica anti-comunista. Così criticava il Mazzini: “L'Internazionale è la negazione di ogni proprietà individuale, cioè di ogni stimolo alla produzione... Chi lavora e produce, ha diritto ai frutti del suo lavoro: in ciò risiede il diritto di proprietà... Bisogna tendere alla creazione d'un ordine di cose in cui la proprietà non possa più diventare un monopolio, e non provenga nel futuro che dal lavoro.” Saverio Friscia, nella “Risposta di un internazionalista a Mazzini,” (pubblicata sopra il giornale bakunista L'Eguaglianza di Girgenti, e ripubblicata dal Guillaume, che la trova superba e l'approva toto corde [Cfr. Oeavres de B., vol. VI, pp, 137-140]) rispondeva: “Il socialismo non ha ancora detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale.” Come lo potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo, per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l'assioma “chi lavora ha diritto ai frutti del suo lavoro, costituisce una delle basi fondamentali delle nuove teorie sociali?”. E dopo aver analizzato le critiche del Mazzini, esclama: “Ma non è questo del puro socialismo? Che cosa volevano Leroux e Proudhon, Marx e Bakunin, se non che la proprietà sia il frutto del lavoro? E il principio che ogni uomo deve essere retribuito in proporzione alle sue opere, non risponde forse a quell'ineguaglianza di attitudini e di forze ove il socialismo vede la base dell'eguaglianza e della solidarietà umana?.”

In questa risposta del Friscia è netta l'opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni; il principio dell'eguaglianza relativa (economica); ed in fine il principio dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata, automaticamente, alle opere.

Non pensi, caro Gobetti, che potrebbe essere utile, su R. L., una serie di studi sul liberalismo economico nel socialismo? Credo colmerebbe una grande lacuna e leverebbe di mezzo molti e vecchi equivoci. Credo ne risulterebbe, fra le tante cose interessanti, questa verità storica: essere stati gli anarchici, in seno all'Internazionale, i liberali del socialismo. Storicamente, cioè nella loro funzione di critica e di opposizione al comunismo autoritario e centralizzatore, lo sono tutt'ora.

Tuo C. Berneri.

Tuesday, July 15, 2008

Contro lo Stato

Sono da sempre convinto che tra anarchici, quale che sia il suffisso caratterizzante preferito, si dovrebbe sempre essere in grado di trovare un accordo. Se ciò che più si desidera, infatti è la possibilità di ciascuno di vivere la propria vita seguendo le personali aspirazioni liberi da imposizioni, il dialogo tra anarchici – tra coloro cioè che hanno individuato nello Stato il nemico, l'ostacolo principale alla pace e all'evoluzione stessa dell'uomo – dovrebbe essere una priorità. In una società libera, chiunque è libero, appunto, di scegliere il tipo di sistema economico in cui preferisce vivere, senza per questo avere il diritto di imporlo agli altri: questo è il senso vero del libertarismo. Lo Stato è il muro che ci impedisce di approdare a questa “terra promessa,” ed è assurdo dividersi in fazioni per chi ha lo scopo primario l'abbattimento di quel muro.

Per questo motivo pubblico questo articolo di Giuseppe Genna a commento della vergognosa sentenza sui fatti della Bolzaneto, autore del quale non condivido molte posizioni, ma che sicuramente prova la mia stessa lucida rabbia verso questa letale organizzazione criminale chiamata Stato.
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di Giuseppe Genna


[Le opinioni qui espresse sono da considerarsi di responsabilità oggettiva solo e unicamente dello scrivente e non includono alcun coinvolgimento editoriale di chiunque altro scriva su questo blog. gg]

Il primo commento alla indegna sentenza che riduce la tragedia della scuola Diaz a una rissa in cui qualcuno ha alzato un po' troppo il gomito (col gomito fracassando calotte craniche e lacerando tessuti) sarebbe che ha ragione Berlusconi. La Magistratura è da riformare. Ogni sentenza risulta disomogenea rispetto alle altre emanate per vicende consimili. Sui fatti nodali della storia italiana, i giudici non hanno giudicato niente. Sul passato devastato di questa nazione, i magistrati sono forcaioli in attesa di incrementare l'intensità con cui il passato non è devastato ma devastante. Avrebbe ragione Berlusconi e, di conseguenza, avrebbe ragione quello che non so più come definire (centro, pallida socialdemocrazia cristiana, incrocio genetico dell'a-politica...), insomma, quella roba rosa pallido lì: si dovrebbe riformare la Giustizia, ma finché c'è Berlusconi non lo si può fare.

E sarebbero giudizi sbagliati. Perché la sentenza sui fatti di Bolzaneto evidenzia che è lo Stato tutto, in qualunque sua funzione, a risultare compromesso, purulento, contaminante. Il giudizio va tracciato oltre ogni tentazione ideologica. Si ha da essere contro lo Stato. Poiché, dopo giorni di scontro istituzionale sull'indipendenza del potere legislativo da quello esecutivo, garantito dalla Costituzione, tra i cui Padri non c'è quel figlio di puttana di Benjamin Franklin bensì quell'anima santa di Giulio Andreotti - dopo una battaglia all'ultimo finto sangue, poiché quello vero scorse alla Diaz, ecco come questa mascherata si risolve: con i poteri che si tutelano a vicenda e non smentiscono le lucide previsioni di chi, vivendo in stato statale, sapeva già da tempo che, al momento decisivo, lo Stato si sarebbe rinsaldato tutto di un colpo, escludendo il diritto alla verità di chi lo Stato rappresenta e di chi ne è a fondamento: cioè noi tutti.

Potrei dissertare filosoficamente all'infinito sulle teorie politiche che giustificano quanto sto affermando, e cioè che lo Stato è contro la natura della civiltà, dell'umanità, dei valori, della convivenza, dell'empatia e dell'amore. Altrettante teorie potrebbero essere scagliate contro questo personalissimo giudizio. Poiché, tuttavia, l'immediatezza del momento, con questa evidenza dell'indegnità del potere giudiziario a fronte di una patente violazione dei diritti personali e collettivi, solleva emozioni, risponderò con una citazione che mi sta a cuore, di cui non sto a enunciare né l'autore né l'opera - tanto, chi ha occhi per vedere vedrà e chi ha orecchi per ascoltare ascolterà:

Noi, rivoluzionari-anarchici, fautori dell’istruzione generale del popolo, dell’emancipazione e del piú vasto sviluppo della vita sociale e di conseguenza nemici dello Stato e di ogni statalizzazione, affermiamo, in opposizione a tutti i metafisici, ai positivisti e a tutti gli adoratori scienziati o non della scienza deificata, che la vita naturale precede sempre il pensiero, il quale è solo una delle sue funzioni, ma non sarà mai il risultato del pensiero; che essa si sviluppa a partire dalla sua propria insondabile profondità attraverso una successione di fatti diversi e mai con una serie di riflessi astratti e che a questi ultimi, prodotti sempre dalla vita, che a sua volta non ne è mai prodotta, indicano soltanto come pietre miliari la sua direzione e le varie fasi della sua evoluzione propria e indipendente.

