Sunday, June 22, 2008

La presunzione della conoscenza

Questo discorso di Hayek alla memoria di Alfred Nobel dell'11 dicembre 1974 è coperto dal copyright della Nobel Foundation, ma veramente non ho potuto fare a meno di tradurla (copiatevela quindi al più presto, non si sa mai) perché oltre ad essere una elegante e attualissima trattazione su inflazione e disoccupazione, i principali mali economici che ancor oggi ci affliggono, è una potente lezione sui limiti della conoscenza umana, sulla presunzione di chi, in nome della scienza e del progresso, pretende di superarli, e sui pericoli che questo atteggiamento comporta.

Una grande lezione di umanità e umiltà, da parte di una delle menti più luminose del nostro secolo e non solo. (Scarica il pdf.)
___________________________

Di Friedrich A. Hayek


L'occasione particolare di questa conferenza, insieme al principale problema pratico che gli economisti devono affrontare oggi, ha reso la scelta del suo soggetto quasi inevitabile. Da una parte l'ancora recente istituzione del premio Nobel per la Scienza Economica segna un punto significativo nel processo tramite cui, nell'opinione del grande pubblico, all'economia è stata concessa parte della dignità e del prestigio delle scienze fisiche. D'altra parte, gli economisti sono in questo momento chiamati a dire come districare il mondo libero dalla grave minaccia dell'inflazione sempre più veloce determinata, bisogna ammetterlo, dalle politiche che la maggior parte degli economisti hanno suggerito e perfino invitato i governi a perseguire. Abbiamo effettivamente al momento pochi motivi per essere orgogliosi: come professione noi abbiamo fatto un gran pasticcio.

Pare a me che questo fallimento degli economisti nel guidare positivamente la politica sia strettamente collegata con la loro tendenza ad imitare quanto più rigorosamente possibile le procedure delle scienze fisiche così di successo – un tentativo che nel nostro campo può condurre all'errore fatale. È un approccio che è stato descritto come attitudine “ scientistica” – un'attitudine che, come la definii circa trent'anni fa, “è decisamente non scientifico nel senso vero della parola, poiché prevede un'applicazione meccanica e non critica delle abitudini di pensiero a campi differenti da quelli in cui sono stati formati.” [1] Voglio oggi cominciare spiegando come alcuni degli errori più gravi della recente politica economica sono una conseguenza diretta di questo errore scientistico.

La teoria che sta guidando la politica monetaria e finanziaria negli ultimi trent'anni, e che io contesto, è in gran parte il prodotto di tale concezione erronea dell'adeguata procedura scientifica, consiste nell'asserzione che esista una semplice correlazione positiva fra la piena occupazione e la dimensione della domanda aggregata di beni e servizi; conduce alla convinzione che possiamo permanentemente assicurare la piena occupazione mantenendo la spesa totale di moneta ad un livello appropriato. Fra le varie teorie avanzate per spiegare l'ampia disoccupazione, questa è probabilmente l'unica a sostegno di cui una forte evidenza quantitativa possa essere addotta. Tuttavia io la considero fondamentalmente falsa, e l'agire sulla sua base, come sperimentiamo oggi, molto dannoso.

Questo ci porta alla questione cruciale. Diversamente della posizione che esiste nelle scienze fisiche, nell'economia ed in altre discipline che si occupano di fenomeni essenzialmente complessi, gli aspetti degli eventi da spiegare di cui possiamo ottenere dati quantitativi sono necessariamente limitati e possono non includere quelli importanti. Mentre nelle scienze fisiche si assume generalmente, probabilmente a buona ragione, che ogni fattore importante che determina gli eventi osservati può essere a sua volta direttamente osservabile e misurabile, nello studio di tali fenomeni complessi come il mercato, che dipendono dalle azioni di molti individui, tutte le circostanze che determineranno il risultato di un processo, per i motivi che spiegherò più avanti, difficilmente potranno mai essere completamente conosciute o misurabili. E mentre nelle scienze fisiche il ricercatore potrà misurare ciò che, sulla base di una teoria prima facie, considera importante, nelle scienze sociali spesso è trattato come importante ciò che è accessibile alla misurazione. Questo fatto a volte è portato al punto in cui si richiede che le nostre teorie debbano essere formulate in termini che fanno riferimento soltanto a grandezze misurabili.

Difficilmente si può negare che una tale richiesta limita del tutto arbitrariamente i fatti che devono essere ammessi come cause possibili degli eventi che si presentano nel mondo reale. Questa visione, accettata spesso abbastanza ingenuamente come richiesta dalle esigenze della procedura scientifica, ha alcune conseguenze piuttosto paradossali. Sappiamo, naturalmente, riguardo al mercato ed a simili strutture sociali, una grande quantità di fatti che non possiamo misurare e sui quali in effetti abbiamo soltanto alcune informazioni generali e molto imprecise. E poiché gli effetti di questi fatti in nessun caso particolare possono essere confermati dalla prova quantitativa, sono semplicemente trascurati da chi è votato ad ammettere soltanto ciò che considera prova scientifica: subito dopo procedono felicemente fingendo che i fattori che possono misurare siano gli unici rilevanti.

La correlazione fra la domanda aggregata e la piena occupazione, per esempio, può solo essere approssimativa, ma poiché è l'unica su cui abbiamo dati quantitativi, è accettata come l'unico collegamento causale che conta. Su questo standard può quindi ben esistere una migliore prova “scientifica” per una falsa teoria, che sarà accettata perché è più “scientifica,” che per una spiegazione valida, rifiutata perché non c'è prova quantitativa sufficiente per essa.

Lasciate che ve lo illustri con un breve abbozzo di ciò che considero la principale causa reale della vasta disoccupazione – un'esposizione che inoltre spiegherà perché tale disoccupazione non può essere curata durevolmente dalle politiche inflazionistiche suggerite dalla teoria oggi alla moda. Questa corretta spiegazione mi sembra che sia l'esistenza delle discrepanze fra la distribuzione della domanda fra i diversi beni e servizi e la ripartizione della forza lavoro e di altre risorse fra queste produzioni. Possediamo una conoscenza “qualitativa” ragionevolmente buona delle forze da cui è determinata una corrispondenza fra l'offerta e domanda nei diversi settori del sistema economico, delle circostanze sotto cui sarà realizzata, e dei probabili fattori che impediranno una tale sistemazione. I passi separati nella spiegazione di questo processo poggiano su fatti di esperienza quotidiana, e pochi tra quelli che si prenderanno il disturbo di seguire la discussione metteranno in discussione la validità degli assunti fattuali, o la correttezza logica delle conclusioni da essi ricavate. Abbiamo effettivamente buona ragione di credere che la disoccupazione indichi che la struttura dei prezzi e degli stipendi relativi è stata distorta (solitamente dal controllo dei prezzi monopolistico o governativo) e che per ristabilire uguaglianza fra la domanda e l'offerta di forza lavoro in tutti i settori siano necessari un cambiamento dei prezzi relativi ed alcuni trasferimenti di forza lavoro.

Ma quando ci viene richiesta una prova quantitativa per la particolare struttura dei prezzi e degli stipendi che sarebbero richiesti per assicurare una vendita continua e regolare dei prodotti e dei servizi offerti, dobbiamo ammettere che non abbiamo tali informazioni. Sappiamo, in altre parole, le condizioni generali in cui ciò che chiamiamo, per certi versi ingannevolmente, un equilibrio, verrà ristabilito; ma non sappiamo mai quali sarebbero i particolari prezzi o stipendi che esisterebbero se nel mercato si verificasse un tale equilibrio. Possiamo soltanto dire quali sono le circostanze nelle quali possiamo attenderci che il mercato stabilisca prezzi e stipendi con cui la domanda uguaglierà l'offerta. Ma non potremo mai produrre informazioni statistiche che mostrino quanto i prezzi e gli stipendi prevalenti deviano da quelli che assicurerebbero una vendita continua dell'attuale offerta di forza lavoro. Benché questa spiegazione delle cause della disoccupazione sia una teoria empirica – nel senso che non potrebbe essere provata falsa, per esempio se, con una massa monetaria costante, un aumento generale degli stipendi non conducesse a disoccupazione – non è certamente il genere di teoria che potremmo usare per ottenere previsioni numeriche specifiche riguardo ai tassi salariali, o la distribuzione del lavoro, che ci si aspettano.

Perché dovremmo, tuttavia, in economia, invocare l'ignoranza del genere di fatti su cui, nel caso di una teoria fisica, ci si aspetterebbe certamente che uno scienziato fornisca informazioni precise? Probabilmente non sorprende che chi sia impressionato dall'esempio delle scienze fisiche troverebbe questa posizione molto insoddisfacente e insisterebbe sugli standard di prova che trovano in esse. Il motivo per questa situazione è il fatto, a cui già ho fatto un breve riferimento, che le scienze sociali, come molta della biologia ma diversamente della maggior parte dei campi delle scienze fisiche, devono occuparsi di strutture di complessità essenziale, vale a dire, con strutture le cui proprietà caratteristiche possono essere esibite soltanto da modelli composti di un numero di variabili relativamente ampio. La concorrenza, per esempio, è un processo che porterà determinati risultati soltanto se procede in un numero ragionevolmente grande di agenti.

In alcuni campi, specialmente dove problemi di tipo simile si presentano nelle scienze fisiche, le difficoltà possono essere superate usando, anziché informazioni specifiche sui diversi elementi, dati sulla frequenza relativa, o la probabilità, dell'occorrenza di varie proprietà distintive degli elementi. Ma questo è vero soltanto dove dobbiamo occuparci di quelli che il dott. Warren Weaver (in precedenza della Fondazione Rockefeller) ha chiamato, con una distinzione che dovrebbe essere molto meglio compresa, “fenomeni di complessità disorganizzata,” in contrasto a quei “fenomeni di complessità organizzata” con i quali ci dobbiamo confrontare nelle scienze sociali. [2]

La complessità organizzata qui significa che il carattere delle strutture che la espongono dipende non solo dalle proprietà di diversi elementi di cui sono composte e dalla frequenza relativa con cui si presentano, ma anche dal modo in cui i diversi elementi sono collegati tra loro. Nella spiegazione del funzionamento di tali strutture non possiamo per questo motivo sostituire le informazioni sui diversi elementi con informazioni statistiche, ma necessitiamo delle informazioni complete su ogni elemento se dalla nostra teoria dobbiamo derivare previsioni specifiche su eventi separati. Senza tali informazioni specifiche sui diversi elementi saremo limitati a ciò che in un'altra occasione ho chiamato semplici previsioni della struttura – previsioni di alcuni degli attributi generali delle strutture che si formeranno, ma non contenenti specifiche dichiarazioni circa i diversi elementi di cui le strutture si comporranno. [3]

Ciò è particolarmente vero per le nostre teorie che spiegano la determinazione dei sistemi dei prezzi e degli stipendi relativi che si formeranno in un mercato ben funzionante. Nella determinazione di questi prezzi e stipendi entreranno gli effetti di informazioni particolari possedute da ciascuno dei partecipanti nel processo di mercato – una somma di fatti che nella loro totalità non possono essere conosciuti all'osservatore scientifico, o a qualunque altro singolo cervello. È in effetti la fonte della superiorità dell'ordine del mercato, e la ragione per cui, quando non è soppresso dai poteri del governo, rimuove regolarmente altri tipi di ordine, che nella risultante allocazione delle risorse sarà utilizzata la maggiore conoscenza dei fatti particolari che esiste soltanto dispersa fra innumerevoli persone, di quella che una sola persona può possedere. Ma poiché noi, gli scienziati che osservano, non potremo quindi mai conoscere tutti i fattori determinanti di un tale ordine, e di conseguenza neanche possiamo sapere a quale particolare struttura di prezzi e stipendi la domanda eguaglierebbe ovunque l'offerta, nemmeno possiamo misurare le deviazioni da quell'ordine; né possiamo verificare statisticamente la nostra teoria che sono le deviazioni da quel sistema di “equilibrio” di prezzi e stipendi che rende impossible vendere alcuni dei prodotti e dei servizi ai prezzi a cui sono offerti.

