Thursday, April 16, 2009

Il commercio durante l'inflazione tedesca

Questa è la traduzione di un articolo (purtroppo incompleto, non sono riuscito a trovarne la versione integrale) di Ludwig Von Mises pubblicato su Commercial and Financial Chronicle del 7 marzo 1946.

Si tratta di un utile e veloce resoconto degli effetti nefasti dell'inflazione sull'economia tedesca e dell'apparente prosperità di quegli anni non fu affatto un “miracolo” ma solo una pericolosa illusione: suona tutto molto familiare, non è vero?
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Di Ludwig Von Mises


L'inflazione della moneta cartacea e l'espansione del credito non piombano mai su un popolo come un atto divino. Sono sempre il risultato di una politica intenzionale. I governi e i partiti al potere ricorrono all'inflazione perché la considerano come una benedizione o almeno un male minore rispetto agli effetti della riduzione della spesa pubblica o della scelta di diversi metodi di finanziamento. Ciò si applica sia alla pace che alla guerra. L'inflazione come tale non è di alcun aiuto nel vincere battaglie. Non produce armi ed altre attrezzature. È soltanto uno dei metodi disponibili per finanziare le spese enormi causate dalla guerra. Gli altri metodi sono tassare e prendere prestiti dal pubblico (e non dalle banche commerciali). Se un governo sceglie l'inflazione, non deve giustificarsi dicendo che era l'unico sistema rimasto.

Naturalmente, il termine inflazione è caduto in disgrazia. Tutti i governi e tutti i partiti politici annunciano enfaticamente che la loro principale preoccupazione è di combattere questa cosa terribile chiamata inflazione. In realtà non combattono l'inflazione, ma soltanto i suoi sintomi e le sue inevitabili conseguenze, vale a dire il rialzo dei prezzi. E questa lotta è condannata a fallire precisamente perché è soltanto un occuparsi dei sintomi. Niente è fatto per eliminare la causa originaria, ovvero l'aumento nella quantità di moneta e l'espansione del credito.

La verità è che la tendenza a inflazionare non è mai stata tanto forte come lo è oggi. È soltanto che i fautori dell'espansione del credito e dell'inflazione hanno fatto ricorso ad una nuova terminologia. Chiamano questa cosa espansionismo, politica dei soldi facili, squilibrio di bilancio, o finanza funzionale. La carta britannica che inaugurò nel 1943 l'azione che risultò poi nel 1944 nell'accordo di Bretton Woods dichiara esplicitamente che lo scopo della nuova istituzione internazionale è di determinare “una pressione espansionista sul commercio mondiale.” Prevede che questa politica espansionista compia “il miracolo ... di trasformare una pietra in pane.”

L'idea che l'espansione monetaria e del credito faccia bene al commercio, crei “la piena occupazione” e porti una generale prosperità era l'essenza delle idee del mercantilismo. Gli errori impliciti sono stati esposti completamente da economisti che la scuola storica prussiana ed i loro moderni seguaci, i keynesiani ed i fautori americani dello squilibrio di bilancio, denigrano come ortodossi. Una nuova analisi sistematica e una confutazione completa dei difetti della dottrina espansionista non sono di certo necessarie. Chi fosse interessato in un tale esame critico faccia riferimento agli scritti del professor B.M. Anderson, dell'ultimo professor Edwin Kemmerer [1] e di molti altri brillanti economisti americani. L'obiettivo di questo articolo è soltanto di indagare un aspetto spesso trascurato dei problemi in questione. Appare conveniente esemplificare la questione con il caso dell'inflazione tedesca del periodo tra il 1914 e il 1923, la classica esperienza espansionista del nostro secolo.

Un marco è sempre un marco

Fra i becchini della prosperità e della valuta del popolo tedesco, Friedrich Bendixen occupa un posto eminente. Fu un direttore di banca e l'autore di molti libri ed articoli che si occupavano di questioni monetarie. Il suo prestigio e la sua influenza sul corso della politica finanziaria del Reich erano enormi.

Quando nella Prima Guerra Mondiale il potere d'acquisto del marco diminuì e simultaneamente i tassi del cambio estero salirono, Bendixen strombazzò che questo era un evento piuttosto fortunato. Perché, egli disse, permetteva ai tedeschi di ottenere profitto dalla vendita dei loro titoli esteri.