In conformità con questa convinzioni noi non solo non abbiamo l’intenzione né la minima velleità d’imporre al nostro popolo, o a qualunque altro popolo, un qualsiasi ideale di organizzazione sociale tratto dai libri o inventato da noi stessi ma, persuasi che le masse popolari portano in se stesse, negli istinti piú o meno sviluppati dalla loro storia, nelle loro necessità quotidiane e nelle loro aspirazioni coscienti o inconsce, tutti gli elementi della loro futura organizzazione naturale, noi cerchiamo questo ideale nel popolo stesso; e siccome ogni potere di Stato, ogni governo deve, per la sua medesima essenza e per la sua posizione fuori del popolo o sopra di esso, deve necessariamente mirare a subordinarlo a un’organizzazione e a fini che gli sono estranei noi ci dichiariamo nemici di ogni governo, di ogni potere di Stato, nemici di un’organizzazione di Stato in generale e siamo convinti che il popolo potrà essere felice e libero solo quando, organizzandosi dal basso in alto per mezzo di associazioni indipendenti e assolutamente libere e al di fuori di ogni tutela ufficiale, ma non fuori delle influenze diverse e ugualmente libere di uomini e di partiti, creerà esso stesso la propria vita.

Queste sono le convinzioni dei socialisti rivoluzionari e per questo ci chiamano anarchici. Noi non protestiamo contro questa definizione perché siamo realmente nemici di ogni autorità, perché sappiamo che il potere corrompe sia coloro che ne sono investiti che coloro i quali devono soggiacervi. Sotto la sua nefasta influenza gli uni si trasformano in despoti ambiziosi e avidi, in sfruttatori della società in favore della propria persona o casta, gli altri in schiavi.

È chiaro allora perché i rivoluzionari dottrinari che si sono assunta la missione di distruggere i poteri e gli ordini esistenti per creare sulle loro rovine la propria dittatura, non sono mai stati e non saranno mai i nemici ma, al contrario sono stati e saranno sempre i difensori piú ardenti dello Stato. Sono nemici dei poteri attuali solo perché vogliono impadronirsene; nemici delle istituzioni politiche attuali solo perché escludono la possibilità della loro dittatura; ma sono tuttavia i piú ardenti amici del potere di Stato che dev’essere mantenuto, senza di che la rivoluzione, dopo aver liberato sul serio le masse popolari, toglierebbe a questa minoranza pseudorivoluzionaria ogni speranza di riuscire a riaggiogarle a un nuovo carro e di gratificarle dei suoi provvedimenti governativi.

Ciò è tanto vero che oggi, quando in tutta l’Europa trionfa la reazione, quando tutti gli Stati ossessionati dallo spirito piú frenetico di conservazione e di oppressione popolare, armati da capo a piedi di una triplice corazza, militare, politica e finanziaria e si apprestano sotto la direzione del principe Bismarck a una lotta implacabile contro la Rivoluzione Sociale; oggi, quando si sarebbe dovuto pensare che tutti i sinceri rivoluzionari s’unissero per respingere l’attacco disperato della reazione internazionale, noi vediamo al contrario che i rivoluzionari dottrinari sotto la guida del signor Marx prendono dappertutto il partito dello statalismo e degli statalisti contro la rivoluzione del popolo.
Ora, mi sia permesso aggiungere qualche breve nota personale. E cioè che io mi vergogno non soltanto di vivere in uno Stato la mia esistenza che forzosamente è resa miseranda dalla struttura statuale stessa, ma mi vergogno maggiormente a vivere in questo Stato; mi repelle qualunque istituzione, che si forma per necessità tutt'altro che naturali e popolari, ma per imposizione non contestabile da chiunque, che si ritrova immerso in questo habitat da quando è demilienizzato a un giorno dalla nascita e, anche se poi si mette a contestare questo condizionamento totalizzante (che è tale poiché lo Stato è un ente totalitario), comunque finirà a morire in un ospedale senza avere sortito nulla, e chi rimane dovrà pure essere grato perché lo Stato garantisce un posto di merda dove morire; sono orripilato quotidianamente dalla visione delle cosiddette Forze dell'Ordine, che con l'Arma dei Carabinieri sortiscono il massimo gradimento e fiducia dei miei concittadini, e si stanno visibilmente moltiplicando sotto i miei occhi, godendo di leggi fatte all'impromptu per permettere loro un controllo ancora più serrato sulle persone, non bastando il fatto che, trascorsa la stagione di Piombo, non sono state ancora abrogate le leggi restrittive emanate ai tempi da Francesco Cossiga, cosicché senza accorgersi i miei concittadini vivono in uno stato di guerra legislativo, senza che ci sia più quella guerra; mi viene da vomitare al pensiero che si sorveglino militarmente inesistenze e astrazioni dette "confini", purissimi atti di volontà di potenza che nessun geomorfismo giustifica; sono angosciato dal fatto che lo Stato permetta a difensori e pm e giudici di trattare donne violate come le tratta in quelle enclave che sono le aule giudiziarie; sono sconvolto dall'aberrazione dell'ideologia trionfante (quintessenziale all'idea di Stato stesso) della pena, questo protocollo per cui, anziché arrivare a una civiltà, si invera in forma legislativa l'occhio per occhio e il dente per dente, appalesando con somma serenità e assenza di opposizione qualunque la reale natura vendicativa dell'istituzione stessa, che condiziona chiunque; sono sconcertato dall'assoluta assenza di reazione coscienziale di chi abita con me in questo che, prima che uno Stato, è un luogo, puramente e semplicemente un luogo, dove si è sviluppata una lingua comune e peraltro la lingua più poetica del mondo moderno.

Il mio pensiero va agli ultimi tra i calpestati dallo Stato, che sono i massacrati della Diaz. Si aggiungono a una teoria infinita di persone, non di cittadini, per cui non c'è stata la tanto vantata tutela dello Stato, perché non può esserci, e dunque sarebbe anche inutile aspettarsela o berciare, come sto facendo, perché non c'è. E dico le vittime e i colpevoli tutti, tutti gli abitanti di questo luogo, che ha una storia cangiante e multiforme, che non si trova nei manuali di storia statale che vengono comminati nelle scuole, per l'attuale disinteresse delle giovani generazioni, le più condizionate che abbiano calcato questa penisola e vissuto in questa civiltà, erettasi su fondamenti etruschi e cioè asiatici, greci, mediorientali, ebrei, arabi, normanni, tedeschi, francesi, spagnoli, africani, cinesi e, purtroppo, sì, anche vaticani.

Concludo citando quello di prima, perché si comprenda che non a caso ho citato il connubio vomitevole di cui l'Italia è attuale avanguardia residuale (un paradosso che da solo qualifica questo posto in cui stiamo) - quello tra Stato e Chiesa, cioè tra Idea dello Stato e Dio. Buon futuro a tutti, concittadini, ovverosia voi che vi sentite cittadini...
Dio appare, l’uomo si annienta; e più la Divinità si fa grande, più l’umanità diventa miserabile. Ecco la storia di tutte le religioni: ecco l’effetto di tutte le ispirazioni e di tutte le legislazioni divine. Nella storia, il nome di Dio è la terribile vera clava con la quale tutti gli uomini divinamente ispirati, i "grandi geni virtuosi", hanno abbattuto la libertà, la dignità, la ragione e la prosperità degli uomini.

