Wednesday, March 24, 2010

La storia, romanzo progettato per unirci

Leggendo questo estratto del nuovo libro di Jeff Riggenbach Why American History Is Not What They Say: An Introduction to Revisionism non ho potuto fare a meno di pensare a cosa scriveranno gli storici – se mai ci saranno – del periodo storico che stiamo vivendo: armati in pratica solo di ciò che potranno recuperare da una mole mai così vasta di produzione giornalistica, si troveranno a dover descrivere il catastrofico crollo della nostra civiltà. Come la interpreteranno?

La risposta di Riggenbach, e quella del buonsenso, potrebbe essere questa: nel modo che la situazione in cui si troveranno a vivere suggerirà loro, per convenienza o secondo le loro convinzioni. Perché alla fine, la storia, tutta la storia, è solo un grande romanzo.

(Già pubblicato in due parti).
___________________________

Di Jeff Riggenbach


Oggi, la storia va considerata, se non come una delle scienze sociali, almeno come una disciplina indipendente che si occupa di fatti, non di fantasie; di conoscenza, non di intrattenimento. Ma non è sempre stato così. Harry Elmer Barnes racconta che prima del XVIII secolo, “o non si faceva lo sforzo di citare le fonti oppure le citazioni erano disperatamente confuse; non c'era una pratica generale di stabilire la genuinità di un testo; non si esitava granché nell'alterare il testo di un documento per migliorare lo stile.” [1] Ed anche dopo che lo stesso XVIII secolo aveva cominciato a sbiadire nella storia, i nuovi standard che Barnes descrive non erano ancora diventati davvero universali. Al contrario: “Prima della Rivoluzione Francese,” scrive Hayden White,
la storiografia era considerata convenzionalmente come un arte letteraria… il XVIII secolo abbonda di opere che distinguono fra lo studio della storia da un lato e la scrittura della storia dall'altro. La scrittura era un esercizio letterario, specificamente retorico, ed il prodotto di questo esercizio doveva essere valutato tanto sui principi letterari come su quelli scientifici. [2]
In realtà, fino al tardo XIX secolo, la maggior parte degli storici non si consideravano né sociologi (un concetto che non esisteva neppure prima del XIX secolo) né studiosi umanistici, ma piuttosto come uomini letterari, uomini delle lettere. Le storie che raccontavano erano vere, naturalmente, ma ciononostante raccontavano delle storie, proprio come fossero romanzieri, ed il loro lavoro, a loro modo di vedere, era di raccontare le loro storie vividamente e poeticamente come tutti i romanzieri. Peter Novick nota che
George Bancroft, William Lothrop Motley, William H. Prescott e Francis Parkman… ciascuno di essi, almeno in una delle loro opere principali, ha impiegato l'organizzazione della rappresentazione teatrale, con un prologo, cinque atti e un epilogo. Ssir Walter Scott fu, con largo margine, l'autore più popolare ed imitato all'inizio del XIX secolo negli Stati Uniti, e lo stile ornato degli storici “letterari” fornì una chiara prova della sua influenza. [3]
E la maggior parte degli storici più rappresentativi del XIX secolo non solo si vedevano come letterati, la maggior parte di loro si consideravano in particolar modo fornitori di un genere importante di letteratura ispiratrice. Come spiega Novick,
[i] “gentleman amateurs” non scrivevano per mantenere viva la fiamma, o per obbligo professionale verso i colleghi, ma perché avevano un messaggio urgente da far arrivare al pubblico dei lettori in genere. “Se dieci persone nel mondo odiano un po' di più il dispotismo ed amano la libertà civile e religiosa un po' meglio a causa di ciò che ho scritto, sarò soddisfatto,” scrisse Motley. [4]
Più nel dettaglio, la maggior parte degli storici americani del XIX secolo erano convinti che, come scrive Peter Charles Hoffer,
celebrando la nostra storia potremmo guarire le nostre differenze politiche. Guardate i fondatori, argomentavano queste grancasse storiche; elogiateli, esaltateli e onorateli. Ignorate i loro difetti ed i loro fallimenti, poiché il messaggio dev'essere un incoraggiamento che tutti possano sottoscrivere. Il più grande dei fondatori, George Washington, è diventato alle mani del libraio ambulante e predicatore Mason Weems un paradigma immacolato di virtù, i cui “grandi talenti, guidati e custoditi costantemente dalla religione, egli mise al servizio del suo paese.” [5]
Naturalmente, per trasformare George Washington “in un paradigma immacolato di virtù,” Weems dovette concedersi un pizzico di licenza letteraria, inventandosi di sana pianta persino uno dei suoi aneddoti più famosi, quello del giovane Washington e del ciliegio.

