Uno dei più importanti dogmi della dottrina democratica è quello dell'uguaglianza. Ma l'uguaglianza è davvero un valore assoluto e non criticabile? Questo saggio di Rothbard lo mette in dubbio. Prima parte di cinque.
___________________________
Di Murray N. Rothbard
Per ben più di un secolo, la sinistra è stata considerata generalmente detentrice della moralità, della giustizia e dell'“idealismo”; l'opposizione conservatrice alla sinistra si è limitata in gran parte all'“impraticità” dei suoi ideali. Un'opinione comune, per esempio, è che il socialismo è splendido in “teoria,” ma che non può “funzionare” nella vita pratica. Ciò che i conservatori non sono riusciti a vedere è che mentre a breve scadenza può effettivamente procurare dei vantaggi il far appello alla mancanza di praticità delle deviazioni radicali dallo status quo, concedendo l'etica e l'“ideale” alla sinistra essi erano condannati alla sconfitta nel lungo termine. Perché se ad una fazione è garantita l'etica e l'“ideale” dal principio, allora quella fazione sarà in grado di effettuare cambiamenti graduali ma sicuri nella propria direzione; e con l'accumulo di questi cambiamenti, il marchio di infamia dell'“impraticità” diventa sempre meno rilevante. L'opposizione conservatrice, avendo puntato tutto sul terreno apparentemente solido del “pratico” (ovvero, lo status quo) è condannata a perdere mentre lo status quo si sposta verso sinistra. Il fatto che gli stalinisti reazionari siano considerati universalmente come i “conservatori” in Unione Sovietica è un felice scherzo logico sul conservatorismo; perché in Russia gli statalisti impenitenti sono effettivamente i depositari di una “praticità” almeno superficiale e di un'adesione all'esistente status quo.
Mai il virus di “praticità” è stato più diffuso che negli Stati Uniti, dato che gli americani si considerano gente “pratica” e, quindi, l'opposizione alla sinistra, mentre in origine è stata più forte che altrove, è stata forse la meno ferma alle sue fondamenta. Sono ora i fautori del libero mercato e della società libera che devono sopportare la comune accusa di “impraticità.”
In nessun campo è stata riconosciuta giustizia e moralità alla sinistra estesamente e quasi universalmente quanto nel suo abbracciare ampiamente l'uguaglianza. È raro in effetti trovare negli Stati Uniti qualcuno, specialmente un intellettuale, che sfidi la bellezza e la bontà dell'ideale egalitario. Sono tutti così devoti a questo ideale che l'“impraticità” – ovvero, l'indebolimento degli incentivi economici – è stata virtualmente l'unica critica contro i programmi egalitari, persino i più bizzarri. L'inesorabile marcia dell'egalitarismo è un'indicazione sufficiente dell'impossibilità di evitare degli impegni etici; i ferocemente “pratici” americani, nel tentativo di evitare le dottrine etiche, non possono evitare di stabilire tali dottrine, ma possono ora farlo soltanto in modo inconscio, ad hoc e non sistematico. La famosa intuizione di Keynes che “gli uomini pratici, che si credono essere del tutto esenti da qualsiasi influenza intellettuale, sono di solito schiavi di qualche economista defunto” – è vero tanto più per i giudizi etici e la teoria etica. [1]
L'indiscusso status etico dell'“uguaglianza” può essere osservato nella pratica comune degli economisti. Gli economisti rimangono spesso intrappolati nei giudizi di valore – bramosi di fare dichiarazioni politiche. Come possono farlo rimanendo “scientifici” e liberi dal valore? Nel campo dell'egalitarismo, hanno potuto esprimere un chiaro giudizio di valore in nome dell'uguaglianza con notevole impunità. A volte questo giudizio è stato francamente personale; altre volte, l'economista ha preteso di essere il surrogato della “società” nell'esprimere il proprio giudizio di valore. Il risultato, tuttavia, è lo stesso. Considerate, per esempio, l'ultimo Henry C. Simons. Dopo aver correttamente criticato vari argomenti “scientifici” per la tassazione progressiva, è alla fine venuto fuori a favore della progressione come segue:
Sia nel caso che l'economista promuova i propri giudizi di valore, sia che presuma che essi riflettano i valori della “società,” la sua immunità dalla critica è stata comunque notevole. Anche se la sincerità nell'affermazione dei propri valori può essere ammirevole, questo non è certamente sufficiente; nella ricerca della verità è a malapena sufficiente affermare i propri giudizi di valore come se dovessero essere accettati come tavole della legge non soggette a critica e valutazione intellettuali. Non è necessario che questi giudizi di valore siano in un certo senso validi, sensati, convincenti, veri?