Prima di continuare con la mia preoccupazione immediata, gli effetti di tutto questo sulle politiche occupazionali attualmente perseguite, mi permettono di definire più specificamente le inerenti limitazioni della nostra conoscenza numerica così spesso trascurate. Voglio far questo per evitare di dare l'impressione di rifiutare generalmente il metodo matematico nell'economia. Considero in effetti come il grande vantaggio della tecnica matematica il fatto che ci permetta di descrivere, per mezzo di equazioni algebriche, il carattere generale di una struttura di cui siamo ignari persino dei valori numerici che determineranno la sua particolare manifestazione. Potremmo a malapena aver ottenuto quella completa immagine delle interdipendenza reciproche dei diversi eventi in un mercato senza questa tecnica algebrica. Ha condotto all'illusione, tuttavia, che possiamo usare questa tecnica per la determinazione e la previsione dei valori numerici di quelle grandezze; e questo ha condotto ad un'inutile ricerca delle costanti quantitative o numeriche. Questo è accaduto malgrado il fatto che i moderni fondatori dell'economia matematica non avessero tali illusioni. È vero che i loro sistemi di equazioni che descrivono la struttura di un equilibrio del mercato sono tali che, se potessimo riempire tutti gli spazi vuoti delle formule astratte, ovvero, se conoscessimo tutti i parametri di queste equazioni, potremmo calcolare i prezzi e le quantità di tutti i prodotti e servizi venduti. Ma come Vilfredo Pareto, uno dei fondatori di questa teoria, dichiarò chiaramente, il suo scopo non può essere di “arrivare ad un calcolo numerico dei prezzi,” perché, disse, sarebbe “irragionevole” supporre che potremmo accertare tutti i dati. [4] Effettivamente, il punto principale era già stato visto da quei notevoli precursori dell'economia moderna, gli scolastici spagnoli del XVI secolo, che enfatizzarono ciò che denominarono pretium mathematicum, il prezzo matematico, dipendente da tante circostanze particolari da non poter mai essere conosciuto dall'uomo ma solo da Dio. [5] Talvolta vorrei che i nostri economisti matematici l'avessero tenuto in giusta considerazione. Devo confessare che ancora dubito che la loro ricerca delle grandezze misurabili abbia portato contributi significativi alla nostra comprensione teorica dei fenomeni economici – a differenza del loro valore come descrizione di situazioni particolari. Né sono preparato ad accettare la giustificazione che questo ramo della ricerca sia ancora molto giovane: sir William Petty, il fondatore dell'econometria, era dopo tutto in qualche modo un collega anziano di sir Isaac Newton nella Royal Society!

Ci possono essere pochi casi in cui la superstizione che soltanto le grandezze misurabili possano essere importanti ha arrecato danni positivi nel campo economico: ma i problemi attuali dell'occupazione e dell'inflazione sono molto gravi. Il loro effetto è stato che quella che probabilmente è la vera causa della vasta disoccupazione è stata trascurata dalla maggior parte degli economisti scientisticamente orientati, perché le sue operazioni non possono essere confermate da rapporti direttamente osservabili fra grandezze misurabili, e che una concentrazione quasi esclusiva su fenomeni superficiali quantitativamente misurabili ha prodotto una politica che ha peggiorato il problema.

Bisogna, è naturale, ammettere prontamente che il genere di teoria che considero come la vera spiegazione della disoccupazione è una teoria dal contenuto piuttosto limitato perché ci permette di fare solo previsioni molto generali del tipo di eventi che ci dobbiamo attendere in una situazione data. Ma gli effetti sulla politica delle costruzioni più ambiziose non sono stati molto fortunati e confesso che preferisco la conoscenza vera ma imperfetta, anche se lascia molte cose indeterminate ed imprevedibili, ad una pretesa di conoscenza esatta che è probabile che sia falsa. Il credito che la conformità apparente con gli standard scientifici riconosciuti può ottenere per teorie apparentemente semplici ma false può avere, come il caso attuale mostra, gravi conseguenze.

Infatti, nel caso discusso, le stesse misure che la teoria “macroeconomica” dominante ha suggerito come rimedio per la disoccupazione – vale a dire, l'aumento della domanda aggregata – sono diventate la causa di una vastissima cattiva allocazione delle risorse che è probabile che renda inevitabile una successiva disoccupazione su grande scala. L'iniezione continua di somme di denaro supplementari in punti del sistema economico in cui genera una domanda provvisoria che dovrà cessare quando l'aumento della quantità di moneta si arresta o rallenta, insieme all'aspettativa di un continuo aumento dei prezzi, attira forza lavoro ed altre risorse in occupazioni che possono durare soltanto a condizione che l'aumento della quantità di moneta continui allo stesso tasso – o forse persino solo a condizione che continui ad accelerare ad un tasso dato. Quello che questa politica ha prodotto non è tanto un livello di occupazione che non avrebbe potuto essere determinato in altri modi, quanto una distribuzione dell'occupazione che non può essere mantenuta indefinitamente e che dopo un certo lasso di tempo può essere mantenuta soltanto da un tasso di inflazione che condurrebbe velocemente alla disorganizzazione di ogni attività economica. Il fatto è che per un'errata visione teorica siamo stati condotti in una posizione rischiosa in cui non possiamo impedire ad una sostanziale disoccupazione di riapparire; non perché, come è talvolta fraintesa questa visione, questa disoccupazione è determinata deliberatamente come mezzo per combattere l'inflazione, ma perché ora è destinata ad accadere come conseguenza profondamente spiacevole ma inevitabile delle politiche erronee del passato non appena l'inflazione cessa di accelerare.

Devo, tuttavia, lasciare ora questi problemi di importanza pratica immediata che ho introdotto principalmente a titolo illustrativo delle conseguenze di grande rilievo che possono seguire dagli errori riguardanti problemi astratti della filosofia della scienza. Ci sono altrettanti motivi per essere consci dei pericoli di lungo termine generati in un campo molto più largo dall'accettazione acritica di asserzioni che hanno l'apparenza di essere scientifiche di quanti ce ne siano riguardo ai problemi che ho appena discusso. Ciò che principalmente ho voluto mettere in evidenza tramite l'illustrazione dell'attualità è che certamente nel mio campo, ma credo anche generalmente nelle scienze umane, quella che appare superficialmente come la procedura più scientifica è spesso la meno scientifica e, oltre questo, che in questi campi ci sono dei limiti definiti a ciò che possiamo attenderci che la scienza realizzi. Questo significa che affidare alla scienza – o al controllo intenzionale secondo i principi scientifici – qualcosa di più di ciò che il metodo scientifico può realizzare può avere effetti deplorevoli. Il progresso delle scienze naturali nei tempi moderni naturalmente ha talmente superato tutte le aspettative che qualsiasi suggerimento che possa avere dei limiti è destinato a destare il sospetto. Resisteranno ad una tale idea specialmente tutti quelli che hanno sperato che il nostro crescente potere di previsione e controllo, generalmente considerato il risultato caratteristico del progresso scientifico, applicato ai processi della società, ci avrebbe presto permesso di modellare l'intera società a nostro piacere. È effettivamente vero che, contrariamente all'entusiasmo che le scoperte delle scienze fisiche tendono a produrre, la comprensione che otteniamo dallo studio della società ha più spesso l'effetto di smorzare le nostre aspirazioni; ed è forse non sorprendente che i più giovani e più impetuosi membri della nostra professione non sono sempre preparati accettarlo. Tuttavia la fiducia nel potere illimitato della scienza è solo basata troppo spesso sulla falsa credenza che il metodo scientifico consista nell'applicazione di una tecnica pronta, o nell'imitazione della forma piuttosto che della sostanza della procedura scientifica, come se bastasse soltanto seguire alcune ricette di cucina per risolvere tutti i problemi sociali. A volte sembra quasi che le tecniche della scienza siano state imparate più facilmente del pensiero che ci mostra quali sono i problemi e come affrontarli.

Il conflitto fra ciò che il pubblico nel suo umore attuale si aspetta che la scienza realizzi per soddisfare delle speranze popolari e ciò che è realmente in suo potere è una questione seria perché, anche se i veri scienziati riconoscessero tutti le limitazioni di quel che possono fare nel campo degli affari umani, finché il pubblico si aspetterà di più ci sarà sempre qualcuno che fingerà, e forse onestamente crederà, di poter fare di più per rispondere alle esigenze popolari di quanto sia realmente in suo potere. È spesso abbastanza difficile per l'esperto, e certamente in molti casi impossibile per il profano, distinguere fra pretese legittime ed illegittime avanzate nel nome della scienza. L'enorme pubblicità recentemente fatta dai media ad un rapporto che si pronuncia in nome della scienza su I limiti alla crescita ed il silenzio degli stessi media sulla critica devastante che questo rapporto ha ricevuto dagli esperti competenti, [6] deve renderci in qualche modo prudenti circa l'uso che può esser fatto del prestigio della scienza. Ma non è affatto soltanto nel campo dell'economia che sono stati lanciati proclami esagerati a nome di una direzione più scientifica di tutte le attività umane e dell'opportunità di sostituire dei processi spontanei con il “controllo umano cosciente.” Se non mi sbaglio, la psicologia, la psichiatria ed alcuni rami della sociologia, per non parlare della cosiddetta filosofia della storia, sono ancor più influenzate da quello che ho chiamato il pregiudizio scientistico e dai proclami speciosi di ciò che la scienza può realizzare. [7]

Se dobbiamo salvaguardare la reputazione della scienza ed impedire l'arrogarsi di conoscenza basata su una somiglianza superficiale della procedura con quella delle scienze fisiche, un grande sforzo dovrà essere orientato verso la confutazione di tali pretese, alcune delle quali sono ormai diventate interessi acquisiti di sezioni di università riconosciute. Non possiamo essere abbastanza riconoscenti a moderni filosofi della scienza come sir Karl Popper per darci un test con cui possiamo distinguere fra cosa possiamo accettare come scientifico e cosa no – un test che sono sicuro alcune dottrine ora ampiamente accettate come scientifiche non passerebbero. Ci sono alcuni particolari problemi, tuttavia, in relazione a quei fenomeni essenzialmente complessi di cui le strutture sociali sono un caso così importante, che mi fanno desiderare di riaffermare in conclusione in termini più generali le ragioni per le quali in questi campi non soltanto ci sono solo ostacoli assoluti per la previsione di eventi specifici, ma perché comportarsi come se possedessimo la conoscenza scientifica che ci permetterebbe di oltrepassarli può in sé diventare un serio ostacolo al progresso dell'intelletto umano.

Il punto principale che dobbiamo ricordare è che il grande e rapido progresso delle scienze fisiche è avvenuto in campi in cui ha dimostrato che la spiegazione e la previsione possono basarsi su leggi che spiegano i fenomeni osservati come funzioni di comparativamente poche variabili – sia fatti particolari che frequenze relative degli eventi. Questa può persino essere l'ultima ragione per la quale scegliamo questi regni come “fisici” in contrasto con quelle strutture più altamente organizzate che qui ho denominato fenomeni essenzialmente complessi. Non c'è ragione per la quale la posizione deve essere la stessa in questi ultimi come nei primi campi. Le difficoltà che incontriamo negli ultimi non sono, come uno potrebbe inizialmente sospettare, difficoltà di formulare teorie per la spiegazione degli eventi osservati – anche se questi causano anche speciali difficoltà nel verificare le spiegazioni proposte e quindi nell'eliminazione delle teorie difettose. Sono dovuto al problema principale che si presenta quando applichiamo le nostre teorie a qualsiasi situazione particolare nel mondo reale.