Consideriamo un esempio. Un tedesco possedeva alla vigilia della guerra un titolo olandese trattato sulla Borsa di Amsterdam a 100 fiorini olandesi, a quel tempo generalmente l'equivalente di 240 marchi. Il prezzo dell'azione cadeva ed il tedesco la vendeva a 90 fiorini olandesi. In oro ciò significava una perdita del 10 per cento. Ma nel frattempo il prezzo del fiorino olandese a Berlino era aumentato da 2,40 a 3 marchi; 90 fiorini olandesi ora rappresentavano 270 marchi. Il capitalista tedesco aveva ottenuto un guadagno apparente di 30 marchi o del 12,5 per cento. Tuttavia, il tedesco medio ed il suo portavoce Bendixen non erano abbastanza sagaci da vedere le cose nella giusta luce. Per loro un marco era ancora un marco. Sorridendo intascavano un presunto guadagno.

Lo stesso fenomeno si presentò in ogni ramo dei rapporti economici internazionali. I campioni dell'espansionismo assegnano ai tassi del cambio estero in rialzo il potere di stimolare le esportazioni. Fu questa idea a spingere molti paesi europei nel periodo fra le due guerre a svalutare le proprie valute nazionali.

Una tale svalutazione istantanea fa aumentare i tassi del cambio estero. Ma i prezzi dei beni e i salari interni rimangono per qualche tempo alle spalle dell'aumento nei tassi di cambio. Nell'intervallo, prima che la struttura dei prezzi sul mercato interno si sia adeguata alle nuove condizioni monetarie, alcuni progetti di esportazione, che non erano redditizi prima, sembrano apparentemente vantaggiosi. L'esportatore ottiene un apparente profitto – in valuta nazionale – anche se può vendere ad un prezzo più basso in valuta estera. Ma ciò che succede realmente è che dà via i prodotti interni ad un prezzo che gli permette di comprare soltanto una minore quantità di prodotti esteri. È vero, la nazione la cui valuta è stata svalutata esporta di più durante questo intervallo, ma ottiene nello scambio soltanto di meno o, come minimo, non più di quanto otteneva in precedenza per una minore quantità di beni esportati.

Questo è ciò che gli economisti hanno in mente quando parlano di guadagni “apparenti.” Questi guadagni sono il risultato di un falso calcolo e di un auto-inganno.

Gli enormi profitti inflazionistici del commercio

È stato asserito ripetutamente che il commercio tedesco fiorì durante gli anni della grande inflazione. Infatti, i rapporti annuali delle grandi società e delle grandi banche tedesche mostravano grassi profitti, e gli azionisti ricevevano alti dividendi (le banche tedesche non erano soltanto banche, ma allo stesso tempo società finanziarie che possedevano una parte controllante dei titoli ordinari di molte società industriali).

Tuttavia, questi guadagni erano spesso soltanto apparenti, un mero prodotto del fatto che gli imprenditori facevano il calcolo economico impiegando il marco come comune denominatore. Una volta tradotti in una più stabile valuta estera, per esempio in dollari, si rivelavano frequentemente come perdite.

Non aveva importanza per il commercio tedesco se i prezzi in oro ed in dollari stessero aumentando o scendendo. I prezzi in marchi aumentavano qualunque fosse il movimento dei prezzi sul mercato mondiale. La vendita di prodotti e inventari catturava grandi profitti cartacei perché i prezzi in marchi salivano senza sosta.

Una seconda fonte di profitti cartacei era fornita da un'insufficiente cancellazione del deprezzamento. L'obiettivo di mettere una parte dei guadagni annuali in un fondo di deprezzamento è di fornire i mezzi per la sostituzione delle attrezzature industriali consumate nel corso della produzione. L'omissione di mantenere tali fondi fa sembrare i profitti più grandi di quanto realmente sono. Se tali profitti in eccedenza apparenti si trattano come se fossero profitti reali, il risultato è il consumo del capitale. Poiché le aziende tedesche furono lente nello scartare la vecchia abitudine di ammortizzare annualmente una percentuale fissa dei costi originali dei macchinari, questo ridusse virtualmente la quantità di capitale investita.

Con il procedere veloce dell'inflazione sempre più gli imprenditori cominciarono a comprendere che i loro metodi erano suicidi. Diedero inizio a ciò che è stato chiamato “il volo nei valori reali” (Flucht in die Sachwerte). Cominciarono a reinvestire i profitti apparenti nei loro impianti. Non aveva importanza per loro che questi investimenti fossero ragionevoli oppure no. La loro unica preoccupazione era di allontanarsi dal marco a qualsiasi costo. Gli eventi successivi provarono che una grande parte degli investimenti fatti durante gli anni dell'inflazione dalle banche tedesche e dalle aziende commerciali indipendenti erano cattivi investimenti. Il commercio tedesco emerse dalla prova del periodo dell'inflazione indebolito finanziariamente. Le grandi banche tedesche erano già nel 1924 sull'orlo dell'insolvibilità.