Abbiamo avuto prima la caduta di Dio. Abbiamo ora una caduta che c’interessa assai più: quella dell’uomo, causata dalla sola apparizione di Dio o manifestazione sulla terra. Vedete dunque in quale orrore profondo si trovano i nostri cari ed illustri idealisti. Parlandoci di Dio, essi credono e vogliono elevarci, emanciparci, nobilitarci, ed al contrario ci schiacciano e ci avviliscono. Col nome di Dio, essi immaginano di poter edificare la fratellanza fra gli uomini, ed invece creano l’orgoglio e il disprezzo, seminano la discordia, l’odio, la guerra, fondano la schiavitù.

Perché con Dio vengono necessariamente i diversi gradi d’ispirazione divina; l’umanità si divide in uomini ispiratissimi, meno ispirati, non ispirati.
Tutti sono egualmente nulla davanti a Dio, è vero, ma confrontati, gli uni agli altri, alcuni sono più grandi degli altri; non solamente di fatto, ciò che non avrebbe importanza perché una ineguaglianza di fatto si perde da se stessa nella collettività quando non può afferrarsi ad alcuna finzione o istituzione legale; ma alcuni sono più grandi degli altri per volere del diritto divino dell’ispirazione: il che costituisce subito una in eguaglianza fissa, costante, pietrificata.
I più ispirati devono essere ascoltati ed obbediti dai meno ispirati e questi dai non ispirati.

Ecco il principio di autorità ben stabilito e con esso le due istituzioni fondamentali della schiavitù: la Chiesa e lo Stato.

Thursday, February 21, 2008

Senza stato: una storia reale

Segnalo questo ottimo post dal blog Tra Cielo e Terra sulla società senza stato. Un episodio paradigmatico tratto dalla storia della Grecia moderna che offre molti spunti di riflessione.
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Di Santaruina


Nel discorrere della società e della sua struttura, si sostiene spesso la necessità di uno stato ben organizzato in grado di garantire la sicurezza dei cittadini e la difesa dei più deboli.

La sicurezza, l'ordine e l'organizzazione del vivere civile sono, secondo questo punto di vista, gli elementi che rendono imprescindibile la presenza di un potere centrale che sappia regolare lo svolgimento del vivere quotidiano.
Chi sostiene invece la nocività di un potere centrale, e vede lo stato come un ente costrittivo che limita enormemente la libertà del singolo, è tenuto a rispondere ad una serie di naturali obbiezioni, che riguardano le funzioni principali dello stato stesso prima menzionate: chi eviterebbe, in mancanza di un potere forte, che la società si trasformi in una giungla?
Lasciando da parte per il momento una disquisizione tanto impegnativa, credo che un ottimo spunto per eventuali riflessioni possa essere dato dall'analisi di alcuni fatti storici, esperienze reali che possano offrire un interessante paradigma.
A tal proposito mi piace spesso ricordare ciò che avvenne nella nazione greca in seguito alla rivoluzione del 1821, e la fine della egemonia ottomana.


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Friday, December 7, 2007

Così vicini, così lontani

Rimaniamo sul tema della lotta di classe, con questo lungo articolo di Hoppe segnalatomi da Orso nei commenti e recuperato da POL, che mi pare ottimo per celebrare il post no. 200.

Qui Hoppe – che, come abbiamo scoperto nella sua intervista, fu in gioventù marxista – indica i punti in cui l'analisi marxista e quella austriaca corrispondono, e quelli in cui divergono, rivelando come, in fondo, alla base di entrambe le scuole si trovi lo stesso anelito di libertà.

Un monito a non farsi fregare un'altra volta, in un certo senso.
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L'analisi di classe secondo Marx...e la scuola austriaca
Di Hans-Hermann Hoppe


Ecco cosa intendo fare in questo articolo: prima di tutto, presentare le tesi che costituiscono il nocciolo duro della teoria marxista della storia. Affermo che sono tutte giuste, essenzialmente. Poi dimostrerò come, nel marxismo, queste conclusioni corrette sono dedotte da un punto di partenza sbagliato. Infine dimostrerò come la scuola austriaca, nella tradizione di von Mises e Rothbard, può dare una spiegazione corretta, sebbene categoricamente diversa, della loro validità.

Cominciamo dal nocciolo duro del sistema marxista:

- “La storia dell'umanità è la storia della lotta di classe.” È la storia delle lotte tra una classe dirigente relativamente ristretta e una classe più ampia di sfruttati. La prima forma di sfruttamento è economica:
la classe dirigente espropria una parte della produzione degli sfruttati o, come dicono i marxisti, “fa proprio un surplus sociale” e ne dispone per il proprio consumo.

- La classe dirigente è unita dal suo interesse comune a mantenere la sua posizione di sfruttatrice e ad accrescere al massimo questo suo surplus. Non lascia mai di sua spontanea volontà il suo potere né la sua rendita da sfruttamento. Al contrario, possiamo farle perdere potere e rendita solo attraverso la lotta, il cui risultato dipende dalla coscienza di classe degli sfruttati, cioè dalla misura in cui questi sfruttati sono coscienti della loro condizione e sono coscientemente uniti con gli altri membri della loro classe in una opposizione comune al loro sfruttamento.

- La dominazione di classe si manifesta principalmente attraverso delle disposizioni particolari sulla assegnazione dei diritti di proprietà o, nella terminologia marxista, attraverso delle “relazioni di produzione” particolari. Per proteggere queste disposizioni o relazioni di produzione, la classe dirigente concepisce lo stato come l'apparato di assoggettamento e di coercizione. Lo stato impone e contribuisce a riprodurre una struttura di classe data dall'amministrazione di un sistema di “giustizia di classe“, e favorisce la creazione e la conservazione di una superstruttura ideologica destinata a dare legittimità al sistema di dominazione di classe.

- All'interno, il processo di concorrenza in seno alla classe dirigente genera la tendenza a una concentrazione e a una centralizzazione crescenti. Un sistema di sfruttamento policentrico viene rimpiazzato progressivamente da un sistema oligarchico o monopolistico. Sempre meno centri di sfruttamento rimangono in funzione, e quelli che restano vengono sempre più integrati in un ordine gerarchico. All'esterno, cioè nel contesto del sistema internazionale, questo processo interno di centralizzazione porterà (tanto più intensamente quanto più sarà avanzato) a guerre imperialiste tra stati e all'espansione territoriale della dominazione sfruttatrice.

- Infine, avvicinandosi la centralizzazione e l'espansione della dominazione sfruttatrice al loro limite ultimo di dominazione mondiale, la dominazione di classe sarà sempre meno compatibile con l'ulteriore sviluppo e miglioramento delle “forze produttive”. La stagnazione economica e le crisi divengono sempre più caratteristiche e creano le “condizioni oggettive” per l'emergere di una coscienza di classe rivoluzionaria fra gli sfruttati. La situazione si fa matura per l'avvento di una società senza classi, per il “deperimento dello stato”, per rimpiazzare “il governo degli uomini con l'amministrazione delle cose”, e ne risulta un'incredibile prosperità.