Ma Weems era lontano dall'essere il solo ad usare simili tecniche. Come spiega Hoffer, “contro gli ampi vantaggi percepiti in questo metodo, quale lettore avrebbe potuto muovere delle obiezioni alla riorganizzazione degli storici del linguaggio dei loro soggetti, o al loro uso selettivo dei fatti?” Hoffer suggerisce di prestare attenzione “ad un'edizione del 1835 delle lettere di Washington, pubblicata dal reverendo Jared Sparks,” nel quale il redattore “ha alterato regolarmente le parole di Washington” e “a volte ha incollato un pezzo di un documento in un documento del tutto diverso.” Tuttavia, per quanto i concerneva i lettori ed altri storici, “[n]on sembrava essere importante …. Dopo tutto, il solo scopo della pubblicazione delle lettere era l'istruzione morale, ed i ministri come Sparks avevano una lunga tradizione nel tagliare e incollare le Sacre Scritture nei loro sermoni.” [6]

Hoffer suggerisce inoltre di dare un'occhiata da vicino alla “monumentale Storia degli Stati Uniti in dieci volumi di George Bancroft,” l'ultimo volume della quale apparve nel 1874. La Storia di Bancroft doveva diventare la fondamentale opera sulla storia americana per generazioni. … Quando morì nel 1891, fu il più onorato dei nostri storici, e le sue opere erano lette diffusamente.” Bancroft “credeva che il suo lavoro fosse di scrivere una cronaca che rendesse i suoi lettori fieri della storia del loro paese,” dice Hoffer,
[e] quando serviva per i suoi scopi didattici, inventava. Lui “si sentiva libero [come Bancroft stesso spiegò nell'introduzione alla sua grande opera] di cambiare i tempi o gli atteggiamenti, di trasporre parti di citazioni, di semplificare la lingua e di interpretare liberamente.” Se lo scopo della storia era di raccontare storie che insegnassero delle lezioni, una tale “mescolanza” difficilmente avrebbe potuto essere discutibile, e per i critici contemporanei non lo era. [7]
Hoffer nota che Bancroft era inoltre trascurato nell'accreditare le sue fonti. Per esempio, “non faceva vere distinzioni fra le fonti primarie e le fonti secondarie. Quando una fonte secondaria citava un passaggio da una fonte primaria, Bancroft si riteneva perfettamente libero di riutilizzare il linguaggio della fonte secondaria nel suo proprio resoconto senza identificarlo come tale. Citava le pagine di fonti secondarie, ma copiava o parafrasava con cura piuttosto che citare.” Dopo tutto, un'opera di storia era un'opera di letteratura, giusto? Tutto quello che importava realmente era se il passaggio in questione si adattava allo scorrere dello stile, se si inseriva artisticamente nell'opera – non se era accompagnato da qualche tipo di nota a piè di pagina!