Una teoria dei fenomeni essenzialmente complessi deve riferirsi ad un largo numero di fatti particolari; e per derivarne una previsione, o per verificarla, dobbiamo accertare tutti questi fatti particolari. Una volta che riuscissimo a far questo non ci dovrebbero essere particolari difficoltà per derivare delle previsioni verificabili – per mezzo dei calcolatori moderni dovrebbe essere abbastanza facile inserire questi dati negli appropriati spazi vuoti delle formule teoriche e derivarne una previsione. La difficoltà reale, alla soluzione di cui la scienza ha poco da contribuire, e che talvolta è effettivamente insolubile, consiste nella constatazione dei fatti particolari.

Un semplice esempio mostrerà la natura di questa difficoltà. Considerate un certo gioco di pallone giocato da poche persone di abilità approssimativamente uguale. Se conoscessimo alcuni fatti particolari oltre alla nostra generale conoscenza dell'abilità di diversi giocatori, come la loro condizione di attenzione, le loro percezioni e la condizione dei loro cuori, polmoni, muscoli, ecc. ad ogni momento del gioco, potremmo probabilmente predire il risultato. Effettivamente, se fossimo familiari sia con il gioco che con le squadre dovremmo probabilmente avere un'idea ragionevolmente sagace su cosa dipenderà il risultato. Ma naturalmente non potremo accertare quei fatti e di conseguenza il risultato del gioco sarà fuori della gamma scientifica del prevedibile, per quanto bene possiamo sapere che effetti avrebbero sul risultato del gioco gli eventi particolari. Ciò non significa che non possiamo fare alcuna previsione sul corso di un simile gioco. Se conosciamo le regole dei giochi differenti potremmo molto presto sapere, guardandone uno, quale gioco si sta giocando e che tipo di azioni possiamo prevedere e che tipo no. Ma la nostra capacità di predire sarà limitata a tali caratteristiche generali degli eventi da prevedere e non comprende la capacità di predire singoli eventi particolari.

Questo corrisponde a ciò che ho denominato prima semplici previsioni strutturali a cui sempre più siamo limitati nel passare dal regno in cui leggi relativamente semplici prevalgono alla gamma dei fenomeni dove regna la complessità organizzata. Mentre avanziamo, troviamo sempre più frequentemente che possiamo in effetti accertare soltanto alcune ma non tutte le circostanze particolari che determinano il risultato di un processo dato; e di conseguenza possiamo predire soltanto qualcuna ma non tutte le proprietà del risultato che dobbiamo prevedere. Spesso tutto ciò che potremo predire sarà qualche caratteristica astratta della struttura che apparirà – rapporti fra generi di elementi di cui conosciamo singolarmente pochissimo. Tuttavia, poiché sono ansioso di ripetermi, potremo ancora realizzare previsioni che possono essere falsificate e che quindi sono di importanza empirica.

Naturalmente, rispetto alle previsioni precise che abbiamo imparato ad aspettarci nelle scienze fisiche, questo tipo di semplici previsioni strutturali è una seconda scelta di cui non è piacevole accontentarsi. Tuttavia il pericolo di cui voglio avvertire è precisamente la credenza che per avere un'affermazione da accettare come scientifica è necessario realizzare di più. Questo è ciarlatanismo o peggio. Agire sulla convinzione di avere la conoscenza ed il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, è probabile che ci porti ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni alla ricerca di fare l'impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso perché i suoi esperimenti possono dopo tutto produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata che esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli è probabile conduca ad un nuovo potere di costringere altri uomini una volta ottenuta una certa autorità. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d'ordine spontaneo da cui, senza capirle, l'uomo è in effetti così grandemente aiutato nell'inseguimento dei suoi obiettivi. Stiamo soltanto cominciando a capire quanto sottile sia il sistema di comunicazione su cui è basato il funzionamento di una società industriale avanzata – un sistema di comunicazione che chiamiamo mercato e che risulta essere un meccanismo più efficiente per elaborare l'informazione dispersa di qualsiasi deliberatamente progettato dall'uomo.

Se l'uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l'ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permetterebbe la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l'artigiano modella i suoi oggetti, ma piuttosto per coltivare una crescita fornendo l'ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C'è un pericolo nell'esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l'uomo a provare, “ubriaco di successo,” per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a soggiogare non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano al controllo della volontà umana. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve effettivamente insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà che dovrebbe impedirgli di diventare stare un complice nel fatale tentativo degli uomini di controllare la società – un tentativo che lo rende non solo un tiranno dei suoi compagni, ma che può renderlo il distruttore di una civiltà che nessun cervello ha progettato ma che è nata dagli sforzi liberi di milioni di individui.

___________________________

Note


[1] “Scientism and the Study of Society,” Economica, vol. IX, no. 35, Agosto 1942, ristampato in The Counter-Revolution of Science, Glencoe, Ill., 1952, p. 15 di questo ristampa.

[2] Warren Weaver, "A Quarter Century in the Natural Sciences," The Rockefeller Foundation Annual Report 1958, capitolo I, “Science and Complexity.”

[3] Vedi il mio saggio “The Theory of Complex Phenomena” in The Critical Approach to Science and Philosophy: Essays in Honor of K.R. Popper, ed. M. Bunge, New York 1964, e ristampato (con le aggiunte) nel mio Studies in Philosophy, Politics and Economics, London and Chicago 1967.

[4] V. Pareto, Manuel d'économie politique, 2nd. ed., Paris 1927, pp. 223–4.

[5] Vedi, per esempio, Luis Molina, De iustitia et iure, Cologne 1596–1600, tom. II, disp. 347, no. 3, e specialmente Johannes de Lugo, Disputationum de iustitia et iure tomus secundus, Lyon 1642, disp. 26, sect. 4, no. 40.

[6] Vedi The Limits to Growth: A Report of the Club of Rome's Project on the Predicament of Mankind, New York 1972; per un esame sistematico di questo da un economista competente, cf. Wilfred Beckerman, In Defence of Economic Growth, London 1974, e, per una lista delle prime critiche degli esperti, Gottfried Haberler, Economic Growth and Stability, Los Angeles 1974, che chiama giustamente il loro effetto “devastante.”

[7] Ho dato alcune illustrazioni di queste tendenze in altri campi nella mia conferenza inaugurale come professore in visita all'università di Salisburgo, Die Irrtümer des Konstruktivismus und die Grundlagen legitimer Kritik gesellschaftlicher Gebilde, Munich 1970, ora ristampata per il Walter Eucken Institute, a Freiburg i.Brg. by J.C.B. Mohr, Tübingen 1975.

Sunday, June 15, 2008

Egalitarismo, rivolta contro la natura

Uno dei più importanti dogmi della dottrina democratica è quello dell'uguaglianza. Ma l'uguaglianza è davvero un valore assoluto e non criticabile? Questo saggio di Rothbard lo mette in dubbio.
___________________________

Di Murray N. Rothbard

Per ben più di un secolo, la sinistra è stata considerata generalmente detentrice della moralità, della giustizia e dell'“idealismo”; l'opposizione conservatrice alla sinistra si è limitata in gran parte all'“impraticità” dei suoi ideali. Un'opinione comune, per esempio, è che il socialismo è splendido in “teoria,” ma che non può “funzionare” nella vita pratica. Ciò che i conservatori non sono riusciti a vedere è che mentre a breve scadenza può effettivamente procurare dei vantaggi il far appello alla mancanza di praticità delle deviazioni radicali dallo status quo, concedendo l'etica e l'“ideale” alla sinistra essi erano condannati alla sconfitta nel lungo termine. Perché se ad una fazione è garantita l'etica e l'“ideale” dal principio, allora quella fazione sarà in grado di effettuare cambiamenti graduali ma sicuri nella propria direzione; e con l'accumulo di questi cambiamenti, il marchio di infamia dell'“impraticità” diventa sempre meno rilevante. L'opposizione conservatrice, avendo puntato tutto sul terreno apparentemente solido del “pratico” (ovvero, lo status quo) è condannata a perdere mentre lo status quo si sposta verso sinistra. Il fatto che gli stalinisti reazionari siano considerati universalmente come i “conservatori” in Unione Sovietica è un felice scherzo logico sul conservatorismo; perché in Russia gli statalisti impenitenti sono effettivamente i depositari di una “praticità” almeno superficiale e di un'adesione all'esistente status quo.

Mai il virus di “praticità” è stato più diffuso che negli Stati Uniti, dato che gli americani si considerano gente “pratica” e, quindi, l'opposizione alla sinistra, mentre in origine è stata più forte che altrove, è stata forse la meno ferma alle sue fondamenta. Sono ora i fautori del libero mercato e della società libera che devono sopportare la comune accusa di “impraticità.”

In nessun campo è stata riconosciuta giustizia e moralità alla sinistra estesamente e quasi universalmente quanto nel suo abbracciare ampiamente l'uguaglianza. È raro in effetti trovare negli Stati Uniti qualcuno, specialmente un intellettuale, che sfidi la bellezza e la bontà dell'ideale egalitario. Sono tutti così devoti a questo ideale che l'“impraticità” – ovvero, l'indebolimento degli incentivi economici – è stata virtualmente l'unica critica contro i programmi egalitari, persino i più bizzarri. L'inesorabile marcia dell'egalitarismo è un'indicazione sufficiente dell'impossibilità di evitare degli impegni etici; i ferocemente “pratici” americani, nel tentativo di evitare le dottrine etiche, non possono evitare di stabilire tali dottrine, ma possono ora farlo soltanto in modo inconscio, ad hoc e non sistematico. La famosa intuizione di Keynes che “gli uomini pratici, che si credono essere del tutto esenti da qualsiasi influenza intellettuale, sono di solito schiavi di qualche economista defunto” – è vero tanto più per i giudizi etici e la teoria etica. [1]

L'indiscusso status etico dell'“uguaglianza” può essere osservato nella pratica comune degli economisti. Gli economisti rimangono spesso intrappolati nei giudizi di valore – bramosi di fare dichiarazioni politiche. Come possono farlo rimanendo “scientifici” e liberi dal valore? Nel campo dell'egalitarismo, hanno potuto esprimere un chiaro giudizio di valore in nome dell'uguaglianza con notevole impunità. A volte questo giudizio è stato francamente personale; altre volte, l'economista ha preteso di essere il surrogato della “società” nell'esprimere il proprio giudizio di valore. Il risultato, tuttavia, è lo stesso. Considerate, per esempio, l'ultimo Henry C. Simons. Dopo aver correttamente criticato vari argomenti “scientifici” per la tassazione progressiva, è alla fine venuto fuori a favore della progressione come segue:
Il caso per una drastica progressione nelle tasse deve essere basato sull'argomento contro la diseguaglianza – sul giudizio etico o estetico che la distribuzione prevalente di patrimonio e di reddito rivela un grado (e/o genere) di diseguaglianza che è distintamente malvagio o sgradevole. [2]
Un'altra tattica tipica può essere estratta da un testo standard sulle finanze pubbliche. Secondo il professor John F. Due,
Il più forte argomento per la progressione è il fatto che l'opinione generale nella società oggi considera la progressione necessaria per l'equità. Ciò a sua volta è basato sul principio che il modello di distribuzione del reddito, prima delle tasse, prevede un'eccessiva diseguaglianza.
Quest'ultima “può essere condannata in base all'inerente slealtà nei termini degli standard accettati dalla società.” [3]

Sia nel caso che l'economista promuova i propri giudizi di valore, sia che presuma che essi riflettano i valori della “società,” la sua immunità dalla critica è stata comunque notevole. Anche se la sincerità nell'affermazione dei propri valori può essere ammirevole, questo non è certamente sufficiente; nella ricerca della verità è a malapena sufficiente affermare i propri giudizi di valore come se dovessero essere accettati come tavole della legge non soggette a critica e valutazione intellettuali. Non è necessario che questi giudizi di valore siano in un certo senso validi, sensati, convincenti, veri?