Tutte queste tesi possono essere perfettamente giustificate, come sto per dimostrare. Ma sfortunatamente, è il marxismo, il quale sottoscrive ognuna di esse, che ha fatto più di ogni sistema ideologico per screditarle, deducendole da una teoria dello sfruttamento la cui assurdità è lampante. In cosa consiste questa teoria marxista dello sfruttamento? Per Marx, dei sistemi sociali pre capitalisti quali lo schiavismo e il feudalesimo sono caratterizzati dallo sfruttamento. Fin qui, nessuna obiezione; dopo tutto, lo schiavo non è un lavoratore libero e non si può dire che abbia dei benefìcî ad essere ridotto in schiavitù. Al contrario, la sua soddisfazione ne è ridotta per accrescere la ricchezza del suo padrone. L'nteresse dello schiavo e quello del suo padrone sono dunque a dir poco antagonisti. Lo stesso si può dire degli interessi del Signore feudale che esige dal vassallo un affitto per la terra che esso stesso (il vassallo) era stato il primo a mettere a frutto per proprio conto. Poiché ha rubato la sua terra e la sua libertà il guadagno del Signore è stata la perdita del vassallo. E non si può meno dubitare che la schiavitù così come il feudalesimo ostacolano lo sviluppo delle forze produttive. Né lo schiavo né il servo saranno mai tanto produttivi quanto lo sarebbero in assenza di schiavitù o di servitù.

No; l'unica idea nuova di Marx è che essenzialmente nulla cambia per quanto riguarda lo sfruttamento in un sistema capitalista, cioè quando lo schiavo diviene un lavoratore libero, o un vassallo decide di coltivare una terra che un altro è stato il primo a mettere a frutto, e paga un affitto in cambio del diritto di farlo. È vero che Marx, nel famoso capitolo 24 del primo tomo del suo Il Capitale, fa una descrizione della comparsa del capitalismo che intende dimostrare che una gran parte, se non la maggior parte della proprietà capitalista iniziale risulta dal furto, dall'accaparramento delle terre e dalla conquista. Allo stesso modo, nel capitolo 25 sulla “teoria moderna del colonialismo”, sottolinea pesantemente il ruolo della forza e della violenza nell'esportazione del sitema capitalista verso quello che noi chiameremmo il terzo mondo. Vediamo bene che tutto ciò è grossomodo esatto, e nella misura in cui lo è, non cercheremo contrasti con chiunque chiamasse “sfruttatore” quel capitalismo. Ciononostante, dobbiamo restare coscienti del fatto che qui Marx si abbandona a una manipolazione. Lanciandosi in tutte queste ricerche storiche per eccitare l'indignazione del lettore davanti alle brutalità commesse per costituire la maggior parte delle fortune capitaliste, tralascia in realtà la questione oggetto stesso del dibattito. Distoglie la nostra attenzione dal fatto che la sua tesi è essenzialmente diversa, sapendo che anche se avessimo un capitalismo “proprio”, cioè un capitalismo nel quale l'appropriazione originale risultasse da nient'altro che dalla prima messa a frutto del lavoro e del risparmio, il capitalista che ingaggiasse dei lavoratori con quel capitale non fosse considerato meno sfruttatore. Infatti, Marx considerava anche questa dimostrazione come il suo maggior contributo all'analisi economica. Qual'è dunque la sua famosa dimostrazione del carattere di sfruttamento di un capitalismo proprio?

Consiste nell'osservare che i prezzi dei fattori di produzione, e segnatamente i salari pagati ai lavoratori dai capitalisti, sono inferiori ai prezzi dei prodoti venduti. Il lavoratore, per esempio, riceve un salario corrispondente a beni di consumo che possono essere prodotti in tre giorni, ma per quel salario lavora in effetti cinque giorni, e produce quindi in beni di consumo più ricchezza di quella che riceve come remunerazione. La produzione di questi due giorni supplementari, il plusvalore in termini marxisti, è fatta propria dal capitalista. Conseguentemente, secondo Marx, c'è sfruttamento.

Cosa c'è che non va in quest'analisi? La risposta diviene evidente, quando ci si chiede perché mai il lavoratore accetti un tale scambio. Accetta perché il suo salario rappresenta dei prodotti attuali, mentre i servizi del suo lavoro rappresentano solo dei prodotti futuri, e perché attribuisce più valore ai beni presenti. Dopo tutto, potrebbe decidere di non vendere le sue prestazioni al capitalista e recuperare egli stesso il valore totale del suo prodotto. Ma questo significherebbe sicuramente attendere più a lungo per accedere ai prodotti di consumo. Vendendo i servizi del suo lavoro, dimostra che preferisce ricevere meno prodotti di consumo oggi piuttosto di trarne eventualmente dei vantaggi domani. Da parte sua, perché il capitalista conclude l'affare col lavoratore? Perché accetta di anticipare prodotti attuali (in denaro) al lavoratore in cambio di servizi che frutteranno solo più avanti? Evidentemente non vorrebbe sborsare oggi 1000 $ per riceverne in cambio la stessa somma dopo un anno. In questo caso, perché non tenersi la somma con il vantaggio di averla a disposizione per un anno intero? No, bisogna che si possa aspettare di ottenere più dei 1000 $ nell'avvenire se deve lasciarli ora al lavoratore. Bisogna che ne abbia un utile, o più esattamente riceverne un interesse. D'altra parte è anche costretto in altro modo a questo scambio, perché colui che agisce preferisce sempre una soddisfazione immediata alla stessa nell'avvenire. Poiché si può ottenere una somma più consistene nell'avvenire quando la si abbandona nel presente, perché non risparmia più di quanto faccia? Perché non assume più lavoratori, se ognuno di loro gli consente una rendita da interesse supplementare? La risposta qui, è altrettanto evidente: perché il capitalista è anch'egli un consumatore, e non può evitare di esserlo. L'ammontare del suo risparmio e dei suoi investimenti è limitato necessariamente per il fatto che anche lui, come il lavoratore, ha bisogno di beni immediati “in tale misura da assicurare la copertura dei bisogni la cui soddisfazione durante l'attesa è giudicata più urgente dei vantaggi che porterebbe un allungamento supplementare del periodo di produzione”.

Quello che non va, conseguentemente, nella teoria marxista dello sfruttamento è che non riconosce il fenomeno della preferenza temporale come categoria universale dell'azione umana. Che il lavoratore non riceva il "valore totale" del suo lavoro non ha niente a che vedere con lo sfruttamento, ma riflette solo il fatto che è impossibile per un uomo scambiare beni futuri con beni presenti senza pagare un interesse. Contrariamente alla situazione dello schiavo e del padrone nella quale il secondo sfrutta il primo, la relazione tra lavoratore libero e capitalista è vantaggiosa per entrambi. Il lavoratore entra nell'accordo perché, data la sua preferenza temporale, preferisce una minor quantità di beni subito a una maggiore più tardi; e il capitalista lo fa perché, data la sua preferenza temporale, c'è un ordine di preferenze inverso, che mette una maggior quantità di beni futuri al di sotto di una minore subito. I loro interessi non sono antagonisti ma armoniosi. Se il capitalista non aspettasse un interesse, il lavoratore ne sarebbe svantaggiato, dovendo attendere più a lungo di quanto speri (4). E non possiamo più, come fa Marx, considerare il sistema capitalista salariale come un ostacolo allo sviluppo ulteriore delle forze produttive. Se non permettessimo più al lavoratore di vendere i suoi servizi e al capitalista di comprarli, la produzione non aumenterebbe ma diminuirebbe, perché essa dovrebbe accontentarsi di un minore capitale accumulato.