Si arrivò alla fine del XIX secolo prima che la vocazione dello storico diventasse professionale e accademica a tal punto che una maggioranza di professionisti nel campo giungesse a considerare la loro disciplina così come è ora per noi naturale: lo storico come cercatore spassionato della verità, uno studioso, molto più simile ad un antropologo o ad un sociologo che ad un romanziere o ad un commediografo. E ancora, c'erano delle resistenze. La lunga tradizione delle opere storiche scritte da romanzieri e poeti ed offerti francamente, non come studi ma come belle lettere, fu particolarmente dura a morire. Nel decennio del 1890, proprio mentre il nuovo paradigma dello scienziato sociale stava infine per dominare la professione storica, Edgar Saltus, uno scrittore al tempo molto popolare e di successo e oggi del tutto dimenticato, stava dando i tocchi finali al suo libro più famoso e più volte ristampato, Imperial Purple (1892), un esemplare di ciò che Claire Sprague chiama “un genere oggi quasi inesistente – la storia vestita del variopinto impressionismo dei saggi da rivista dell'ultimo [IX] secolo.” [8] Prima della sua morte nel 1921, Saltus inoltre fece per la dinastia dei Romanov di Russia ciò che aveva fatto per i Cesari della Roma imperiale in Imperial Purple. The Imperial Orgy fu pubblicato da Boni e Liveright nel 1920.

Alcuni anni più tardi, il famoso poeta Carl Sandburg avrebbe cominciato a pubblicare un'opera ancora più ambiziosa, anche se abbastanza povera di note a piè di pagina o di bibliografia quanto lo erano state le opere del Saltus: una biografia in sei volumi di Abraham Lincoln. “I due volumi di The Prairie Years furono l'evento editoriale del 1926,” riporta James Hurt, “ed i quattro volumi di The War Years ebbero lo stesso successo nel 1939.” [9] Ancora nel 1969, Richard Cobb, che John Tosh descrive come “uno dei principali storici della Rivoluzione Francese,” poteva scrivere dello storico che “il suo scopo principale è far rivivere i morti.” E, come 'l'impresario di pompe funebri americano,’ può concedersi alcuni trucchi del mestiere: un tocco di rossetto qui, un colpo di matita là, un po' di ovatta nelle guance, per rendere l'operazione più convincente.” [10] Soltanto cinque anni più tardi, nel 1974, il tardo Shelby Foote, che si era fatto la sua reputazione inizialmente come romanziere, pubblicò l'ultimo volume di quella che il New York Times definì la sua “storia militare di 2.934 pagine, tre volumi, un milione e mezzo di parole, The Civil War: A Narrative,” un'opera caratterizzata da una “ricerca puntigliosa, ma spudoratamente priva di note.” Diventò immensamente popolare, guadagnando “considerevolmente di più in diritti d'autore di quanto uno qualsiasi dei suoi romanzi fosse riuscito a fare,” e facendogli conquistare un invito ad apparire come consulente ed esperto nel documentario di Ken Burns sulla guerra, un lavoro che ha trasformato Foote in “una star da prima serata.” [11]

È effettivamente difficile ignorare le molte somiglianze fra il compito dello storico e quello del romanziere. Come scrive Hayden White, “[v]isti semplicemente come manufatti verbali la storia ed i romanzi sono indistinguibili l'uno dall'altro.” Inoltre,
lo scopo dell'autore di un romanzo deve essere lo stesso di quello dell'autore di una storia. Entrambi desiderano fornire un'immagine verbale della “realtà.” Il romanziere può presentare indirettamente la sua idea di questa realtà, ovvero, mediante tecniche figurate, piuttosto che direttamente, il che vuol dire, registrando una serie di proposizioni che si suppone corrispondano punto per punto ad un certo dominio extra-testuale dell'evento o dell'accaduto, come lo storico sostiene di fare. Ma l'immagine della realtà che il romanziere così costruisce è destinata a corrispondere nel suo profilo generale ad un certo dominio dell'esperienza umana che è meno “reale” di quello citato dallo storico. [12]
Per raggiungere questo scopo comune di “fornire un'immagine verbale della “realtà,” “sia gli storici che i romanzieri raccontano delle storie. “L'ultimo R. G. Collingwood insisteva,” ci ricorda White,
che lo storico era soprattutto un novelliere e suggeriva che la sensibilità storica si manifestava nella capacità di fare una storia plausibile da una congerie di “fatti” che, nella loro forma non trattata, non avevano significato alcuno. Nei loro sforzi per dare un senso all'annotazione storica, che è frammentaria e sempre incompleta, gli storici devono usare quella che Collingwood ha chiamato “immaginazione costruttiva,” che dice allo storico – come dice al bravo investigatore – che cosa “dev'essere successo” date le prove disponibili….
“Collingwood suggeriva,” secondo White, “che gli storici affrontassero le loro prove armati di un senso delle forme possibili che i diversi tipi riconoscibili di situazioni umane possono prendere. Ha chiamato questo senso il naso per la ‘storia’ contenuta nella prova o per la ‘vera’ storia sepolta o nascosta dietro la storia ‘apparente’.” I giornalisti [13], questi storici frettolosi che forniscono ciò che il leggendario editore Phillip Graham del Washington Post ha notoriamente chiamato “la prima brutta copia di massima… della storia„ (la quale brutta copia di massima diventa non raramente la versione finale), fanno una distinzione molto simile. O avete “naso per le notizie,” dicono – un buon “senso della notizia,” un buon “giudizio della notizia” – o non l'avete. Se l'avete, potete vedere la storia contenuta nelle prove, la vera storia sepolta o nascosta dietro la storia apparente (o, a volte, quella ufficiale).

