Monday, September 22, 2008

Hazlitt e la Grande Depressione

Questo articolo di Jeffrey Tucker in ricordo di Henry Hazlitt fu pubblicato da Free Market nel settembre 1993, poco dopo la sua morte. È interessante rileggerlo oggi, a 15 anni di distanza, non solo per ricordare la figura integerrima di questo giornalista, ma anche per evidenziare i paralleli tra la situazione attuale e quella della Grande Depressione in cui Hazlitt visse, opponendosi a costo della perdita del suo lavoro alle letali ricette iperstataliste di Roosevelt.

Anche se il suo nome è stato dimenticato, possiamo dire che la sua esperienza a qualcuno è servita: oggi non c'è traccia, infatti, di giornalisti che dimostrino anche solo una frazione del suo coraggio e della sua onestà intellettuale.
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Di Jeffrey Tucker


Il giornalista della vecchia destra Garet Garrett descrisse il New Deal come una rivoluzione contro la tradizione americana della proprietà privata, del governo limitato e della norma di legge. Effettivamente ne aveva tutte le caratteristiche. Il presidente Roosevelt basò la sua campagna sulla lotta contro la spesa pubblica ed i deficit, ma una volta eletto si comportò come un dittatore.

Roosevelt distrusse i limiti tradizionali del ruolo del governo ed istituì la pianificazione centrale e il welfarismo in ogni settore dell'economia.

Dopo, la forza inesorabile dello stato non potè più essere fermata: arrivarono il socialismo di guerra di FDR, il sindacalismo di Truman, la Great Society di Johnson, il controllo dei prezzi di Nixon, l'inflazione di Carter, la spesa di deficit di Reagan, la regolamentazione di Bush e il fabianismo di Clinton.

Poiché le idee sono tanto importanti quanto il desiderio per il potere, il New Deal non avrebbe potuto accadere senza una giustificazione intellettuale pubblica. Questo richiedeva delle teorie sulle cause del crollo del mercato azionario e della depressione economica che ne seguì. Per far sì che il socialismo potesse prevalere negli Stati Uniti, le accademie e il pubblico dovevano essere convinti che il capitalismo avesse fallito.

Henry Hazlitt era al centro di quel dibattito, tenendo duro nelle pagine The Nation, un quindicinale specializzato e di tendenza. Era stato assunto come redattore letterario, una posizione relativamente apolitica. Ma poiché la politica quotidiana era diventata più polemica, gli fu concessa un profilo più editoriale. Cominciò a scrivere contro l'invasione federale nell'impresa privata.

Una volta che Roosevelt ebbe invertito la retorica della sua campagna ed abbracciato lo stato totale, i redattori di The Nation seppero che dovevano prendere posizione. Mentre le critiche di Hazlitt a FDR aumentavano, lo stesso accadeva con i reclami interni per la filosofia di Hazlitt. Piuttosto che licenziare semplicemente il loro redattore da due anni, organizzarono una lotta senza quartiere fra coloro che dicevano che il capitalismo aveva fallito (quindi rendendo il socialismo la risposta) e coloro che dicevano invece che a fallire era stato l'interventismo e la risposta era il capitalismo.

In un angolo c'era Hazlitt, il critico letterario e giornalista finanziario. Nell'altro Louis Fischer, rifugiato politico russo, giornalista e socialista. Lo scambio, “La depressione ed il sistema di profitto,” fu pubblicato nell'edizione del 24 maggio 1933, in mezzo alla rivoluzione monetaria e fiscale di FDR.

Fischer aveva adottato una spiegazione marxista della depressione. Citando dati dall'Ufficio delle Statistiche del Lavoro, sostenne che mentre la produttività era aumentato dall'inizio del secolo, gli stipendi erano diminuiti rispetto alla produzione. I lavoratori quindi potevano comprare sempre meno del loro prodotto perché i capitalisti scremavano il loro surplus di valore. “La concentrazione della ricchezza e del reddito nazionale dell'America in sempre meno mani ha accelerato rapidamente per molti anni.”

Cosa innescò la crisi?

Fischer spiegava che si trattava di una combinazione di teoria marxista della crisi e di teoria keynesiana del sottoconsumo: “La gente che voleva consumare tutto non aveva i mezzi e la gente che aveva i mezzi non poteva consumare tutto. Da qui il nostro potere di acquisto ridotto.”

Che cosa bisognava fare? “Dividere e ridividere i profitti,” disse. “Questa è l'uscita.” Avrebbe dovuto esserci una “misura per una divisione perfettamente uguale del surplus di valore durante gli anni a venire;” avremmo dovuto eliminare “il profitto del proprietario del capitale” e creare “il socialismo.”

Hazlitt rispose mostrando che i grafici di Fischer sul surplus di valore erano basati “su un errore di selezione.” Fischer aveva selezionato anni di base (1899 e 1929) con uno scopo in mente e quindi confuso le anomalie con una tendenza generale. In due possono giocare questo gioco e Hazlitt mostrò che il prodotto del lavoro si poteva dire che fosse aumentato rispetto alla produzione selezionando anni diversi (1869 e 1921).