Del tutto contrariamente alle affermazioni di Marx, lo sviluppo di queste famose forze produttive non raggiungerebbe affatto nuovi apici in un sistema di produzione socializzato, ma sprofonderebbe miseramente. Perché è evidente che il capitale deve essere creato in punti e momenti determinati, e per la prima messa a frutto, dalla produzione e dal risparmio di individui particolari. In ogni caso, è accumulato nella speranza che potrà portare un aumento nella produzione di beni e servizi a venire. Il valore attribuito al suo capitale da qualcuno che agisce riflette il valore che attribuisce all'insieme dei redditi che può ottenere dalla sua cooperazione, scontato del suo tasso di preferenza temporale. Se, come nel caso della proprietà collettiva dei mezzi di produzione, un soggetto non ha più la padronanza esclusiva del suo capitale accumulato né conseguentemente dei redditi futuri derivanti dal suo impiego; se al contrario permettiamo a non produttori (sia della prima messa a frutto che di ulteriori produzioni) e a non risparmiatori di disporne parzialmente, ciò ridurrà automaticamente il valore per lui delle rendite future e dunque dei capitali materiali. Il periodo di produzione, il carattere indiretto della struttura di produzione, sarà per forza accorciato, e deve necessariamente derivarne un impoverimento.

Se la teoria dello sfruttamento di Marx e le sue idee sul modo di mettere fine allo stesso e di far regnare la prosperità universale sono false al punto da sembrare ridicole, è chiaro che ogni teoria che ne fosse dedotta dev'essere anch'essa falsa. Oppure, se fosse giusta, bisogna pensare che ne è stata dedotta in modo errato. Invece di assoggettarmi ad una laboriosa illustrazione di tutti gli errori di ragionamento dell'argomento marxista, dal suo punto di partenza sbagliato alla teoria della storia che ho illustrato all'inizio - come corretta - prenderò una scorciatoia. Comincerò col presentare, il più rapidamente possibile, la teoria corretta dello sfruttamento, cioè la teoria austriaca, quella di von Mises e di Rothbard; farò un breve schizzo delle giustificazioni che essa dà alla teoria storica della lotta di classe; e, al volo, sottolineerò sia delle differenze essenziali tra la teoria austriaca e quella marxista, sia alcune affinità tra di esse, scaturite dalla loro convinzione comune che lo sfruttamento, la classe sfruttatrice, esistono eccome.

Il punto di partenza dell'analisi austriaca dello sfruttamento, come d'obbligo, è semplice e chiaro. Infatti, l'abbiamo già stabilito nel corso dell'analisi della teoria marxista: lo sfruttamento caratterizzava senza tanti complimenti il rapporto fra lo schiavo e il suo padrone così come fra il contadino e il signore feudale. Ma non abbiamo trovato alcuno sfruttamento possibile nel capitalismo proprio. Qual'è la differenza di principio fra i due casi? La risposta è: il riconoscimento o no del principio del Diritto della prima messa a frutto. Il vassallo è sfruttato perché non ha la padronanza esclusiva della terra che era stato il primo a mettere a frutto, e lo schiavo non è padrone del suo proprio corpo di cui era (è il caso di dirlo) il primo occupante. Se, al contrario, ognuno ha la proprietà esclusiva del proprio corpo (cioè se è un lavoratore libero) e agisce rispettando il Diritto del primo utilizzatore, allora non ci può essere sfruttamento. È logicamente assurdo pretendere che colui che si impadronisce di oggetti che non appartengono ancora a nessuno, o che destina questi beni a produzioni future, o risparmia dei beni accaparrati o prodotti in questo modo per accrescere la disponibilità dei prodotti nell'avvenire, possa sfruttare chichessia facendolo. Nessuno ha sottratto niente a nessuno durante questo processo, e inoltre si sono prodotti più beni. E sarebbe ugualmente assurdo pretendere che un accordo fra differenti proprietari iniziali, risparmiatori e produttori, sull'uso dei loro beni accaparrati, sempre senza sfruttamento, possa comportare un qualche tipo di ingiustizia. Al contrario, è quando si produce una differenza di qualsiasi natura nei confronti del principio della prima messa a frutto che ha luogo lo sfruttamento. Vi è sfruttamento quando una persona fa prevalere le sue pretese sulla proprietà parziale o totale di beni che non è stata la prima a mettere a frutto, che non ha prodotto, o che non ha acquisito per contratto con un produttore - precedente proprietario. Lo sfruttamento, è l'espropriazione dei primi utilizzatori, produttori e risparmiatori da parte di non-primi utilizzatori, dei non-produttori, dei non-risparmiatori giunti in un secondo momento. È l'espropriazione di gente le cui pretese sulla loro proprietà si fondano sul lavoro e il contratto, esercitata da parte di gente le cui pretese escono da non si sa dove, e che non tengono in alcun conto il lavoro e i contratti degli altri.

Inutile dire che lo sfruttamento definito in questo modo è parte integrante della storia umana. Ci sono due modi di arricchirsi: o si mettono a frutto delle risorse inutilizzate, si produce, si risparmia, si contratta, oppure si espropriano coloro che hanno messo a frutto, prodotto, risparmiato e contrattato. Ci sono sempre state, a fianco della messa a frutto, del risparmio, acquisizioni di proprietà non fondate sulla produzione e sul contratto. E nel corso dell'evoluzione economica, così come i produttori e i contraenti liberi accordi possono costituirsi in società, in imprese, in associazioni, gli sfruttatori possono accordarsi per formare imprese di sfruttamento su larga scala: stati e governi. La classe dirigente (la quale, ancora una volta, può essere gerarchizzata) è inizialmente composta dai membri di queste imprese di sfruttamento. Di modo che, con una classe dirigente installata su un dato territorio e dedita allo sfruttamento delle risorse economiche di una classe di produttori sfruttati, tutto si traduce senza tanti complimenti nella lotta tra sfruttatori e sfruttati. Allora, la storia è essenzialmente quella delle vittorie e delle sconfitte dei padroni nei loro tentativi di accrescere al massimo i proventi del loro sfruttamento e quella di coloro che cercano di frenare e invertire questa tendenza. È su questa valutazione della storia che i marxisti e gli “austriaci” si trovano d'accordo, e perciò esiste una notevole affinità fra le ricerche storiche dell'una e dell'altra scuola. L'una e l'altra si oppongono a una storiografia che riconosce solo azioni e interazioni, su un piede di parità morale o economica; e tutt'e due si oppongono ugualmente a una storiografia per la quale, invece di usare questa neutralità, sarebbe conveniente esaltare la narrazione attraverso giudizi di valore puramente soggettivi. No: bisogna raccontare la storia in termini di libertà e di sfruttamento, di parassitismo e di impoverimento, di proprietà privata e di sua distruzione. Diversamente, la si falsifica.