Il punto importante qui è che per descrivere un qualsiasi evento storico, sia uno avvenuto ieri o uno avvenuto un secolo fa, per raccontare una storia è inevitabile un atto di immaginazione. Come White tratteggia il problema,
la storiografia tradizionale è stata caratterizzata principalmente dalla credenza che la storia in sé consista di una congerie di storie vissute, individuali e collettive, e che il compito principale degli storici sia di scoprire queste storie e riportarle in una narrativa, la cui verità risederebbe nella corrispondenza della storia raccontata con la storia vissuta da persone reali nel passato. [14]
Tuttavia, “gli eventi reali non si offrono come storie….” [15] In realtà,
la nozione che delle sequenze di eventi reali possiedano gli attributi convenzionali delle storie che raccontiamo su eventi immaginari può avere origine soltanto nei desideri, nei sogni ad occhi aperti, nelle fantasticherie. Davvero il mondo si rappresenta alla percezione sotto forma di storie ben fatte, con soggetti centrali, con inizio, centro e fine adeguati e una coerenza che ci permette di vedere “la fine” in ogni inizio? O si presenta… come mera sequenza senza inizio né fine o come sequenze di inizi che terminano soltanto e mai si concludono? [16]
In breve, “le storie non sono vissute; non c'è una cosa come una storia reale. Le storie sono raccontate o scritte, non trovate. E per quanto riguarda la nozione di una storia vera, questa è virtualmente una contraddizione in termini. Tutte le storie sono romanzi. Il che significa, naturalmente, che possono essere vere soltanto in un senso metaforico e nel senso in cui una figura retorica può essere vera.” [17]

Una metafora è una bugia che contiene la verità – o, ad ogni modo, quella che il creatore della metafora considera verità. “Gli uomini sono maiali.” “Il mondo è un ghetto.” “Gli anni sono raffiche di vento, e noi siamo le foglie che essi portano via.” [18] Prese alla lettera, tutte queste dichiarazioni sono false. Sono falsità, bugie. Prese in senso figurato, tuttavia, ciascuna di esse trasporta un'indiscutibile verità sull'oggetto in questione. Un romanzo – una lunga ed elaborata bugia, che tratta di eventi nelle vite di esseri umani del tutto immaginari – è una metafora per la vita umana nel mondo come la conosciamo. In questo senso, ogni opera narrativa è filosofica, perché ogni opera narrativa porta con sé una dichiarazione o un giudizio almeno impliciti sulla condizione umana.