Fare tali considerazioni, naturalmente, significa schernire i canoni moderni della pura wertfreiheit nelle scienze sociali da Max Weber in poi, così come l'ancora più vecchia tradizione filosofica della netta separazione di “fatto e valore,” ma forse è giunta l'ora di sollevare tali questioni fondamentali. Supponiamo, ad esempio, che il giudizio etico o estetico del professor Simons non riguardasse l'uguaglianza ma un ideale sociale molto diverso.

Supponiamo, per esempio, che fosse stato a favore dell'omicidio di tutte le persone basse, di tutti gli adulti al di sotto del metro e settanta d'altezza. E supponete che quindi avesse scritto, “il caso per la liquidazione di tutte le persone basse deve essere basata sull'argomento contro l'esistenza delle persone basse – sul giudizio etico o estetico che il numero prevalente di adulti bassi è distintamente malvagio o sgradevole.” Ci si domanda se l'accoglienza accordata alle osservazioni del professor Simons dai suoi colleghi economisti o sociologi sarebbe stata esattamente la stessa.

Oppure, possiamo similmente riflettere sullo scritto del professor Due a nome dell'“opinione della società di oggi” nella Germania degli anni 30 riguardo al trattamento sociale degli ebrei. Il punto è che in tutti questi casi la condizione logica delle osservazioni di Simons o Due sarebbe stata precisamente la stessa, anche se la loro ricezione da parte della comunità intellettuale americana sarebbe stata straordinariamente diversa.

Il mio ragionamento finora è stato in due parti:
  1. non è sufficiente per un intellettuale o sociologo affermare i suoi giudizi di valore – che questi giudizi devono essere razionalmente difendibili e dev'essere dimostrabile la loro validità, correttezza e verità: in breve, che non devono più essere trattati come fossero al di sopra della critica intellettuale; e
  2. l'obiettivo dell'uguaglianza è stato trattato per troppo tempo non criticamente ed assiomaticamente come l'ideale etico.
Quindi, gli economisti per i programmi egalitari hanno controbilanciato tipicamente il loro " uncriticized; ideal" contro gli effetti possibili di disincentivo su rendimento economico; ma l'ideale in se è stato messo in discussione raramente. [4]

Procediamo, quindi, ad una critica dell'ideale egalitario in sé – è giusto che all'uguaglianza venga assegnato il suo attuale status di ideale etico indiscusso? In primo luogo, dobbiamo confrontarci con l'idea stessa di una separazione radicale fra qualcosa che sia “vera in teoria” ma “non valida in pratica.” Se una teoria è corretta, allora in pratica funziona; se non funziona in pratica, allora è una teoria sbagliata. La separazione comune fra la teoria e la pratica è artificiale e fallace. Ma questo è vero nell'etica così come in qualsiasi altra cosa. Se un ideale etico è inerentemente “non pratico,” cioè se non può funzionare nella pratica, allora è un mediocre ideale e dovrebbe essere scartato immediatamente. Per dirlo più precisamente, se un obiettivo etico viola la natura dell'uomo e/o dell'universo e, pertanto, non può funzionare nella pratica, allora è un ideale sbagliato e dovrebbe essere scartato come obiettivo. Se l'obiettivo in sé viola la natura dell'uomo, allora è anche un'idea sbagliata lavorare in direzione di quell'obiettivo.

Supponiamo, per esempio, che venga adottato come obiettivo etico universale che tutti gli uomini possano volare sbattendo le braccia. Ammettiamo che ai “pro-volo” siano state generalmente concesse la bellezza e la qualità del loro obiettivo, ma siano stati criticati come “non pratici.” Ma il risultato è un'infinita miseria sociale poiché la società prova continuamente a muoversi verso il volo a braccia, ed i predicatori dello sbattimento di braccia rovinano la vita di tutti accusandoli di essere troppo negligenti o peccatori per raggiungere l'ideale comune. La critica adeguata qui è di sfidare l'obiettivo “ideale” in sé; precisare che l'obiettivo in sé è impossibile in considerazione della natura fisica dell'uomo e dell'universo; e, pertanto, liberare l'umanità dal suo asservimento ad un obiettivo inerentemente impossibile e conseguentemente malvagio.

Ma questa liberazione potrebbe non accadere mai finché gli anti-volo a braccia continueranno a stare solamente nel regno del “pratico” e a concedere l'etica e l'“idealismo” agli alti sacerdoti del volo a braccia. La sfida deve aver luogo al centro – nella presunta superiorità etica di un obiettivo assurdo. Lo stesso, sostengo, è vero per l'ideale egalitario, salvo che le sue conseguenze sociali sono molto più perniciose di una ricerca infinita per il volo umano senza aiuto. Perché la condizione dell'uguaglianza potrebbe danneggiare molto di più l'umanità.

Che cos'è, infatti, l'“uguaglianza”? Il termine è stato molto invocato ma poco analizzato. A e B sono “uguali” se sono identici tra loro rispetto a un dato attributo. Quindi, se Smith e Jones sono alti entrambi esattamente un metro e sessanta, allora si può dire che sono di altezza “uguale.” Se due bastoni sono identici in lunghezza, allora le loro lunghezze sono “uguali,” ecc. C'è un modo e uno soltanto, quindi, in cui due persone qualsiasi possono davvero essere “uguali” nel senso più completo: devono essere identiche in tutti i loro attributi. Questo significa, naturalmente, che l'uguaglianza di tutti gli uomini – l'ideale egalitario – può essere realizzato soltanto se tutti gli uomini sono precisamente uniformi, precisamente identici riguardo a tutti i loro attributi. Il mondo egalitario sarebbe necessariamente un mondo da film dell'orrore – un mondo di creature anonime ed identiche, privo di qualsiasi individualità, varietà, o creatività particolare.

Effettivamente, è precisamente nella fiction dell'orrore che le implicazioni logiche di un mondo egalitario sono state compiutamente descritte. Il professor Schoeck ha riesumato per noi il dipinto di un simile mondo nel racconto distopico britannico Facial Justice di L.P. Hartley, in cui l'invidia è istituzionalizzata dallo Stato assicurando che i volti di tutte le ragazze siano ugualmente graziosi, eseguendo operazioni chirurgiche sia sulle ragazze belle che su quelle brutte per livellare le loro fattezze verso l'alto o verso il basso al comune denominatore generale. [5]

Un racconto di Kurt Vonnegut fornisce una descrizione ancor più completa di una società completamente egalitaria. Così, Vonnegut comincia la sua storia, “Harrison Bergeron”:
L'anno era il 2081 ed tutti erano infine uguali. Non erano uguali soltanto davanti a dio ed alla legge. Erano uguali in ogni senso. Nessuno era più intelligente degli altri. Nessuno era più bello degli altri. Nessuno era più forte o più veloce degli altri. Tutta questa uguaglianza era dovuta agli Emendamenti alla Costituzione 211, 212 e 213 ed alla vigilanza incessante degli agenti dell'Handicappatore Generale degli Stati Uniti.
L'“handicappatura" funzionava in parte come segue:
Hazel aveva un'intelligenza perfettamente media, il che significa che non poteva pensare a qualcosa tranne in brevi lampi. E George, dato che la sua intelligenza era parecchio sopra la norma, aveva una piccola radio per handicap mentale nel suo orecchio. Era tenuto per legge a portarla sempre. Era sintonizzata ad un trasmettitore del governo. Ogni circa venti secondi, il trasmettitore trasmetteva un qualche rumore acuto per impedire alle persone come George di trarre ingiusto vantaggio dal loro cervello. [6]
L'orrore che tutti proviamo istintivamente con queste storie è il riconoscimento intuitivo che gli uomini non sono uniformi, che la specie, l'umanità, è unicamente caratterizzata da un alto livello di varietà, diversità, differenziazione: in breve, diseguaglianza. Una società egalitaria può soltanto sperare di realizzare i suoi obiettivi con metodi totalitari di coercizione; e, persino qui, tutti crediamo e speriamo che lo spirito umano dell'individuo si solleverebbe e contrasterebbe qualsiasi tentativo di realizzare un mondo formicaio. In breve, la rappresentazione di una società egalitaria è fiction dell'orrore perché, quando le implicazioni di un mondo simile sono espresse completamente, riconosciamo che un tale mondo e tali tentativi sono profondamente antiumani; essendo antiumani nel senso più profondo, l'obiettivo egalitario è, quindi, malvagio ed ogni tentativo nella direzione di un simile obiettivo devono essere considerati anch'essi malvagi.

Il grande fatto della differenza individuale e della variabilità (ovvero diseguaglianza) è evidente nella lunga storia dell'esperienza umana; da cui, il riconoscimento generale della natura antiumana di un mondo di uniformità obbligata. Socialmente ed economicamente, questa variabilità si manifesta nell'universale divisione del lavoro e nella “Ferrea Legge dell'Oligarchia” – la comprensione che, in ogni organizzazione o attività, pochi (generalmente i più abili e/o i più interessati) diventeranno leader, mentre la massa degli altri membri riempirà i ranghi dei seguaci. In ambo i casi, si verifica lo stesso fenomeno: il successo o la guida eccezionali in ogni data attività sono raggiunti da quella che Jefferson ha chiamato “aristocrazia naturale,” coloro che meglio si adattano a quell'attività.

L'antichissima storia della diseguaglianza sembra indicare che tali variabilità e diversità siano radicate nella natura biologica dell'uomo. Ma è precisamente una tal conclusione sulla biologia e la natura umana ad essere in assoluto la più irritante per i nostri egalitari. Persino per gli egalitari sarebbe difficile negare il dato storico, ma la loro risposta è che la colpa è della “cultura”; e poiché sostengono ovviamente che la cultura è un puro atto di volontà, ne consegue che l'obiettivo di cambiare la cultura e di inculcare l'uguaglianza nella società sembra essere raggiungibile. In questo campo, gli egalitari si liberano da qualsiasi pretesa di scientificità; sono scarsamente soddisfatti dal riconoscere biologia e cultura come influenze mutualmente interagenti. La biologia deve essere tolta di mezzo rapidamente e completamente.

Riflettiamo su un esempio deliberatamente semi-frivolo. Supponiamo di osservare la nostra cultura e trovarvi un'asserzione comune che recita, “quelli con i capelli rossi sono eccitabili.” Ecco un giudizio di diseguaglianza, una conclusione che quelli con i capelli rossi come gruppo tendono a differire dal resto della popolazione. Supponiamo, quindi, che i sociologi egalitari studino il problema e trovino che quelli con i capelli rossi, effettivamente, tendano statisticamente ad essere più eccitabili degli altri in misura significativa. Invece di ammettere la possibilità di un certo tipo di differenza biologica, l'egalitario aggiungerà rapidamente che la “cultura” è responsabile del fenomeno: lo “stereotipo” comunemente accettato che quelli con i capelli rossi sono eccitabili è stato infuso in ogni bambino con i capelli rossi in giovane età e lui o lei ha semplicemente interiorizzando questi giudizi e si comporta nella società come ci si aspetta che faccia. A quelli con i capelli rossi, in breve, è stato fatto il “lavaggio del cervello” dalla cultura predominante di quelli con i capelli di un altro colore.