Mentre le imprese produttrici compaiono e scompaiono perché sostenute o non sostenute volontariamente, una classe dirigente non arriva mai al potere perché vi sarebbe una domanda per i suoi servizi, e non abdica nemmeno quando è evidente che ci si augura la sua scomparsa. È veramente eccessivo chiedere all'immaginazione di credere che i primi utilizzatori, produttori, liberi contraenti accordi, avrebbero voluto che li si espropriasse. Si deve forzarli a rassegnarvisi, e ciò prova in maniera definitiva che non vi era alcuna domanda in quel senso. Non si può mai dire che sia possibile detronizzare una classe dirigente astenendosi da ogni transazione con essa, come si fa fallire un'impresa produttiva. È da transazioni non produttive e non contrattuali che la classe dirigente trae il suo reddito, e nessun boicottaggio può intaccarlo. Piuttosto, ciò che rende possibile l'emergere di un'impresa di sfruttamento, e ciò che può abbatterla, è uno stato particolare dell'opinione pubblica o, secondo la terminologia marxista, uno stato particolare della coscienza di classe.

Uno sfruttatore ha delle vittime, e le vittime sono dei nemici potenziali. Si può immaginare che questa resistenza possa essere spezzata a lungo con la forza nel caso di un gruppo di uomini che sfrutta un altro gruppo più o meno delle stesse dimensioni. Invece, ci vuole ben più che la forza per sviluppare lo sfruttamento di una popolazione diverse volte più numerosa. Per riuscirci, l'impresa deve avere il sostegno dell'opinione pubblica. Bisogna che una maggioranza della popolazione accetti come legittimi gli atti che assicurano lo sfruttamento. Questa accettazione può oscillare fra l'entusiasmo attivo e la rassegnazione passiva. Ma dev'essere accettazione, nel senso che la maggioranza deve aver abbandonato l'idea di resistere attivamente o passivamente ad ogni tentativo di imporre acquisizioni non produttive e non contrattuali della proprietà. La coscienza di classe dev'essere debole, poco sviluppata, incerta. È solo se un tale stato di cose perdura che una impresa di sfruttamento può prosperare benché nessuno ne abbia bisogno. Il potere della classe dirigente si può rompere solo, e nella misura in cui, sfruttati ed espropriati acquisiscono un'idea chiara del loro stato, e si uniscono ad altri membri della loro classe in un movimento ideologico che propugna l'idea di una società senza classi nella quale venga abolita ogni forma di sfruttamento. È solo, e nella misura in cui, la maggioranza degli sfruttati si integra consciamente in un tale movimento, e se tutti si indignano per le acquisizioni non produttive e non contrattuali della proprietà, rivolgono il loro disprezzo verso chiunque si dedichi a tali atti, e rifiutano deliberatamente di contribuire in alcun modo alle loro imprese, che si può condurre questo potere alla disfatta.

L'abolizione progressiva della dominazione feudale e assolutista, la comparsa di società via via sempre più capitaliste in Europa occidentale e negli Stati Uniti, e conseguentemente uno sviluppo inaudito della produzione e della popolazione, sono stati i risultati di una accresciuta presa di coscienza da parte degli sfruttati, saldati assieme dall'ideologia liberale dei diritti naturali. Fin qui, marxisti e austriaci sono d'accordo. Dove non lo sono, per contro, è sul giudizio dato a ciò che segue: in seguito a una perdita di coscienza di classe, il processo di liberalizzazione si è invertito, aumentando senza sosta il livello di sfruttamento in queste società dopo la fine del XIX sec., particolarmente dopo la prima guerra mondiale. In realtà, per gli austriaci, il marxismo ha una gran parte di responsabilità in questa degradazione, facendo perdere di vista il concetto corretto di sfruttamento, secondo il quale i proprietari iniziali, produttori, liberi contraenti accordi sono vittime di coloro che non hanno prodotto nulla né concluso alcun contratto, e mandando avanti, nella peggior confusione, il falso conflitto del capitalista e del salariato.

L'istituzione di una classe dirigente su una classe sfruttata diverse volte più numerosa tramite la violenza e la manipolazione dell'opinione pubblica, cioè un basso livello di coscienza di classe presso gli sfruttati, trova la sua espressione istituzionale più fondamentale nella creazione di un sistema di “diritto pubblico” sovrapposto al diritto privato. La classe dirigente stessa si defila e protegge la sua situazione dominante adottando una costituzione per il funzionamento interno della sua impresa. In un certo senso, formalizzando il funzionamento interno dello Stato così come i suoi rapporti con la popolazione sfruttata, una costituzione crea un certo grado di stabilità giuridica. Più si incorporano nozioni popolari e familiari del diritto privato nel “diritto” pubblico e costituzionale, più si creeranno le condizioni di un'opinione pubblica favorevole. Per contro, ogni costituzione o “diritto” pubblico formalizzano lo statuto di esenzione della classe dirigente per ciò che concerne il principio dell'appropriazione non aggressiva. Razionalizzano il “diritto” dei rappresentanti dello Stato di dedicarsi ad acquisizioni non contrattuali e non produttive e la subordinazione infine del diritto privato al "diritto" pubblico. Una giustizia di classe, cioè un dualismo che istituisce un insieme di leggi per i dirigenti e un altro per i sottomessi, finisce per accentuare questo dualismo fra “diritto” pubblico e privato, questa dominazione e questa infiltrazione del "diritto" pubblico nel diritto privato. Non è, come credono i marxisti, che ci sia una giustizia di classe perché i diritti di proprietà sono riconosciuti dalla legge. Al contrario, la giustizia di classe compare ogni qual volta c'è una distinzione legale fra una classe di persone che agiscono secondo il "diritto" pubblico protette da questo e un'altra classe che agisce secondo una sorta di diritto privato subordinato che si suppone la protegga. Più particolarmente quindi, la tesi fondamentale della teoria marxista dello Stato (fra le altre), è falsa. Lo Stato non è sfruttatore perché protegge i diritti di proprietà dei capitalisti ma perché esso stesso è esentato dal dover acquisire la sua proprietà attraverso la produzione e la contrattazione.