Ciò non significa che ogni scrittore di romanzi sia anche un filosofo o anche solo filosofico per temperamento. Considerate, riguardo a questa questione, la testimonianza di tre scrittori di romanzi che sono anche, in un certo senso, dei filosofi: Jean Paul Sartre, William H. Gass e Ayn Rand. [19] Secondo Gass, “il romanzo, nel come viene fatto, è pura filosofia,” e “il romanziere ed il filosofo sono compagni in un'impresa comune, benché la affrontino in modi diversi.” [20] “lo scopo estetico di ogni romanzo,” scrive, “è la creazione di un mondo verbale…, spesso complicato e rigoroso come tutta la matematica, spesso semplice e non esigente come il giocattolo di un bambino, dalla cui natura, come dal nostro proprio mondo, può essere arguito un sistema filosofico….” [21] Ancora, “il mondo che il romanziere costruisce è sempre un modello metaforico dei nostro.” [22] Ciononostante, “[l]a filosofia che la maggior parte degli scrittori comprendono nel loro lavoro… è solitamente presa incoscientemente dalla tradizione con la quale lo scrittore è alleato.” In alternativa, “[e]gli potrebbe aver rappresentato, proprio nel modo confuso in cui è esistito, il mondo che la sua generazione ha visto ed in cui ha creduto di vivere….” [23]

La Rand concorda. “L'arte di ogni dato periodo o la cultura,” scrive, “è uno specchio fedele della filosofia di quella cultura.” Questo perché “[u]na qualche specie di significato filosofico…, una qualche
implicita idea della vita, è un elemento necessario di un'opera d'arte.” L'arte è “la voce della filosofia.” [24] Effettivamente, in un certo senso, l'arte è la lingua che impieghiamo per esprimere idee filosofiche.
Proprio come la lingua converte le astrazioni nell'equivalente psico-epistemologico delle idee concrete, in un numero trattabile di unità specifiche – così l'arte converte le astrazioni metafisiche dell'uomo nell'equivalente delle idee concrete, in entità specifiche aperte alla percezione diretta dell'uomo. L'affermazione “l'arte è una lingua universale” non è una metafora vuota, ma è letteralmente vera….
Le idee filosofiche che sono “nell'aria,” prese per certe, durante il corso della vita di uno scrittore di romanzi non hanno tuttavia bisogno di essere, non possono essere, l'unica fonte di idee filosofiche che penetrano nel romanzo di quello scrittore di romanzi. Un'altra fonte, una da cui hanno attinto molti romanzieri, è la religione, che la Rand chiama “la forma primitiva della filosofia.” [25] Un'altra ancora, da cui attinge inevitabilmente ogni scrittore di romanzi, è il “senso della vita” individuale dello scrittore.

“Un senso della vita,” scrisse la Rand nel 1966, “è un equivalente pre-concettuale della metafisica, una valutazione emozionale e subcoscientemente integrata dell'uomo e dell'esistenza.”
Molto prima di essere abbastanza vecchio per afferrare un concetto come la metafisica, l'uomo fa delle scelte, forma giudizi di valore, sperimenta emozioni ed acquista una certa implicita idea della vita. Ogni scelta e giudizio di valore implica una certa valutazione di sé stesso e del mondo intorno a lui – in particolare, della sua capacità di affrontare il mondo. Può trarre delle conclusioni coscienti, che possono essere vere o false; o può rimanere mentalmente passivo e solo reagire agli eventi (cioè, soltanto sentire). Quale che sia il caso, il suo meccanismo subcosciente riassume le sue attività psicologiche, integrando le sue conclusioni, reazioni o evasioni in una somma emozionale che costituisce un modello abituale e diventa la sua risposta automatica al mondo intorno a lui. Ciò che cominciò come serie di singole, discrete conclusioni (o evasioni) sui propri particolari problemi, diventa un sentimento generalizzato sull'esistenza, un'implicita metafisica con l'irresistibile potere motivazionale di un'emozione costante e fondamentale – un'emozione che è parte di tutte le sue altre emozioni ed è alla base di tutte le sue esperienze. Questo è un senso della vita. [26]
Secondo la Rand, “[i]l concetto chiave, nella formazione del senso della vita, è il termine “importante,” “ed è cruciale che comprendiamo, dice, che
“[i]mportante” – nel suo significato essenziale, come distinto dai suoi usi più limitati e più superficiali – è un termine metafisico. Appartiene a quella funzione della metafisica che serve da ponte fra la metafisica e l'etica: ad una visione fondamentale della natura dell'uomo. Quella visione comprende le risposte a domande quali se l'universo sia conoscibile o no, se l'uomo abbia il potere di scegliere o no, se possa realizzare i suoi obiettivi nella vita oppure no. Le risposte a tali domande sono “giudizi di valore metafisici,” poiché costituiscono la base dell'etica.
Alla fine, “[s]ono soltanto quei valori che considera o giunge a considerare come “importanti,” i quali rappresentano la sua implicita visione della realtà, che rimangono nel subconscio di un uomo e formano il suo senso della vita.” [27]