Inoltre, Hazlitt domandò, se il calo della parte di profitti dei lavoratori è la causa, come spieghiamo i miglioramenti economici durante lo stesso periodo in questione? Come possiamo spiegare, usando questo ragionamento, perché la crisi non è arrivata prima?

Come Hazlitt disse, la teoria di Marx “rende difficile spiegare perché non siamo sempre in una crisi ed impossible spiegare come mai ne superiamo una.” Su quella base, rifiutò la più generale implicazione che il crollo del 1929 avesse rappresentato qualcosa come una tendenza di fondo nella base strutturale dell'economia.

Ma se Fischer avesse avuto ragione, e i lavoratori stavano realmente guadagnando un minore ritorno rispetto al capitale? Hazlitt notò che questo non avrebbe significato necessariamente che la gente fosse sfruttata. Avrebbe potuto significare semplicemente che il volume di capitale nell'industria stava aumentando ad un maggior tasso di quello dei lavoratori, ad indicare una tecnologia sempre più efficiente. In caso affermativo, questo poteva dar peso alle aspettative degli economisti classici che i lavoratori avrebbero posseduto più capitale con l'aumento della produttività. Per esempio, il numero degli azionisti è aumentato drammaticamente durante gli anni 20.

Messa da parte la teoria marxista radicale di Fischer, egli sostenne che il migliore periodo da esaminare da un punto di vista economico era quello “fra l'ultima crisi e quella attuale, diciamo fra il 1922 ed il 1929.” In questo periodo si nota che i prezzi e la produzione del capitale e del lavoro nel settore industriale stavano crescendo sproporzionatamente rispetto al settore agricolo. Questo può non avere alcuna importanza nella causa della crisi, ma introduce dei dubbi nell'idea dello sfruttamento dei lavoratori nell'intera economia.

Dopo aver smontato i dati e la teoria economica di Fischer, continuò a speculare su un'alternativa. Non c'era una visibile teoria del libero mercato che spiegasse perché gli Stati Uniti erano in crisi. Ma Hazlitt sapeva dalla sua lettura della storia dei problemi che un governo iperattivo e indebitato porta con sé. Sapeva che il segreto del crollo si trovava in questi problemi.

Un ordine stabile di mercato, egli disse, richiede un'atmosfera esente da scosse, o almeno un governo che permetta all'economia di correggersi una volta che queste scosse si fossero verificate. La guerra aveva inflazionato artificialmente i prezzi dei prodotti ed essi dovevano essere corretti verso il basso ad un livello più realistico. Affermò che la crisi del 1929 era quella correzione in discesa.

“Ma il centro di questo crollo,” scrisse, “è stato aggravato enormemente dall'intera serie di politiche del dopoguerra.” Fra queste elencò il “ vizioso Trattato di Versailles,” la “disorganizzazione causata dalle riparazioni e dai debiti di guerra,” gli “assurdi dazi messi in atto dovunque,” l'abbandono della parità aurea e l'adozione della “parità del cambio dell'oro,” e gli “avventati prestiti ai paesi stranieri.”

Soprattutto, accusò “la politica dei costo artificialmente basso del denaro perseguita sia in Inghilterra che in America, che ha condotto qui ad una colossale speculazione nei mercati azionario e immobiliare e sotto il benigno incoraggiamento dei signori Coolidge e Mellon.” Questo cattivo investimento, causato dalle politiche inflazionistiche, aveva generato distorsioni nella massa del capitale che richiedevano una correzione.

Successivamente Hazlitt avrebbe concluso che il cattivo investimento era il problema centrale, non solo nella Grande Depressione, ma in tutti i cicli economici. Questo sotto l'influenza di Ludwig von Mises, con il quale si incontrò circa una decennio più tardi. Sostennero insieme la parità aurea come politica, e la teoria “austriaca” del ciclo economico. La teoria, sviluppata da Mises, mostra come i mercati coordinino dei piani nel tempo e come la moneta della banca centrale e l'espansione del credito scombussolino quei piani.

Hazlitt era inclinato alla teoria austriaca persino prima di conoscerla formalmente. Era estremamente consistente con il suo modo di pensare. Come critico letterario, la sua specialità stava nello smontare le pretese degli ideologhi. Amava prendere un testo accademico alla moda, separarne gli assunti essenziali dalla prosa esagerata e mostrare quanto chiaramente irragionevole fosse. Aveva in breve un talento per l'individuazione dell'essenza di una discussione e verificarla implacabilmente con i criteri della ragione. Queste sono tutte caratteristiche che la scuola austriaca porta con sé dalla sua nascita nel la Vienna del diciannovesimo secolo e, prima, nell'ultima tradizione scolastica della Spagna del XVI secolo, che era in debito con il ragionamento tomista e quindi aristotelico.