Nonostante questo equivoco fondamentale, proprio perché il marxismo interpreta a giusto titolo lo Stato come sfruttatore (contrariamente, ad esempio, alla scuola delle scelte pubbliche, che tende a farlo passare da impresa come le altre), ha ben compreso certi principî fondamentali del suo funzionamento. Per cominciare, riconosce la funzione strategica delle politiche redistributive dello Stato. Quale impresa di sfruttamento, lo Stato è sempre interessato a che regni un basso livello di coscienza di classe fra a gente. La redistribuzione della proprietà e del reddito - una politica del "divide et impera" - è il mezzo che lo Stato adotta per gettare pomi di discordia nella società e distruggere la formazione di una coscienza di classe unificatrice presso gli sfruttati. Inoltre, la redistribuzione dei poteri di Stato democratizzando esso stesso la sua struttura, aprendo a tutti le porte per posizioni di potere e dando a tutti il diritto di partecipare alle scelte del personale e della politica dello Stato, è un mezzo per ridurre la resistenza allo sfruttamento. In secondo luogo, lo Stato è puramente e semplicemente, come i marxisti lo concepiscono, il grande centro della propaganda e della mistificazione ideologica: lo sfruttamento è libertà; le imposte sono contribuzioni volontarie; le relazioni non contrattuali sono "idealmente" contrattuali; nessuno comanda nessuno, ci governiamo da soli; senza lo Stato non vi sarebbe né diritto né sicurezza; e i poveri morirebbero di fame ecc. Tutto ciò appartiene a una superstruttura ideologica che mira a legittimare una infrastruttura di sfruttamento economico. E infine i marxisti hanno ragione anche ad identificare una stretta alleanza fra lo Stato e i capitalisti, più in particolare l'alta finanza anche se la spiegazione che ne danno non è difendibile. La ragione non è che l'istituzione borghese considera e sostiene lo Stato come garante dei diritti di proprietà e del contrattualismo. Al contrario, lo considera a giusto titolo come l'antitesi stessa della proprietà privata (ciò che è lampante) ed è proprio per questa ragione che vi si interessa molto da vicino. Più un'impresa riesce e maggiore è il pericolo che venga sfruttata dallo Stato, ma, allo stesso modo, maggiori sono i potenziali guadagni da realizzare se può farsi accordare dallo Stato una protezione particolare che la esenti parzialmente dalle costrizioni della concorrenza capitalista. Perciò l'élite capitalista (alta finanza) si interessa allo Stato e anela ad infiltrarvisi. Da parte sua, la casta dei dirigenti è interessata a una stretta collaborazione con l'élite capitalista per via del potere finanziario di quest'ultima. In particolare l'alta finanza è interessata, perché lo Stato, in quanto impresa di sfruttamento, desidera naturalmente avere una totale autonomia per creare falsa moneta. Offrendo di associare l'élite bancaria ai suoi progetti di banking illegittimo, e permettendo loro di approfittare di questa falsificazione a partire dai suoi biglietti della Santa Farsa nel sistema bancario a copertura parziale, lo Stato può facilmente raggiungere questo obiettivo e istituire un sistema di monopolio di emissione monetaria e un cartello bancario diretto dalla banca centrale. Di modo che, attraverso questa complicità diretta nella produzione di falsa moneta col sistema bancario e, per estensione, con i più grossi clienti di dette banche, la classe dirigente si estende in effetti ben al di là dell'apparato statale, fino ai centri nervosi della società civile, il che non è molto differente, in apparenza, dal quadro che pretendono di fare i marxisti della cooperazione fra banca, élites capitaliste e Stato.

La concorrenza in seno alla classe dirigente e fra diverse classi dirigenti causa una tendenza alla concentrazione crescente. In ciò, il marxismo ha ragione. Ciononostante, la sua falsa teoria dello sfruttamento lo conduce ancora una volta a localizzarne la causa laddove non c'è. Il marxismo crede che questa tendenza sia insita nella concorrenza capitalista. Ora, casomai è finché la gente pratica il capitalismo proprio che la concorrenza non è una forma d'interazione a somma nulla. Il primo utilizzatore, il produttore, il risparmiatore, il contraente accordi, non realizzano mai profitti gli uni a spese degli altri. Ovverosia i loro guadagni lasciano le risorse materiali degli altri completamente intatte, ovverosia (come nel caso di ogni scambio contrattuale) implicano in effetti un profitto per entambe le parti. È così che il capitalismo può giustificare accrescimenti di ricchezze in senso assoluto. Ma nel suo sistema, è impossibile pretendere che vi sia una qualunque tendenza alla concentrazione. Per contro, le interazioni a somma zero, caratterizzano non solo le relazioni fra padroni e servi, ma anche fra gli sfruttatori, essi stessi in concorrenza. Lo sfruttamento, inteso come acquisizioni della proprietà non produttive e non contrattuali, può esistere solo laddove ci sia qualcosa da espropriare. Evidentemente, se la concorrenza fosse libera nel business dello sfruttamento, non vi sarebbe più niente da espropriare. Ciò implica che lo sfruttamento necessita di un monopolio su un dato territorio e una popolazione; e la concorrenza fra gli sfruttatori è per sua stessa natura selezionatrice, e deve portare a una tendenza alla concentrazione delle imprese sfruttatrici così come alla centralizzazione in seno ad ogni impresa. L'evoluzione degli Stati, diversamente a quella delle imprese capitaliste, fornisce l'immagine più evidente di questa tendenza: esiste oggi un ben più piccolo numero di Stati che controllano e sfruttano ben più vasti territori che nel corso dei secoli passati. E all'interno di ogni apparato statale, c'era di fatto una tendenza all'accrescimento dei poteri dello Stato centrale a spese delle realtà regionali e locali. Ciononostante, e per la stessa ragione, abbiamo anche potuto osservare una tendenza alla concentrazione al di fuori dell'apparato dello Stato. E ciò non è avvenuto, come ormai dovremmo intuire facilmente, a causa di una caratteristica del capitalismo, ma perché la classe dirigente (sfruttatrice) ha esteso la sua impresa fino al cuore della società civile attraverso la creazione di un'alleanza fra lo Stato e l'alta finanza, e particolarmente con l'istituzione di un sistema di banca centrale. Se si produce una concentrazione e una centralizzazione del potere dello Stato, è del tutto naturale che queste portino con sè un processo parallelo di concentrazione relativa e di cartellizzazione di banche e industria. Con l'accrescimento dei poteri dello Stato, aumenta anche quello dell'associazione banca-industria di eliminare o danneggiare i loro concorrenti economici per mezzo di espropriazioni non contrattuali e non produttive. La concentrazione delle imprese è un riflesso della statalizzazione della vita economica.

I primi mezzi dell'espansione del potere dello Stato e dell'eliminazione dei centri di potere rivali sono la guerra e la dominazione militare. La concorrenza fra gli Stati implica una tendenza alla guerra e all'imperialismo. In quanto centri di sfruttamento, i loro interessi sono per loro natura antagonisti. Inoltre, siccome ognuno possiede al suo interno il controllo del fisco e della produzione della falsa moneta, è possibile per le classi dirigenti finanziare guerre imperialiste con i soldi degli altri. Naturalmente, se non dobbiamo finanziarci da soli i rischi che ci prendiamo, se possiamo far pagare agli altri i danni, abbiamo la tendenza a prenderci un po' più di rischi e ad appassionarci un po' di più al grilletto. Il marxismo, contrariamente a buona parte della scienza cosiddetta borghese, presenta le cose così come sono: c'è una tendenza bella e buona all'imperialismo nel corso della storia; e le più grandi potenze imperialiste sono chiaramente i paesi capitalisti più avanzati. Però, la spiegazione è una volta di più sbagliata. È lo Stato, in quanto esente da regole capitaliste di acquisizione di proprietà ad essere per natura aggressivo. E l'evidenza storica di una stretta correlazione tra capitalismo e imperialismo contraddice questa affermazione solo apparentemente. È estremamente facile spiegarla ricordando che, per uscire con successo da una guerra tra Stati, un governo deve poter disporre (in termini relativi) di sufficienti risorse. In quanto impresa di sfruttamento, lo Stato è per natura distruttore di ricchezze e di capitale. La ricchezza è prodotta esclusivamente dalla società civile; e più deboli sono i poteri di estorsione dello Stato, più la società accumula ricchezze e capitale produttivo. Così, per quanto possa apparire paradossale a prima vista, più uno stato è debole o liberale e più il capitalismo vi si sviluppa; un'economia capitalista da rapinare rende lo Stato più ricco; e uno Stato più ricco ha sempre più possibilità di successo in guerre espansioniste. È questa relazione che spiega perché in primis gli Stati dell'Europa occidentale, e in particolare la Gran Bretagna, furono i paesi imperialisti dominanti, e perché nel XX sec. questo ruolo è stato preso dagli Stati Uniti.