E cosa ha a che fare tutto ciò con scrittura di un romanzo? Tutto, dato che, come spiega la Rand, “[l]e astrazioni
estetiche si formano secondo il criterio: cos'è importante?” Un altro modo per dirlo è che “[u]n'artista… seleziona quegli aspetti dell'esistenza che considera come metafisicamente significativi – ed isolandoli e sollecitandoli, omettendo l'insignificante e l'accidentale, presenta la sua idea dell'esistenza.” [28] Così, specialmente fra quegli scrittori di romanzi che sono non filosofici, ma in qualche misura fra tutti gli scrittori di romanzi, “[è] il senso della vita dell'artista a controllare ed integrare il suo lavoro, dirigendone le innumerevoli scelte che deve operare, dalla scelta del soggetto ai più sottili particolari dello stile.” [29] Di conseguenza, la Rand definisce l'arte come “una ri-creazione selettiva della realtà secondo i giudizi di valore metafisici dell'artista.” [30]

Inutile a dirsi, allora, pubblicando un romanzo, un romanziere espone i suoi giudizi di valore metafisici, il suo senso della vita, affinché tutti vedano. Come dice la Rand, “niente è potente quanto l'arte nell'esporre l'essenza del carattere dell'uomo. Un artista rivela la sua anima nuda nel suo lavoro….” [31] Sartre osservò lo stesso fenomeno. Gli artisti letterari, scrisse, si notano per “l'espressione involontaria delle loro anima. Dico involontaria perché i morti, da Montaigne a Rimbaud, si sono dipinti completamente, ma senza volerlo – è qualcosa che hanno semplicemente messo in gioco.” [32] Non avrebbero potuto fare diversamente, tuttavia, nota Sartre, perché
[s]e fisso su una tela o in un testo un certo aspetto che ho scoperto dei campi o del mare o dello sguardo sul volto di qualcuno, sono cosciente di averli prodotti condensando i rapporti, introducendo un ordine dove non ce n'era, imponendo l'unità della mente sulla diversità delle cose. Cioè mi ritengo essenzialmente in relazione con la mia creazione. [33]
Perché quando si arriva “al punto di vista unico da cui l'autore può presentare il mondo,” è sempre e dappertutto vero che “se la nostra spinta creativa viene dalle profondità stesse del nostro cuore, allora non troviamo mai altro che noi stessi nel nostro lavoro.” [34]

Ma naturalmente, tutto questo è vero pure per gli storici. La maggior parte degli storici non è più orientata filosoficamente della maggior parte degli scrittori di romanzi. Al contrario, sono notoriamente “scettici dell'astrazione,” come John Gray ha detto non molto tempo fa su
New Statesman. [35] Tuttavia ogni opera che producono ha implicazioni filosofiche, fornisce supporto per varie idee generali – idee sulla natura del governo, per esempio, e sull'utilità della guerra, e sul modo in cui funzionano le economie nazionali. Da dove vengono queste idee, nelle opere di storici non filosofici attenti alle “sciatte generalizzazioni” (come le chiama Gray)? Alcune di loro sono ereditate, per così dire, dai precedenti praticanti del particolare campo di specializzazione dello storico. Alcuni sono assorbiti inconciamente dalla cultura in cui lo storico cresce e matura. Altri ancora sono forniti da un senso della vita. Perché ogni storico ha un senso della vita, proprio come ogni scrittore di romanzi – un insieme di “giudizi di valore metafisici” costruiti subcoscientemente in anni di vita fino a fornire una specie di “risposta automatica al mondo” e una risposta automatica a domande quali “se l'universo sia conoscibile o no, se l'uomo abbia il potere di scegliere o no, se possa realizzare i suoi obiettivi nella vita o no.” Il modo in cui ciascun storico ha dato risposta interiormente a tali domande eserciterà un'influenza considerevole su ciò che quello storico considererà come una visione realistica del governo, della guerra e dell'economia – e, quindi, su come quello storico tratterà questi soggetti nel suo lavoro.