Naturalmente, i tedeschi, immersi nelle fallacie monetarie di Bendixen e Knapp, [2] non erano informati di questo fatto. Tantomeno furono i banchieri e gli investitori stranieri abbastanza accorti da giudicare correttamente la difficile situazione delle grandi banche e di molte grandi aziende tedesche. Negli anni 20 i prestiti esteri al Reich, agli stati membri, ai comuni, alle banche ed alle grandi aziende ammontavano a circa 20 miliardi di marchi. Inoltre, gli stranieri investirono 5 miliardi di dollari direttamente nel commercio tedesco. Questa enorme affluenza – contro la quale dovevano essere considerati i pagamenti di riparazione di circa 10,8 miliardi di dollari – nascose per alcuni anni la debolezza delle grandi banche. Quando la depressione mise fine al prestito estero in Germania, il crollo delle banche non poté più essere ritardato. Arrivò nel 1931 come il risultato sia dell'inflazione che dell'ignoranza delle questioni economiche fondamentali.

Una delle ragioni per le quali l'opinione pubblica ha frainteso le conseguenze economiche dell'inflazione tedesca è stata l'emersione di una classe di profittatori dall'inflazione.

I profittatori furono quegli speculatori che capirono più rapidamente dei dirigenti di banca il vero significato del boom inflazionistico. I tassi di interesse caricati dalle banche, anche se alti in confronto alle circostanze normali, erano ridicolmente bassi rispetto ai profitti di borsa che uno speculatore poteva guadagnare in un mercato i cui i prezzi salivano alle stelle a causa dell'inflazione. Qualunque azione avesse comprato, lo speculatore catturava un profitto lordo che superava di gran lunga l'interesse sul prestito che doveva pagare alla banca. Finché l'inflazione continuava non c'era rischio per lui nell'imbarcarsi in transazioni al rialzo con soldi presi in prestito.

La Germania rovinata finanziariamente dall'inflazione

L'inflazione favorì i debitori a spese dei creditori. Arricchì un gruppo molto ristretto di astuti speculatori. Impoverì l'immensa maggioranza della nazione.

Le perdite dei perdenti sorpassavano di gran lunga la somma totale dei guadagni dei profittatori. La ricchezza pro capite dei tedeschi si ridusse, a dispetto del fatto che fossero riuscito a scaricare una parte delle loro perdite sulle spalle dei capitalisti stranieri, particolarmente degli americani e degli svizzeri.

L'eccesso delle perdite da inflazione rispetto ai guadagni da inflazione proveniva da tre fonti differenti:

La nazione aveva consumato più di quanto aveva prodotto: aveva vissuto sul proprio capitale. La maggioranza dei profitti apparenti venne mangiata dagli speculatori e dagli imprenditori stessi o dal governo che li raccolse sotto l'ingannevole etichetta dei fondi di imposta sulle imprese e sul reddito che erano in effetti sottratti dal capitale investito. Lo spreco dell'amministrazione comunale fu così scellerato che neppure Schacht [3] non poté evitare di criticarlo. Molti sindacati riuscirono ad aumentare i salari nominali oltre l'aumento dei prezzi dei beni. Incassarono il risultante aumento nei tassi salariali effettivi come “guadagno sociale.” In effetti, questi operai comparteciparono nel consumo del capitale. Contribuirono così al successivo crollo della produttività del lavoro e quindi dei tassi salariali del mercato.

La Germania scaricò esportazioni a poco prezzo sul mercato mondiale. Accadde più volte che i manufatti tedeschi, prodotti con materie prime importate, vennero esportati a prezzi che – calcolati in dollari – non coprivano neppure il prezzo delle materie prime contenute. Tuttavia, gli esportatori tedeschi erano convinti di aver fatto un buon affare.
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Note

1. Vedi Benjamin M. Anderson, Economics and the Public Welfare: A Financial and Economic History of the United States, 1914–1946 (Princeton: D. Van Nostrand Company, Inc., 1949) e Edwin W. Kemmerer, The ABC of Inflation (New York: McGraw-Hill, 1942).
2 Georg Friedrich Knapp, autore di The State Theory of Money (1924 [1905]).
3. Hjalmar Orazio Greeley Schacht, finanziere tedesco che tenne un certo numero di posizioni nel governo tedesco, tra il 1923 e il 1943, compresa la presidenza della Reichsbank ed il ministero dell'economia.

3 comments:

Anonymous said...

credo che il testo completo sia quì:
http://www.fee.org/pdf/the-freeman/mises1103.pdf

Lorenzo

Paxtibi said...

No, quello è il pdf dell'articolo che ho tradotto, manca l'ultima parte. In realtà l'articolo completo su un altro sito l'ho trovato, ma solo a pagamento. Quindi, nisba.

Spaziamente said...

Non posso che ringraziarti per la chicca.
Potrai estrarlo quando ci accorgeremo che la massa di denaro in circolazione ci avrà massacrato, (per usare una velata allusione)