Anche se non stiamo negando la possibilità che un simile processo possa avvenire, questo comune reclamo sembra decisamente improbabile ad un'analisi razionale. Perché la lo spauracchio della cultura egalitaria suppone implicitamente che la “cultura” arrivi e si accumuli in modo aleatorio, senza riferimento ai fatti sociali. L'idea che “quelli con i capelli rossi sono eccitabili” non è nata dal nulla o per intervento divino; in che modo, dunque, l'idea si è prodotta ed ha guadagnato valenza generale?

Uno dei dispositivi egalitari preferiti è di attribuire ogni simile dichiarazione d'identificazione di gruppo ad oscure pulsioni psicologiche. Il pubblico aveva una necessità psicologica di accusare un certo gruppo sociale di eccitabilità e quelli con i capelli rossi sono stati scelti come capri espiatori. Ma perché sono stati scelti loro? Perché non i biondi o le brunette?Comincia a formarsi l'orribile sospetto che forse quelli con i capelli rossi sono stati scelti perché erano e sono effettivamente più eccitabili e che, quindi, lo “stereotipo” della società è semplicemente una generale comprensione dei fatti nella realtà. Certamente questa spiegazione contempla una maggiore quantità dei dati e dei processi in corso ed è inoltre una spiegazione molto più semplice.

Considerato obiettivamente, sembra essere una spiegazione molto più ragionevole dell'idea della cultura come babau arbitrario e ad hoc. In caso affermativo, allora potremmo concludere che quelli con i capelli rossi sono biologicamente più eccitabili e che la propaganda irradiata su di loro dagli egalitari che li invitano ad essere meno eccitabili è un tentativo di indurli a violare la loro natura; quindi, è questa propaganda a posteriori che può essere più esattamente denominata “lavaggio del cervello.”

Questo non vuol dire, naturalmente, che la società non possa mai fare un errore e che i suoi giudizi delle identità di gruppo siano sempre radicati nei fatti. Ma pare a me che l'onere della prova spetti molto più agli egalitari che ai loro presunti “non illuminati” avversari.

Dal momento che gli egalitari cominciano con l'assioma a priori che tutte le persone, e quindi tutti i gruppi di persone, sono uniformi ed uguali, allora segue per loro che ciascuna e tutte le differenze di gruppo di status, prestigio, o autorità nella società devono essere il risultato di “ingiusta oppressione” ed “irrazionale discriminazione.” La prova statistica dell'“oppressione” di quelli con i capelli rossi procederebbe in una maniera fin troppo familiare nella vita politica americana; potrebbe essere mostrato, per esempio, che il loro reddito medio è più basso di quello degli altri, ed inoltre che la percentuale di uomini d'affari, professori universitari, o membri del Congresso con i capelli rossi è più bassa della loro quota di rappresentazione nella popolazione.

La manifestazione più recente e cospicua di questo tipo di pensiero di quote si verificò nel movimento di McGovern alla Convention Democratica del 1972. Alcuni gruppi furono scelti come “oppressi” in virtù di un numero di delegati alle convention precedenti al di sotto della loro quota percentuale nella popolazione complessiva. In particolare, le donne, i giovani, i neri, i chicanos (o il cosiddetto Terzo Mondo) vennero designati come oppressi; di conseguenza, il Partito Democratico, sotto la guida del pensiero quota-egalitario, ignorò le scelte degli elettori per raggiungere la dovuta quota di rappresentazione di questi gruppi particolari.

In alcuni casi, il distintivo di “oppresso” era una costruzione quasi ridicola. Che i giovani dai 18 ai 25 anni fossero “sottorappresentati” potrebbe essere messo facilmente nella giusta prospettiva da una reductio ad absurdum, certamente un qualche appassionato riformatore macgoverniano avrebbe potuto alzarsi per sottolineare la grave “sottorappresentazione” dei cinquenni alla convention e sollecitare che il blocco dei cinquenni ottenesse immediatamente quanto dovuto. È solo una comprensione biologica e sociale di buonsenso rendersi conto che i giovani guadagnano il loro spazio nella società con un processo di apprendistato; i giovani sanno di meno ed hanno meno esperienza degli adulti maturi, cosicché dovrebbe essere chiaro perché tendono ad avere minor status ed autorità dei loro vecchi. Ma accettare questo significherebbe gettare nella dottrina egalitaria un certo dubbio sostanziale; ancora, sarebbe fumo negli occhi per il culto della gioventù che è stato a lungo un grave problema della cultura americana. E così i giovani sono stati debitamente indicati come “classe oppressa,” e la costrizione della loro quota è stata concepita come semplice riparazione per la loro precedente condizione di sfruttati. [7]

Le donne sono un altra “classe oppressa” recentemente scoperta,” ed il fatto che i delegati politici maschi sono stati abitualmente molto più del 50 per cento è oggi ritenuto un segno evidente della loro oppressione. I delegati alle convention politiche provengono dalla truppa degli attivisti di partito, e poiché le donne non sono mai state politicamente attive quanto gli uomini, il loro numero comprensibilmente è sempre stato più basso. Ma, a fronte di questo argomento, le forze in espansione del movimento per la “liberazione delle donne” in America fanno di nuovo ricorso all'argomento talismano del “lavaggio del cervello” della nostra “cultura.” Perché i liberazionisti difficilmente possono negare il fatto che ogni cultura e civiltà nella storia, dalle più semplici alle più complesse, è stata dominata dai maschi. (Nella disperazione, i liberazionisti ultimamente stanno ricorrendo a fantasie circa il potente impero delle amazzoni.) La loro risposta, ancora una volta, è che da tempo immemorabile una cultura maschilista ha lavato il cervello alle femmine oppresse per confinarle alla cura dei figli nel focolare domestico. La missione dei liberazionisti è di realizzare una rivoluzione nella condizione femminile per pura volontà, con una “crescita della consapevolezza.” Se la maggior parte delle donne continua a dedicarsi alle occupazioni domestiche, questo rivela soltanto una “falsa consapevolezza” che dev'essere estirpata.

Naturalmente, una risposta trascurata è che, se effettivamente gli uomini sono riuscito a dominare ogni cultura, quindi questa in sé è una dimostrazione di una “superiorità” maschile; perché se tutti i generi sono uguali, com'è che la dominazione maschile è emersa in ogni caso? Ma oltre a questo problema, è la biologia in sé che viene negata irosamente e gettata da parte. Il grido è che non ci sono, non possono esserci, non devono esserci differenze biologiche fra i sessi; tutte le differenze storiche o attuali devono essere dovute al lavaggio del cervello culturale.

Nella sua brillante confutazione della liberazionista Kate Millett, Irving Howe descrive parecchie importanti differenze biologiche fra i sessi, differenze abbastanza importanti da avere effetti sociali durevoli. Queste sono
  1. “la distintiva esperienza femminile della maternità” compresa quello che l'antropologo Malinowski chiama un “collegamento intimo ed integrale con il bambino… connesso con effetti fisiologici e forti emozioni”;
  2. “le componenti ormoniche dei nostri corpi che variano non solo fra i sessi ma fra età differenti all'interno dei sessi”;
  3. “le diverse possibilità di lavoro generato da diverse quantità di muscolatura e di controllo fisico”; e
  4. “le conseguenze psicologiche delle differenti posizioni e delle possibilità sessuali,” in particolare la “distinzione fondamentale fra il ruolo sessuale attivo e passivo” come biologicamente determinato rispettivamente negli uomini e nelle donne. [8]
Howe continua citando l'ammissione della dott.ssa Eleanor Maccoby nel suo studio sull'intelligenza femminile che
è del tutto possibile che ci siano fattori genetici che differenzino i due sessi e pesino sulle loro prestazioni intellettuali…. Per esempio, ci sono buone ragioni per credere che i ragazzi siano congenitamente più aggressivi delle ragazze – e intendo aggressivo nel senso più vasto, non solo poiché implica il combattimento, ma poiché implica anche la dominanza e l'iniziativa – e se questa qualità sta alla base dello sviluppo successivo del pensiero analitico, allora i ragazzi hanno un vantaggio che le ragazze… troveranno difficile da superare.
La dott.ssa Maccoby aggiunge che “se proviamo a dividere l'addestramento dei bambini fra maschi e femmine, potremmo scoprire che le femmine ne hanno bisogno mentre i maschi no.” [9]

Il sociologo Arnold W. Green punta all'emersione ripetuta di ciò che gli egalitari denunciano come “ruoli sessuali stereotipati” anche in comunità originariamente dedicate all'uguaglianza assoluta. Quindi, cita le note sui kibbutzim israeliani:
Il fenomeno è mondiale: le donne sono concentrate in campi che richiedono, separatamente o in associazione, abilità casalinga, pazienza e routine, destrezza manuale, fascino, contatto con i bambini. La generalizzazione regge anche nei kibbutz israeliani, con il loro ideale stabilito dell'uguaglianza sessuale. Una “regressione” ad una separazione del “lavoro da donne” dal “lavoro da uomini” è avvenuta nella divisione del lavoro, verso una situazione parallela a quella che vige altrove. Il kibbutz è dominato dai maschi e dagli atteggiamenti maschii tradizionali, per la soddisfazione di entrambi i sessi. [10]
Irving Howe correttamente percepisce che alla radice del movimento di liberazione della donna c'è il rancore contro la stessa esistenza delle donne come entità distintiva:
Perché ciò che sembra disturbare la sig.na Millett non è soltanto l'ingiustizia che le donne abbiano sofferto discriminazioni a cui continuano ad essere soggette. Quello che la disturba soprattutto… è l'esistenza stessa delle donne. La sig.na Millett non gradisce la distinzione psicobiologica delle donne, e non andrà oltre il riconoscimento – che scelta c'è, del resto? – delle differenze inevitabili dell'anatomia. Ella odia il rifiuto perverso della maggior parte delle donne di riconoscere la grandezza della loro umiliazione, la vergognosa dipendenza che mostrano verso gli uomini (non molto indipendenti), l'esasperante piacere che ottengono persino dalla cottura dei pranzi per il “capo del gruppo” e dal pulire i nasi dei loro mocciosi. Infuriandosi contro la nozione che tali ruoli ed atteggiamenti siano biologicamente determinati, poiché il pensiero stesso della biologia le appare come un modo per ridurre per sempre le donne ad una condizione secondaria, ella attribuisce tuttavia alla “cultura” una gamma così sconvolgente di abitudini, oltraggi e malvagità che questa viene a sembrare una forza più irremovibile e minacciosa della stessa biologia. [11]
In una critica percettiva del movimento di liberazione delle donne, Joan Didion intuisce la sua radice come una ribellione non solo contro biologia ma anche contro la “vera e propria organizzazione della natura” in sé:
Se la necessità per la riproduzione convenzionale della specie sembra ingiusta alle donne, allora oltrepassiamo, per mezzo della tecnologia, l'“organizzazione stessa della natura,” l'oppressione, come vista da Shulamith Firestone, “che risale la storia fino allo stesso regno animale.” Io accetto l'universo, concesse infine Margaret Fuller: Shulamith Firestone, no. [12]
Al che si è tentati di parafrasare l'ammonimento di Carlyle: “Oddio, signora, sarebbe meglio.”

Un'altra ribellione in espansione contro le norme biologiche sessuali, così come contro la diversità naturale, è stato il recente aumento di proclami a favore della bisessualità da parte degli intellettuali di sinistra. Evitare la “rigida, stereotipata” eterosessualità ed approvare la bisessualità indiscriminata si suppone possa ampliare la coscienza, eliminare le distinzioni “artificiali” fra i sessi e rendere tutte le persone semplicemente e unisessualmente “umane.”