Una raccomandazione chiaramente irragionevole nel saggio di Fischer, secondo Hazlitt, era la sua richiesta per nuove alte tasse sul capitale. Questa misura “aggraverebbe violentemente la catastrofe,” disse Hazlitt, inducendo il commercio a scendere nuovamente facendo sembrare insignificante il crollo del 1929. Anche un aumento degli stipendi sarebbe stato indesiderabile, Hazlitt diceva, perché avrebbe causato un aumento del loro costo al commercio conducendo ad ulteriore disoccupazione. Per far recuperare l'economia, egli disse, abbiamo bisogno di più capitale privato, non meno, e questo significa lasciare che i mercati facciano il loro lavoro.

Più di ogni cosa, disse Hazlitt, noi non abbiamo bisogno del socialismo, del comunismo, o di “quella cosa ambigua chiamata Pianificazione.” Sulla base del tipo di gente che sarebbe stata in carica, e della natura della politica, era sicuro che l'economia sarebbe stata gestita da “analfabeti economici,” gente, senza dubbio intendeva, come Louis Fischer.

Virtualmente tutto ciò che Hazlitt ha scritto in questo potente saggio – la sua analisi di causa, effetto e soluzione – più tardi ha trovato giustizia nel lavoro di studiosi come Murray Rothbard e Robert Higgs. Nei suo libro Modern Times, Paul Johnson abbozza lo stesso scenario che Hazlitt aveva presentato nel pieno del massacro del New Deal stesso. Più recentemente, Richard Vedder e Lowell Gallaway hanno presentato essenzialmente la stessa posizione nel loro Out of Work.

Hazlitt avrebbe potuto salvare il suo lavoro se il suo attacco al consenso emergente non fosse stato così completo e così devastante. Se avesse fatto qualche concessione, o magari non avesse completamente distrutto Fischer, avrebbe potuto durare. Ma non era nella natura di Hazlitt nascondere la verità per convenienza. Dovette percepire che per il suo prestigioso lavoro a The Nation la fine era vicina e decise di uscire con il botto.

Il drammatico dibattito fra Fischer e Hazlitt si concluse con una nota minacciosa dall'editore: “La discussione… sarà commentata con un editoriale in una prossima edizione.” Effettivamente, nell'edizione seguente The Nation annunciò la sua devozione alla causa socialista. “Il sig. Roosevelt sta tentando di salvare il capitalismo,” diceva l'editoriale echeggiando la saggezza popolare del momento, “per salvarlo da sé stesso sottraendogli temporaneamente alcune delle sue prerogative più fondamentalmente capitalistiche.”

Se il New Deal passa, dissero i redattori con rara comprensione, “avrà il potere di dire all'industria cosa e quanto può produrre, quanto può chiedere per i suoi prodotti, quanto pagherà i lavoratori, quante ore questi lavoreranno.”

Ma questo non era abbastanza per The Nation. “Tendiamo ad essere d'accordo” con Fischer, dissero i redattori, “che una società collettiva offre la migliore speranza a questo fine desiderabile.” Favorivano “un movimento verso il collettivismo” il prima possibile. Criticando la presunta timidezza di Roosevelt, dissero che “i passi del paese verso una società industriale integrata e socializzata dovrebbero essere intenzionali e con uno scopo.”

Le pagine di una rivista votata in gran parte a spingere la riforma culturale progressista si erano votate completamente al collettivismo. La dottrina interna era stata resa esplicita per la prima volta e Hazlitt venne eliminato e forzato a trovare altre pubblicazioni per il suo lavoro.

Dopo la sua morte, il propagandista socialista Irving Howe, editore di Dissent, fu elogiato continuamente nei media popolari, anche se (o possibilmente perché) le sue idee anti-proprietà e anti-borghesia erano assolutamente estranee all'esperienza americana pre-New Deal. E così è anche dopo il fallimento del socialismo in tutto il mondo.

Hazlitt ebbe più volte ragione, sul socialismo, sul welfarismo, sull'inflazione e la parità aurea, sulla cultura popolare e molto altro. E diversamente da Howe, Hazlitt scriveva chiaro come pensava. Non usò mai la sua posizione per spargere disinformazione al servizio dell'ideologia, come ha fatto Howe; Hazlitt aveva una fede profonda nella verità ed ha lasciato parlare la logica ed i fatti. È una misura della corruzione della cultura ufficiale che la morte di Henry Hazlitt sia stata appena notata.

Alla sua morte, sono certo, la sua più grande speranza era che questo paese avrebbe compreso gli errori della sua storia e li avrebbe rettificati. Quando la nostra storia sarà riscritta, e gli Irving Howe saranno visti come le minacce sociali che erano, Hazlitt sarà ricordato come un profeta che disse la verità di fronte al potere. The Nation, con una sbalorditiva inversione delle politiche editoriali socialiste, riconoscerà che Hazlitt aveva sempre avuto ragione.

1 comment:

Anonymous said...

Grande personaggio!Fossero cosi' tutti i giornalisti!