Non meraviglia, quindi, che Roy A. Childs Jr., sempre un assiduo allievo di Ayn Rand, abbia offerto la seguente definizione di storia nel suo autorevole saggio, “Big Business and the Rise of American Statism”: “La storia è una ri-creazione selettiva degli eventi del passato, in accordo con le premesse dello storico riguardo ciò che è importante e con il suo giudizio riguardo alla natura della causalità nell'azione umana.” [36] Childs ha visto chiaramente che lo storico procede in larga misura come lo scrittore di romanzi ed ottiene simili risultati. Né è stato il solo a farlo. John Tosh scrive che “[i]n molti casi le fonti non affrontano affatto direttamente le questioni centrali della spiegazione storica. … Le questioni di spiegazione storica non possono, quindi, essere risolte solamente con il riferimento alle prove. Gli storici sono anche guidati… dalla loro lettura della natura umana….” [37] Il leggendario economista e teorico sociale Ludwig von Mises nota che ogni testo storico “è necessariamente condizionato dalla visione del mondo dello storico” e sottolinea l'importanza di ciò che chiama
“la comprensione” nel trovare un senso nelle prove storiche.
Il vero problema dello storico è sempre di interpretare le cose come sono accadute. Ma non può risolvere questo problema solo sulla base dei teoremi forniti da tutte le altre scienze. Rimane sempre sul fondo di ciascuno dei suoi problemi qualcosa che resiste all'analisi permessa da questi insegnamenti delle altre scienze. Sono queste caratteristiche diverse e uniche di ogni evento che… lo storico può capire… perché è egli stesso un essere umano. [38]
Più recentemente, lo storico John Lewis Gaddis ha proposto che ogni storico si avvicini al suo soggetto con determinate premesse, basati sull'esperienza personale, su “come accadono le cose” nel mondo – premesse su “com'è il mondo,” [39] su come funziona il mondo. “Trovare la differenza fra come le cose avvengono e come le cose sono avvenute,” scrive Gaddis, “è qualcosa di più che cambiare semplicemente il tempo di un verbo. È una parte importante di ciò che è coinvolto nel raggiungimento di una minore distanza fra la rappresentazione e la realtà.” [40]

Ma se l'impresa storica può essere difficile da distinguere dall'impresa romanzata (specialmente alla luce del concetto, introdotto circa quattro decenni fa da Truman Capote, del “romanzo non di finzione”), cosa implica questo per il cosiddetto “romanzo storico”? C'è un qualsiasi motivo per cui un lettore dovrebbe disporre maggiore fiducia nel lavoro di uno storico che nel lavoro di un romanziere storico? La risposta è che tutto dipende dallo storico del quale stiamo parlando, dal romanziere del quale stiamo parlando e del genere di romanzo storico di cui stiamo parlando.
___________________________

Note

[1] Harry Elmer Barnes, A History of Historical Writing (Norman, OK: University of Oklahoma Press, 1938), p. 241.
[2] Hayden White, Tropics of Discourse: Essays in Cultural Criticism (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1978), p. 123.
[3] Peter Novick, That Noble Dream: The "Objectivity Question" and the American Historical Profession (Cambridge, UK: Cambridge University Press, 1988), pp. 44–45.
[4] Ibid., p. 45.
[5] Peter Charles Hoffer, Past Imperfect: Facts, Fictions, Fraud — American History from Bancroft and Parkman to Ambrose, Bellesisles, Ellis, and Goodwin (New York: Public Affairs, 2004), pp. 18-19.
[6] Ibid., p. 19.
[7] Ibid., pp. 21-22.
[8] Claire Sprague, Edgar Saltus (New York: Twayne, 1968), p. 72.
[9] James Hurt, “Sandburg's Lincoln Within History.” Journal of the Abraham Lincoln Association. Vol. 20, No. 1 (Winter 1999), p. 55.
[10] John Tosh, The Pursuit of History: Aims, Methods and New Directions in the Study of Modern History (London: Longman, 1991), pp. 23–24.
[11] See Douglas Martin, “Shelby Foote, Historian and Novelist, Dies at 88.” The New York Times 29 June 2005.
[12] White, op. cit., p. 122.
[13] Ibid., pp. 83-84.