Ancora una volta, il lavaggio del cervello da parte di una cultura dominante (in questo caso, eterosessuale) si presume abbia oppresso una minoranza omosessuale e bloccato l'uniformità e l'uguaglianza inerenti alla bisessualità. Perché allora ogni individuo potrà raggiungere la sua più completa “umanità” nella “perversione polimorfa” così cara ai cuori dei principali filosofi sociali della nuova sinistra come Norman O. Brown e Herbert Marcuse.

Che la biologia si erga come una roccia di fronte alle fantasie egalitarie è stato sempre più chiaro negli ultimi anni. Le ricerche del biochimico Roger J. Williams hanno ripetutamente enfatizzato la grande gamma di diversità individuali nell'intero organismo umano. Così
Gli individui differiscono l'uno dall'altro anche nei più minuscoli dettagli dell'anatomia e della chimica e fisica del corpo; impronte digitali e dei piedi; struttura microscopica dei capelli; distribuzione dei peli sul corpo, creste e “lune” sulle unghie delle mani e dei piedi; spessore della pelle, suo colore, sua tendenza a produrre delle bolle; distribuzione dei terminali nervosi sulla superficie del corpo; dimensione e forma delle orecchie, dei canali uditivi, o canali semicircolari; lunghezza delle dita; carattere delle onde cerebrali (piccoli impulsi elettrici emanati dal cervello); numero esatto dei muscoli nel corpo; azione cardiaca; resistenza dei vasi sanguigni; gruppi sanguigni; tasso di coagulazione del sangue – e avanti così quasi ad infinitum. Oggi sappiamo molto su come funzioni l'ereditarietà e come è non solo possibile ma certo che ogni essere umano possiede per eredità un mosaico eccezionalmente complesso, composto di migliaia di oggetti, distintivo per lui solo. [13]
La base genetica per la diseguaglianza dell'intelligenza è inoltre diventata sempre più evidente, malgrado l'abuso emozionale accumulato su tali studi da colleghi scienziati così come dal pubblico. Gli studi su gemelli identici cresciuti in ambienti contrastanti sono stati fra i sistemi con cui questa conclusione è stata raggiunta; ed il professor Richard Herrnstein ha recentemente stimato che l'80 per cento della variabilità nell'intelligenza umana è in origine genetica. Herrnstein conclude che qualsiasi tentativo politico di fornire un'uguaglianza ambientale per tutti i cittadini potrà soltanto intensificare il grado di differenze socio-economiche causate dalla variabilità genetica. [14]

La rivolta egalitaria contro la realtà biologica, per quanto significativa, è soltanto un sottoinsieme di una ribellione più profonda: contro la struttura ontologica della realtà in sé, contro la “stessa organizzazione della natura”; contro l'universo come tale. Al cuore della sinistra egalitaria c'è la credenza patologica che non esista una struttura della realtà; che tutto il mondo sia una tabula rasa che può essere cambiata in qualsiasi momento in qualsiasi direzione per mezzo del semplice esercizio della volontà umana – in breve, che la realtà possa immediatamente essere trasformata dal desiderio o dal mero capriccio degli esseri umani. Certamente questo tipo di pensiero infantile è il cuore dell'appassionata richiesta di Herbert Marcuse per la negazione completa dell'attuale struttura della realtà e per la sua trasformazione in ciò che egli profetizza essere il suo vero potenziale.

Da nessun'altra parte l'attacco della sinistra alla realtà ontologica è più apparente che nei sogni utopistici su come sarà la futura società socialista. Nel futuro socialista di Charles Fourier, secondo Ludwig von Mises,
tutte le bestie nocive saranno scomparse, ed al loro posto ci saranno animali che aiuteranno l'uomo nel suo lavoro – o persino faranno il lavoro al posto suo. Un anticastoro si occuperà della pesca; un antibalena sposterà le navi in porto; un antiippopotamo rimorchierà le barche sul fiume. Anziché il leone ci sarà un antileone, uno destriero di meravigliosa velocità, sulla cui groppa il cavaliere si siederà confortevolmente quanto in un carro ben ammortizzato. “Sarà un piacere vivere in un mondo con tali servitori.” [15]
Ancora, secondo Fourier, gli oceani stessi conterrebbero limonata piuttosto che acqua salata. [16]

Fantasie similmente irragionevoli sono alla radice dell'utopia marxista del comunismo. Liberata dai presunti confini della specializzazione e della divisione del lavoro (il cuore di ogni produzione oltre il livello più primitivo e quindi di ogni società civilizzata), ogni persona nell'utopia comunista svilupperebbe completamente tutti i suoi poteri in ogni direzione. [17] Come Engels scrisse nel suo Anti-Dühring, il comunismo darà a “ciascun individuo l'occasione di sviluppare ed esercitare tutte le sue facoltà, fisiche e mentali, in ogni direzione.” [18] E Lenin guardava nel 1920 all'“abolizione della divisione del lavoro fra i popoli… l'educazione, istruzione ed addestramento del popolo con uno sviluppo totale e un'addestramento totale, il popolo dev'essere in grado di fare tutto. Il comunismo sta marciando e deve marciare verso questo obiettivo e lo raggiungerà.” [19]

Nella sua tagliente critica della visione comunista, Alexander Gray accusa
Che ciascun individuo debba avere l'opportunità di sviluppare tutte le sue facoltà, fisiche e mentali, in ogni direzione, è un sogno che incoraggierà la visione soltanto dei semplici, dimentichi delle restrizioni imposte dagli stretti limiti della vita umana. Perché la vita è una serie di scelte ed ogni scelta è allo stesso tempo una rinuncia.

Anche l'abitante del futuro regno delle fate di Engels dovrà decidere prima o poi se desidera essere arcivescovo di Canterbury o primo signore del mare, se dovrebbe cercare di eccellere come violinista o come pugile, se dovrebbe scegliere di conoscere tutto sulla letteratura cinese o sulle pagine nascoste della vita di uno sgombro. [20]
Naturalmente un modo per provare a risolvere questo dilemma è di fantasticare che l'uomo nuovo comunista del futuro sarà un superuomo, sovrumano nelle sue capacità di trascendere la natura. William Godwin pensava che, una volta che la proprietà privata venisse abolita, l'uomo diventerebbe immortale. Il teorico marxista Karl Kautsky ha asserito che nella futura società comunista, “un nuovo tipo di uomo sorgerà… un superuomo… un uomo esaltato.” E Leon Trotsky profetizzò che sotto il comunismo
l'uomo diventerà incomparabilmente più forte, più saggio, più bello. Il suo corpo più armonioso, i suoi movimenti più ritmici, la sua voce più musicale…. La media umana aumenterà al livello di un Aristotele, un Goethe, un Marx. Sopra queste altre altezze nuovi picchi appariranno. [21]
Abbiamo cominciato considerando l'opinione comune che gli egalitari, malgrado un po' di impraticità, hanno l'etica e l'idealismo morale dalla loro parte. Finiamo concludendo che gli egalitari, anche se intelligenti come individui, negano la base stessa dell'intelligenza umana e della ragione umana: l'identificazione della struttura ontologica della realtà, delle leggi della natura umana, e l'universo. Così facendo, gli egalitari agiscono come bambini terribilmente viziati, che negano la struttura della realtà in nome della rapida materializzazione delle loro irragionevoli fantasie. Non solo viziati ma anche molto pericolosi; perché il potere delle idee è tale che gli egalitari hanno buone probabilità di distruggere lo stesso universo che desiderano negare e trascendere, e di far crollare quell'universo sulle nostre teste. Dal momento che la loro metodologia ed i loro obiettivi negano la struttura stessa dell'umanità e dell'universo, gli egalitari sono profondamente antiumani; e, pertanto, anche la loro ideologia e le loro attività possono essere stabilite come profondamente malvagie. Gli egalitari non hanno l'etica dalla loro parte a meno che si voglia sostenere che la distruzione della civiltà e perfino della razza umana in sé, debba essere premiata con la corona dell'alloro di un'alta e lodevole moralità.
___________________________

Note

[1] John Maynard Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta
[2] Henry C. Simons, Personal Income Taxation (1938), pp. 18–19, citato da Walter J. Blum e Harry Kalven, Jr. in The Uneasy Case for Progressive Taxation (Chicago: University of Chicago Press, 1953), p. 72.
[3] John F. Due, Government Finance (Homewood, Ill.: Richard D. Irwin, 1954), pp. 128–29.
[4] Quindi:
Una terza linea di obiezione alla progressione, ed indubbiamente quella che ha ricevuto la maggior parte dell'attenzione, è che diminuisce la produttività economico della società. Virtualmente tutti coloro che hanno sostenuto la progressione nell'imposta sul reddito lo ha riconosciuto come considerazione controbilanciante. (Blum and Kalven, The Uneasy Case for Progressive Taxation, p. 21)
Ancora una volta l'“ideale” contro il “pratico”!
[5] Helmut Schoeck, Envy (New York: Harcourt, Brace, and World, 1970), pp. 149–55.
[6] Kurt Vonnegut, Jr., “Harrison Bergeron,” in Welcome to the Monkey House (New York: Dell, 1970), p. 7.
[7] Gli egalitari, fra le loro altre attività, sono stati attivamente occupati nel “correggere” la lingua inglese. L'uso della parola “ragazza,” per esempio, è ora considerato una grave diminuzione e degradazione della gioventù femminile che implica la loro naturale sottomissione agli adulti. Di conseguenza, gli egalitari di sinistra ora si riferiscono alle ragazze virtualmente di ogni età come “donne,” e possiamo aspettarci fiduciosi di leggere delle attività di “una donna di cinque anni.”
[8] Irving Howe, “The Middle-Class Mind of Kate Millett,” Harper's (December, 1970): 125–26.
[9] Ibid., p. 126.
[10] Arnold W. Green, Sociology (6a ed., New York: McGraw-Hill, 1972), p. 305. Green cita lo studio di A.I. Rabin, “The Sexes: Ideology and Reality in the Israeli Kibbutz,” in Sex Roles in Changing Society, G.H. Seward and R.G. Williamson, eds. (New York: Random House, 1970), pp. 285–307.
[11] Howe, “The Middle-Class Mind of Kate Millett,” p. 124.
[12] Joan Didion, “The Women's Movement,” New York Times Review of Books (July 30, 1972), p. 1.
[13] Roger J. Williams, Free and Unequal (Austin: University of Texas Press, 1953), pp. 17, 23. Vedi anche di Williams Biochemical Individuality (New York: John Wiley, 1963) e You are Extraordinary (New York: Random House, 1967).
[14] Richard Herrnstein, “IQ,” Atlantic Monthly (September, 1971).
[15] Ludwig von Mises, Socialism: An Economic and Sociological Analysis (New Haven, Conn.: Yale University Press, 1951), pp. 163–64.
[16] Ludwig von Mises, Azione Umana. Mises cita il primo e il quarto volume delle Opere Complete di Fourier.
[17] Per altro sull'utopia comunista e sulla divisione del lavoro, vedi Murray N. Rothbard, Freedom, Inequality, Primitivism, and the Division of Labor (cap. 16, presente volume).
[18] Citato in The Socialist Tradition, Alexander Gray (London: Long-mans, Green, 1947), p. 328.
[19] Il corsivo è Lenin..V.I. Lenin, Left-Wing Communism: An Infantile Disorder (New York: International Publishers, 1940), p. 34.
[20] Gray, The Socialist Tradition, p. 328.
[21] Citato in Socialism: An Economic and Sociological Analysis, Mises p. 164.
___________________________

Link all'originale.