C'è anche una spiegazione semplice e diretta e una volta di più non marxista a questa osservazione sulla quale i marxisti insistono sempre, che l'istituzione industriale e bancaria figura generalmente fra i difensori più strenui della potenza militare e dell'espansionismo imperiale. Non è perché l'espansione dei mercati capitalisti avrebbe bisogno dello sfruttamento, ma perché lo sviluppo degli affari privilegiati e protetti dagli uomini di stato ha bisogno che questa protezione si estenda anche ai paesi stranieri e che ostacolino allo stesso modo i concorrenti non residenti, se non più di quanto facciano con i residenti, attraverso acquisizioni non produttive e non contrattuali di proprietà. Nello specifico, si sostiene l'imperialismo se promette di portare alla dominazione militare di un paese ad opera di un altro. Di modo che, da una posizione di forza militare, diviene possibile stabilire ciò che possiamo chiamare un sistema di imperialismo monetario. Lo stato dominante utilizzerà il suo potere per imporre una politica di inflazione internazionale coordinata. La sua banca centrale conduce il gioco attraverso la contraffazione, e le banche centrali dei paesi subordinati ricevono l'ordine di impiegare la loro divisa come riserva e produrre inflazione su questa base. In questo modo, così come lo stato dominante in quanto primo favoreggiatore della falsa moneta di riserva, il suo sistema bancario e industriale possono dedicarsi ad una espropriazione quasi gratuita dei proprietari e dei produttori stranieri. Un sistema a doppio strato di sfruttatori si impone ormai alle classi sfruttate dei territori dominati: oltre al loro stato nazionale e alla sua elite, uno stato e una classe di un paese straniero, il che è causa di una dipendenza economica prolungata e una stagnazione relativa dell'economia nei confronti della nazione dominante. È quasta situazione, del tutto non capitalista, che caratterizza Stati Uniti e del US dollar e che dà origine all'accusa, del tutto giustificata, di sfruttamento e di imperialismo della moneta americana ad opera degli USA.

Infine, la crescente concentrazione e la centralizzazione dei poteri di sfruttamento portano alla stagnazione economica e creano perciò le condizioni oggettive per la loro caduta, così come l'instaurazione di una società senza classi capace di produrre una prosperità inaudita.

Contrariamente alle affermazioni marxiste, tuttavia, ciò non è il risultato naturale del decorso storico. In effetti, non esiste nulla che assomigli a queste pretese leggi inesorabili della storia così come i marxisti le immaginano. Allo stesso modo non c'è, come credeva Marx, una "tendenza all'abbassamento del tasso di profitto" a causa di un "accrescimento nella composizione organica del capitale" (e cioè, un accrescimento della quantità del capitale fisso in rapporto al capitale variabile). Così come la teoria del valore - lavoro è irreparabilmente falsa, lo è anche l'abbassamento tendenziale del tasso di profitto che ne è dedotto. La fonte del valore, dell'interesse e del profitto non coincide solo con la cessione di lavoro materiale ma molto più in generale con l'azione umana, cioè l'impiego di risorse rare al servizio di progetti di persone che sono costrette dalla preferenza temporale e dall'incertezza (la conoscenza imperfetta). Non c'è quindi alcuna ragione di supporre che i cambiamenti nella "composizione organica" del capitale debbano avere qualche relazione sistematica con cambiamenti nell'interesse e nel profitto.

Ciò che succede, è che l'eventualità di crisi che stimolino lo sviluppo di un più alto grado di coscienza di classe (cioè le condizioni soggettive per un rovesciamento della classe dirigente) aumenta a causa - per usare un termine caro a Marx - della “dialettica” dello sfruttamento che ho già descritto più sopra: lo sfruttamento distrugge la formazione di capitale. Di modo che, nel corso della concorrenza tra aziende sfruttatrici, cioè fra gli stati, i meno sfruttatori o più liberali tendono a prevalere perché dispongono di più ampie risorse. Il processo imperialista comincia dunque ad avere un effetto relativamente liberatorio sulle società che capitano sotto la sua scure. Un modello di società relativamente più capitalista è esportato verso società relativamente meno capitaliste (cioè più sfruttatrici). Ciò stimola lo sviluppo di forze produttive, favorisce l'integrazione economica, stabilisce un vero mercato mondiale. La popolazione di conseguenza cresce, e le aspettative economiche per l'avvenire raggiungono livelli inauditi. Ciononostante, via via che la dominazione sfruttatrice rafforza la sua influenza, spariscono progressivamente le limitazioni esterne al potere di sfruttamento e di espropriazione interna dello stato dominante. Lo sfruttamento interno, l'imposizione e la regolamentazione cominciano ad aumentare man mano che la classe dirigente si avvicina al suo obiettivo finale di dominazione mondiale. Si afferma la stagnazione economica e le speranze - mondiali - di miglioramento sono frustrate. E questa situazione, di aspettative elevate e di una realtà economica che smentisce sempre più queste attese, è la situazione classica perché si sviluppi un potenziale rivoluzionario. Compare allora un bisogno disperato di soluzioni ideologiche alla crisi che si annuncia, così come un riconoscimento più consapevole del fatto che la dominazione statale, l'imposizione e la regolamentazione - lungi dall'offrire una soluzione - costituisce in vero il problema stesso cui bisogna far fronte. Se, in questa situazione di stagnazione economica, di crisi e disillusione ideologica, una soluzione positiva è offerta da una filosofia liberale sistematica affiancata dal suo omologo economico (la teoria economica austriaca); se questa ideologia viene diffusa da un movimento attivista, allora le prospettive di un effettivo infiammarsi di questo potenziale rivoluzionario divengono oltremodo promettenti e favorevoli. Le pressioni antistatali prenderanno vigore e indurranno una tendenza irresistibile allo smantellamento del potere della classe dirigente e dello stato quale strumento del suo sfruttamento.

Se ciò avrà luogo, e nella misura in cui si farà, non significherà - contrariamente al modello marxista - la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Infatti, la proprietà “sociale” non è solo inefficace, come abbiamo visto; è anche incompatibile con l'idea che lo stato possa mai “deperire”. Poiché, se i mezzi di produzione sono posseduti collettivamente, e se supponiamo, il che è realista, che le idee di tutti in quanto all'impiego di questi mezzi non coincideranno sempre (il contrario sarebbe un miracolo), allora saranno proprio i fattori di produzione socialmente posseduti ad avere bisogno di un intervento perpetuo dello stato, cioè di un'istituzione che possa imporre con la forza la volontà di qualcuno su qualcun'altro. Al contrario, il deperimento dello stato, e con lui la fine dello sfruttamento e l'inizio della libertà, così come una prosperità economica senza precedenti, implica l'avvento di una società di pura proprietà privata senz'altra regola che non sia quella del diritto privato.

(trad. Fabio Lazzarin)