[14] Hayden White,
The Content of the Form: Narrative Discourse and Historical Representation (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1987), pp. ix — x.
[15] Ibid., p. 4.
[16] Ibid., p. 24.
[17] Hayden White,
Figural Realism: Studies in the Mimesis Effect (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1999), p. 9.
[18] L'ultimo dei miei tre esempi di metafora è attribuito al poeta, romanziere e commediografo francese Philippe Auguste Mathias de Villiers de l'Isle-Adam (1838-1889). Il secondo esempio è tratto dal titolo di una canzone popolare di successo del 1972, scritto ed eseguito dalla rhythm and blues band War.
[19] Sartre pubblicò opere di filosofia tecnica (
L'essere e il nulla), dei romanzi (La nausea) e di teatro (A porte chiuse). La Rand ha fatto lo stesso (Introduzione all'epistemologia oggettivista, La rivolta di Atlante, The Night of January 16th). Il caso di Gass è un po' diverso. Ottenne la sua laurea in filosofia alla Cornell e definì il suo incontro con Ludwig Wittgenstein negli anni 50 “l'esperienza intellettuale più importante nella mia vita.” (Fiction and the Figures of Life, p. 248) Si guadagnò da vivere come professore di filosofia per quasi cinquant'anni, primo alla Purdue, successivamente all'università Washington a St. Louis, dalla quale si ritirò nel 2001. Le sue pubblicazioni sono state tutte di carattere letterario, tra cui romanzi (Omensetter's Luck), racconti (In the Heart of the Heart of the Country), belle lettere (On Being Blue) e critica letteraria (Fiction and the Figures of Life).
[20] William H. Gass,
Fiction and the Figures of Life (New York: Knopf, 1970), pp. 3, 5.
[21] Ibid., pp. 7-9.
[22] Ibid., p. 60.
[23] Ibid., pp. 10-11.
[24] Ayn Rand,
The Romantic Manifesto: A Philosophy of Literature (New York: World, 1969), pp. 79, 50, 28.
[25] Ibid., p. 23.
[26] Ibid., pp. 31-32.
[27] Ibid., pp. 34-35.
[28] Ibid., p. 46.
[29] Ibid., pp. 43-44.
[30] Ibid., p. 22.
[31] Ibid., p. 55.
[32] Jean Paul Sartre,
Literature and Existentialism (New York: Citadel, 1962), p. 32.
[33] Ibid., p. 39.
[34] Ibid., pp. 63, 40.
[35] Vedi la sua
recensione di: Ideas: A History from Fire to Freud di Peter Watson, in New Statesman del 28 maggio 2005.
[36] Roy A. Childs, Jr., “Big Business and the Rise of American Statism,” in
Liberty Against Power: Essays by Roy A. Childs, Jr., ed. Joan Kennedy Taylor (San Francisco: Fox & Wilkes, 1994), p. 18.
[37] Tosh, op. cit., p. 141.
[38] Ludwig von Mises,
Human Action: A Treatise on Economics. Third Revised Edition. (New Haven, ct: Yale University Press, 1963), p. 49.
[39] Questa frase è stata a lungo associata al filosofo americano Nelson Goodman (1906-1998). Chi fosse interessato al concetto di Ayn Rand di senso della vita può trarre profitto dal classico saggio di Goodman del 1960 “The Way the World Is,” ristampato recentemente in Peter J. McCormick, ed.
Starmaking: Realism, Anti-Realism, and Irrealism (Cambridge, MA: MIT Press, 1996), pp. 3-10.
[40] John Lewis Gaddis,
The Landscape of History: How Historians Map the Past (New York: Oxford University Press, 2002), pp. 106-107.

1 comment:

Francesco Simoncelli said...

«Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.»