Friday, June 13, 2008

Forza Irlanda

Ogni volta che provano a chiedere alla gente cosa ne pensa dell'Europa unita, la risposta è sempre la stessa:
Esponenti del governo e dei partiti sentiti dalla televisione pubblica irlandese Rte hanno detto di aspettarsi, a questo punto, una vittoria del No nel referendum sul Trattato di Lisbona.

I risultati definitivi sono attesi nel pomeriggio. Non ci sono dati sull'affluenza, ma Rte afferma che sarebbe attorno al 40%. L'Irlanda è il solo paese dell'Ue a sottoporre il Trattato a un referendum. Una bocciatura getterebbe l'Unione in una nuova fase di incertezza, impedendo alla riforma dei meccanismi comunitari di entrare in vigore.
Poco male, ripiegheranno come al solito sulla firma solenne.”

Thursday, June 12, 2008

Qualità della morte

A Berlino, il presidente americano George Bush ha parlato dei progressi sostanziali realizzati in Iraq e degli sforzi per aiutare il paese che cambieranno il Medio Oriente in meglio.

E, puntuale come la morte, arriva subito la realtà a smentire i vaneggiamenti del patetico alcolizzato:
C'è di nuovo Zurigo in cima alla lista delle città con la migliore qualità di vita, mentre Lussemburgo risulta la più sicura. Baghdad, invece, è ultima in entrambe le categorie.

Stando alla società di management consultancy Mercer, le città europee sono ai primi posti nel sondaggio Qualità di Vita nel Mondo 2008, con Zurigo che mantiene il primato come l'anno scorso, seguita da Vienna. Un'altra città svizzera, Ginevra, si piazza al terzo posto. Vengono poi Vancouver in Canada e Auckland in Nuova Zelanda.

La Germania ha ben tre città nella top 10, con Dusseldorf sesta seguita da Monaco e Francoforte a pari merito.

Praga si posiziona al 71esimo posto, prima tra le città dell'Europa dell'Est, e la bielorussa Minsk è quella più in basso nella graduatoria tra le città europee, al numero 183.

L'elaborazione della lista segue 39 criteri determinanti per la qualità della vita come stabilità politica, scuole, ambiente socio-culturale, tempo libero, abitazioni e ambiente naturale.

Per gli Stati Uniti la prima città è Honolulu al 28esimo posto, seguita a ruota da San Francisco.

In Asia la città migliore risulta Singapore, al 32esimo posto, e in Africa Città del Capo, all'80esimo.

Le città con la peggiore qualità di vita sono invece Ndjamena in Chad al numero 211, seguita da Khartoum in Sudan, Brazzaville nella Repubblica del Congo e Bangui nella Repubblica Centroafricana. Baghdad mantiene l'ultima posizione.

Mercer spiega che c'è anche una lista di città individuate in base al livello di sicurezza personale. Lussemburgo è al primo posto seguita da Berna, Ginevra, Helsinki e Zurigo, tutte al secondo posto a pari merito.

Anche in questo caso, all'ultimo posto si piazza la capitale irachena.

Non era facile, ma c'è riuscito: ha fatto peggio di Saddam.

Tuesday, June 10, 2008

Mondo difficile, futuro incerto

Discorso di Hoppe in cui si spiega l'utilità della moneta e del risparmio come protezione dagli imprevisti del futuro, pronunciato il 24 aprile 2009 alla Lezione in memoria di Franz Cuhel della Conferenza di Politica Economica di Praga (il video è disponibile a questo link).
___________________________

Di Hans-Hermann Hoppe


Franz Cuhel occupa un posto d'onore nella storia del pensiero economico e della scuola di economia “viennese” o “austriaca” in particolare. Nel suo libro Zur Lehre von den Bedürfnissen (1907), Cuhel propose per la prima volta un'interpretazione rigorosamente ordinale dell'utilità marginale contribuendo così ad un progresso sistematico della teoria economica pura. Dal momento che questa conferenza è stata così chiamata in onore di Cuhel, ho ritenuto appropriato parlare anch'io, qui, di un problema di economia puramente teorico. Il mio oggetto, tuttavia, non è la teoria generale del valore ma, più specificamente, la teoria della moneta.

Per il titolo della mia conferenza mi sono ispirato ad un famoso articolo di William H. Hutt, “Il rendimento patrimoniale.” [1] Come Hutt, voglio attaccare il seguente concetto: che il denaro tenuto tra saldi di cassa e conti di deposito sia in qualche modo “improduttivo,” “infruttuoso,” o “sterile,” che offre un “rendimento pari a zero;” che solo i beni di consumo ed i beni di produzione (d'investimento) producono benessere; che l'unico uso produttivo della moneta si trova nella sua “circolazione,” ovvero, nello spenderlo in beni di produzione o di consumo; e che il tenersi i soldi, ovvero il non spenderli, diminuisce il consumo e la produzione futuri.

Questa idea è estremamente popolare all'interno e fuori dalla professione economica. Hutt offre molti esempi dei suoi propugnatori. Qui ne riporterò soltanto due. Il primo è John Maynard Keynes. Una citazione famosa dalla sua Teoria Generale sarà sufficiente per il mio scopo: “Un atto di risparmio individuale,” con cui Keynes intende giacenza monetaria o “tesaurizzazione” al posto di consumo o spesa d'investimento,
equivale – per così dire – ad una decisione di non pranzare oggi. Ma non implica una decisione di pranzare o comprare un paio di stivali tra una settimana o un anno o per consumare una qualsiasi cosa specifica ad una qualsiasi data specifica. Quindi deprime il commercio di preparare il pranzo oggi senza stimolare il commercio di prepararsi per un certo atto futuro di consumo. Non è una sostituzione di futuro consumo-domanda per presente consumo-domanda – è una diminuzione netta di tale domanda. [2]
Ecco qua: tenersi i soldi, ovvero, non spenderli in beni d'investimento o di consumo, è improduttivo, effettivamente nocivo. Secondo Keynes, il governo o la sua banca centrale deve creare e quindi spendere la moneta che i “risparmiatori,” ovvero, i possessori di contanti, stanno tenendo improduttivamente ferma, in modo da stimolare sia il consumo che l'investimento (inutile a dirsi, questo è precisamente quello che i governi e le banche centrali stanno attualmente facendo, apparentemente per rettificare la presente crisi economica).

Il secondo esempio proviene da più vicino, ovvero dai fautori del “free banking” come Lawrence White, George Selgin e Roger Garrison. Secondo loro, un aumento (imprevisto) nella domanda di moneta “spinge l'economia sotto il suo potenziale,” (Garrison) e richiede un'iniezione compensativa di spesa monetaria da parte del sistema bancario.

Eccoci di nuovo: “una domanda di moneta in eccesso” (Selgin & White) non ha rendimento positivo o è persino nociva; quindi, è necessario un aiuto. Per i free bankers l'aiuto non è previsto che venga dal governo e dalla sua banca centrale, ma da un sistema di banche a riserva frazionaria in libera concorrenza. Tuttavia, l'idea in questione è la stessa: tenersi i soldi (alcuni o “in eccesso”) è improduttivo e richiede un rimedio. [3]

Non voglio qui impegnarmi in una critica testuale di Keynes o dei “free bankers.” Li ho menzionati solo per chiarire ulteriormente l'idea che voglio attaccare e per mostrare quanto è diffusa – e consequenziale – la sua accettazione all'interno della professione di economia, sia all'interno che all'esterno delle cerchie keynesiane. Diversamente da Hutt, che procede “criticamente” nel suo articolo, ovvero attraverso un esame testuale di vari autori, ed arriva ad un suo opposto punto di vista del rendimento (positivo) dei soldi tenuti in un modo piuttosto indiretto e circostanziale, voglio procedere “apoditticamente”: attraverso una dimostrazione positiva della produttività esclusiva della moneta. [4]

La prima risposta naturale alla tesi che i soldi tenuti o aggiunti ai saldi di cassa sono improduttivi è di controbattere, perché, allora, se tenersi i soldi o aggiungerli ai patrimoni è improduttivo per il benessere umano, la gente lo fa? Se le giacenze monetarie sono effettivamente “buone a niente,” nessuno le terrebbe o accumulerebbe – ma quasi tutti agiscono così in continuazione! E poiché tutta la moneta è sempre tenuta o accumulata da qualcuno – quando “circola,” lascia soltanto una mano per passare in un altra – essa dev'essere continuamente “buona per qualcosa” mentre viene tenuta (il che è sempre).

Per capire cos'è questo “buona per qualcosa” della moneta, è meglio chiedere, quando, in che circostanze, non ci sarebbe domanda di giacenze monetarie? È interessante notare che esiste ampio accordo sulla risposta all'interno della professione di economia. È stato affermato nel modo più lucido da Ludwig von Mises. Non esisterebbe nessuna moneta e nessuna domanda di contanti in condizioni di “generale equilibrio,” o come la chiama Mises, all'interno della costruzione immaginaria di “un'economia che gira uniformemente.” In questa costruzione, ogni incertezza è rimossa dall'azione umana per assunto. Tutti conoscono precisamente i termini, i tempi e i luoghi di ogni azione futura e tutti gli scambi possono di conseguenza essere predisposti e prendere la forma di scambi diretti.

Scrive Mises,
In un sistema senza cambiamento in cui non c'è incertezza alcuna per il futuro, nessuno ha bisogno di tenere i contanti. Ogni individuo conosce precisamente di quale somma di denaro avrà bisogno in qualsiasi data futura. È quindi nella posizione di prestare tutti i fondi che riceve dacché i prestiti saranno resi alla data in cui ne avrà bisogno. [5]
Sulla base di questa fondamentale intuizione, possiamo dichiarare come prima conclusione provvisoria riguardo alla teoria positiva della moneta che la moneta ed i risparmi scomparirebbero con la scomparsa dell'incertezza (mai) e, mutatis mutandis, che l'investimento nei contanti deve essere immaginato come investimento nella certezza o un investimento nella riduzione di ciò che, soggettivamente, è avvertito come un disagio provocato dall'incertezza.

In realtà, al di fuori della costruzione immaginaria di un'economia che gira uniformemente, l'incertezza esiste. I termini, i tempi e i luoghi di tutte le azioni e tutti gli scambi futuri non possono essere previsti perfettamente (con certezza). L'azione è per natura speculativa e soggetta all'errore. Sorprese imprevedibili possono accadere a breve. Ogni volta che delle doppie coincidenze di desideri fra coppie di futuri compratori e venditori sono assenti, per esempio, ovvero quando uno non vuole ciò che l'altro vuole vendere o viceversa, ogni commercio diretto (scambio) diventa impossibile. A fronte di questa sfida di contingenze imprevedibili, l'uomo può giungere a valutare i beni a seconda del loro grado di negoziabilità (piuttosto che per il loro valore d'uso per lui come beni di produzione o di consumo) ed a studiare anche la possibilità di vendere ogni volta che un bene acquistabile è più commerciabile di quello da cedere, così che il suo possesso faciliterebbe direttamente o indirettamente l'aquisizione futura di altri beni e servizi utili. In altre parole, può presentarsi una domanda per i mezzi di scambio, cioè, una domanda per i beni stimati per la loro negoziabilità o rivendibilità.

E dal momento che un bene più facilmente ed ampiamente rivendibile è preferibile al meno facilmente ed ampiamente rivendibile come mezzo di scambio, “ci sarà,” come scrive Mises,
per i meno commerciabili di una serie di beni usati come mezzi di scambio, una tendenza inevitabile ad essere uno per uno rifiutati finché non rimarrà un solo prodotto, che era stato impiegato universalmente come mezzo di scambio; in una parola, la moneta. [6]
Anche se questa breve ricostruzione dell'origine della moneta è ben nota, non è stata prestata sufficiente attenzione al fatto che, essendo il bene più facilmente ed ampiamente vendibile, la moneta è allo stesso tempo il bene più universalmente presente – utile immediatamente – (che è il motivo per cui il tasso di interesse, ovvero, il tasso di sconto dei beni futuri contro i beni presenti, è espresso in termini monetari) e, come tale, l'unico bene adatto per alleviare il disagio avvertito nel presente per l'incertezza. Dato che i soldi possono essere impiegati per la soddisfazione immediata della vasta gamma dei bisogni possibili, essi forniscono al suo proprietario la miglior protezione umanamente possibile contro l'incertezza. Tenendo i soldi, il suo proprietario guadagna la soddisfazione di poter affrontare immediatamente, al loro imprevedibile presentarsi, la vasta gamma delle contingenze future. L'investimento in beni monetari è un investimento contro l'avversione (soggettivamente avvertita) per l'incertezza. Una maggiore quantità di beni monetari porta maggior sollievo dall'avversione per l'incertezza.

Il termine avversione per l'incertezza è qui inteso nel suo senso tecnico, contrapposto all'avversione per il rischio. La distinzione categorica fra incertezza da un lato e rischio dall'altro è stata introdotta nell'economia da Frank H. Knight ed elaborata ulteriormente da Ludwig von Mises con la sua distinzione fra probabilità di caso e probabilità di classe. [7]

I rischi (esempi di probabilità di classe) sono contingenze contro cui è possibile eliminare l'assicurazione, perché le distribuzioni oggettive di probabilità a lungo termine concernenti tutti i risultati possibili sono conosciute e prevedibili. Non conosciamo niente di un risultato specifico, ma conosciamo tutto dell'intera classe degli eventi, e siamo certi del futuro. Finché l'uomo affronta un futuro rischioso, quindi, non ha bisogno di tenere i contanti. Per soddisfare il suo desiderio di essere protetto dal rischio, può comprare o produrre un'assicurazione. La somma di denaro che spende per l'assicurazione è un'indicazione della grandezza della sua avversione al rischio. I premi di assicurazione sono soldi spesi, non tenuti e sono come tali investiti nella struttura fisica della produzione di beni di consumo e produzione. Il pagamento dell'assicurazione riflette la certezza che un uomo soggettivamente sente a proposito di (prevedibili) contingenze future (rischi).

In distinto contrasto, finché l'uomo affronta l'incertezza è, abbastanza letteralmente, non sicuro riguardo alle contingenze future, ovvero, a proposito di cosa potrebbe volere o aver bisogno e quando. Per essere protetto dalle contingenze imprevedibili in momenti imprevedibili, non può investire nei beni di produzione (come nel caso dell'assicurazione contro i rischi); perché un tale investimento rifletterebbe la sua certezza riguardo a particolari bisogni futuri. Soltanto dei beni presenti, immediatamente utili possono proteggere dalle contingenze imprevedibili (incertezza). Né un uomo vuole investire nei beni di consumo per proteggersi dall'incertezza. Perché anche un investimento nei beni di consumo è un'espressione della certezza riguardo a specifici desideri momentanei o immediatamente incombenti. Soltanto i soldi, a causa della loro istantanea e non specifica vasta vendibilità, possono proteggerlo dall'incertezza. Quindi, proprio come i premi di assicurazione sono il prezzo pagato per proteggersi contro l'avversione per il rischio, allo stesso modo le giacenze monetarie sono il prezzo pagato per proteggersi contro l'avversione per l'incertezza.

Nella misura in cui un uomo si sente sicuro riguardo ai suoi bisogni futuri, egli investirà nei beni di produzione o di consumo. Investire nei beni monetari è investire né in beni di consumo né nei beni di produzione. Diversamente dai beni di consumo e di produzione, che vengono consumati con il consumo o con la produzione, i soldi non vengono consumati con il loro uso come mezzo di scambio né sono trasformati in un altro prodotto. Se investo in beni monetari, è perché sono incerto circa i miei bisogni presenti e futuri e credo che una scorta del bene più facilmente ed ampiamente vendibile a disposizione mi prepari nel miglior modo possibile per andare incontro ai miei bisogni al momento ancora sconosciuti di tempi al momento ancora sconosciuti.

Se una persona allora accumula contanti nel suo patrimonio, lo fa in quanto affronta una situazione di aumentata incertezza (soggettivamente percepita) per quanto riguarda il suo futuro. L'aggiunta al suo patrimonio rappresenta un investimento in certezza percepita nel presente contro un futuro percepito come meno sicuro. Per aggiungere al suo patrimonio, una persona deve limitare i suoi acquisti o aumentare le sue vendite di beni non monetari (beni di consumo o di produzione). Nell'uno o nell'altro caso, il risultato è un calo immediato nei prezzi di determinati beni non monetari. Come risultato della limitazione dei suoi acquisti di x, y, o z, il prezzo in denaro di x, y, o z si abbasserà (rispetto a quel che sarebbe stato altrimenti) e similmente, con l'aumento delle sue vendite di a, b, o c, i prezzi di questi beni cadranno. L'attore così realizza esattamente ed immediatamente ciò che desidera. Dispone di una maggiore liquidità (nominale e reale) ed è meglio preparato per un futuro sempre più incerto. L'utilità marginale dei contanti aggiunti è superiore (si colloca al di sopra) all'utilità marginale dei beni non monetari venduti o non acquistati. Con più contanti a disposizione e meno beni non monetari, si considera in migliori condizioni, altrimenti non avrebbe ridistribuito i suoi beni in questo modo. C'è un maggior investimento nella rimozione dell'incertezza percepita e c'è un minor investimento nei bisogni, presenti o futuri, considerati come certi.

La situazione non cambia se c'è un aumento generalizzato nella domanda di moneta, ovvero se tutte o la maggior parte delle persone cercano di aumentare le proprie giacenze monetarie, in risposta ad un'incertezza intensificata. Essendo la quantità totale di moneta data, l'entità media delle giacenze monetarie non può aumentare, naturalmente. Né viene influenzata da un aumento generale nella domanda di moneta la quantità totale di beni di consumo e di produzione che compongono la struttura fisica della produzione. Rimane invariata. Nel tentativo di aumentare generalmente l'entità delle loro giacenze monetarie, tuttavia, i prezzi in moneta dei beni non monetari saranno spinti in basso e il potere d'acquisto per unità di moneta aumenterà analogamente. Quindi, la domanda (aumentata) e la disponibilità (data) di moneta sono nuovamente in equilibrio, ma ad un più alto potere d'acquisto per unità di moneta ed a prezzi più bassi dei beni non monetari. In altre parole anche se la disponibilità nominale non può aumentare come conseguenza di un aumento generale nella domanda di moneta, il valore reale dei beni monetari sì; ed è questo aumento nel valore dei beni monetari reali a determinare precisamente ed immediatamente l'effetto voluto: essere meglio preparati per un futuro ritenuto come meno sicuro.

Nessuno si cura del numero nominale di unità di moneta in suo possesso. Piuttosto, la gente vuole possedere contanti con una quantità definita di potere d'acquisto a disposizione. Se il potere d'acquisto per unità di moneta aumenta come risultato di un'aumentata domanda di giacenze monetarie, ogni unità di moneta confrontata con un ordine di prezzi generalmente più bassi per i beni non monetari può servire meglio nel permettere al suo proprietario di proteggersi contro l'incertezza.

Dovrebbe essere sufficiente come mio tentativo di fornire una dimostrazione positiva del rendimento unico delle giacenze monetarie come “produttrici di sicurezza” in un mondo incerto. Mi sembra adeguato aggiungere soltanto un breve commento supplementare riguardo l'attuale e senza precedenti grave crisi economica e le conseguenze che le nostre considerazioni teoriche implicano per la sua soluzione.

Non dirò niente qui sulla causa della crisi attuale, salvo che la considero un'altra, spettacolare dimostrazione della cosiddetta teoria del ciclo economico austriaca, o di “Mises-Hayek.” In ogni caso, la crisi ha condotto a maggiore incertezza. La gente vuole più sicurezza di fronte ad un futuro considerato molto meno sicuro di prima. Di conseguenza, la loro domanda di contanti aumenta. Con la quantità di moneta data, la maggiore domanda di moneta può essere soddisfatta soltanto spingendo in basso i prezzi dei beni non monetari. Di conseguenza, con il calo del “livello” generale dei prezzi, il potere d'acquisto per unità di moneta aumenta analogamente. Ogni unità di moneta ora produce più sicurezza ed il livello voluto di protezione dall'incertezza è ristabilito. La crisi è finita.

La soluzione alla crisi suggerita invece dalla maggior parte degli economisti e degli esperti ed adottata ufficialmente dai governi di tutto il mondo è del tutto diversa. È motivata dalla dottrina qui criticata e fondamentalmente errata secondo la quale la moneta tenuta o aggiunta ai patrimoni è moneta sottratta improduttivamente dalla produzione e dal consumo. Aggiungere alle giacenze monetarie come la gente vuole fare è interpretato così, scorrettamente, come una diminuzione del benessere umano. Di conseguenza, vengono ora intrapresi degli sforzi enormi per aumentare la quantità di spesa. Ma questo si pone come ostacolo davanti ai bisogni e ai desideri del grande pubblico: per proteggersi meglio dall'incertezza che percepisce essere maggiore, i prezzi devono scendere ed il potere d'acquisto della moneta deve aumentare. Tuttavia con un afflusso di moneta supplementare e di recente creazione, i prezzi saranno più alti ed il potere d'acquisto per unità di moneta, al contrario, più basso. Quindi, come risultato della politica monetaria corrente, il ripristino del livello desiderato di protezione dall'incertezza sarà ritardato e la crisi prolungata.
___________________________

Note

[1] William H. Hutt, “The Yield from Money Held,” in: Freedom and Free Enterprise: Essays in Honor of Ludwig von Mises, ed. M. Sennholz, Chicago: Van Nostrand, 1956, pp. 196-216.

[2] John Maynard Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, UTET, 2006.

[3] Roger Garrison,“Central Banking, Free Banking, and Financial Crises,” Review of Austrian Economics 9, no.2, 1996, p. 117; George Selgin & Lawrence White, “In Defense of Fiduciary Media,” Review of Austrian Economics 9, no. 2, 1996, p. 100/01.

[4] Per una critica dettagliata di Keynes vedi Hans-Hermann Hoppe, “Theory of Employment, Money, Interest, and the Capitalist Process: The Misesian Case Against Keynes” ; per una critica dettagliata della dottrina del free banking vedi idem, “How is Fiat Money Possible?” Review of Austrian Economics 7, no. 2, 1994 e idem, “Against Fiduciary Media,” Quarterly Journal of Austrian Economics 1, no.1, 1998.
Questi articoli sono raccolti in The Economics and Ethics of Private Property di Hans-Hermann Hoppe, 2nd Edition, Auburn, Al.: Ludwig von Mises Institute, 2006.

[5] Ludwig von Mises, Human Action, Chicago: Regnery, 1966, P. 249.

[6] Ludwig von Mises, Theory of Money and Credit, Irvington, N.Y.: Foundation for Economic Education, 1971, pp. 32–33.

[7] Frank H. Knight, Risk, Uncertainty and Profit, Chicago: University of Chicago Press, 1971; Ludwig von Mises, Azione umana, cap. VI.

Vedi inoltre Hans-Hermann Hoppe, “The Limits of Numerical Probability,” Quarterly Journal of Austrian Economics, 10. no. 1, 2007, e idem, “On Certainty and Uncertainty,” Review of Austrian Economics, 10, no.1, 1997.