Fare tali considerazioni, naturalmente, significa schernire i canoni moderni della pura wertfreiheit nelle scienze sociali da Max Weber in poi, così come l'ancora più vecchia tradizione filosofica della netta separazione di “fatto e valore,” ma forse è giunta l'ora di sollevare tali questioni fondamentali. Supponiamo, ad esempio, che il giudizio etico o estetico del professor Simons non riguardasse l'uguaglianza ma un ideale sociale molto diverso.
Supponiamo, per esempio, che fosse stato a favore dell'omicidio di tutte le persone basse, di tutti gli adulti al di sotto del metro e settanta d'altezza. E supponete che quindi avesse scritto, “il caso per la liquidazione di tutte le persone basse deve essere basata sull'argomento contro l'esistenza delle persone basse – sul giudizio etico o estetico che il numero prevalente di adulti bassi è distintamente malvagio o sgradevole.” Ci si domanda se l'accoglienza accordata alle osservazioni del professor Simons dai suoi colleghi economisti o sociologi sarebbe stata esattamente la stessa.
Oppure, possiamo similmente riflettere sullo scritto del professor Due a nome dell'“opinione della società di oggi” nella Germania degli anni 30 riguardo al trattamento sociale degli ebrei. Il punto è che in tutti questi casi la condizione logica delle osservazioni di Simons o Due sarebbe stata precisamente la stessa, anche se la loro ricezione da parte della comunità intellettuale americana sarebbe stata straordinariamente diversa.
Il mio ragionamento finora è stato in due parti:
___________________________
Note
[1] John Maynard Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta
[2] Henry C. Simons, Personal Income Taxation (1938), pp. 18–19, citato da Walter J. Blum e Harry Kalven, Jr. in The Uneasy Case for Progressive Taxation (Chicago: University of Chicago Press, 1953), p. 72.
[3] John F. Due, Government Finance (Homewood, Ill.: Richard D. Irwin, 1954), pp. 128–29.
[4] Quindi:
___________________________
Link all'originale.
Link alla seconda parte.
Link alla terza parte.
Link alla quarta parte.
Link alla quinta parte.
___________________________
Di Murray N. Rothbard
Per ben più di un secolo, la sinistra è stata considerata generalmente detentrice della moralità, della giustizia e dell'“idealismo”; l'opposizione conservatrice alla sinistra si è limitata in gran parte all'“impraticità” dei suoi ideali. Un'opinione comune, per esempio, è che il socialismo è splendido in “teoria,” ma che non può “funzionare” nella vita pratica. Ciò che i conservatori non sono riusciti a vedere è che mentre a breve scadenza può effettivamente procurare dei vantaggi il far appello alla mancanza di praticità delle deviazioni radicali dallo status quo, concedendo l'etica e l'“ideale” alla sinistra essi erano condannati alla sconfitta nel lungo termine. Perché se ad una fazione è garantita l'etica e l'“ideale” dal principio, allora quella fazione sarà in grado di effettuare cambiamenti graduali ma sicuri nella propria direzione; e con l'accumulo di questi cambiamenti, il marchio di infamia dell'“impraticità” diventa sempre meno rilevante. L'opposizione conservatrice, avendo puntato tutto sul terreno apparentemente solido del “pratico” (ovvero, lo status quo) è condannata a perdere mentre lo status quo si sposta verso sinistra. Il fatto che gli stalinisti reazionari siano considerati universalmente come i “conservatori” in Unione Sovietica è un felice scherzo logico sul conservatorismo; perché in Russia gli statalisti impenitenti sono effettivamente i depositari di una “praticità” almeno superficiale e di un'adesione all'esistente status quo.
Mai il virus di “praticità” è stato più diffuso che negli Stati Uniti, dato che gli americani si considerano gente “pratica” e, quindi, l'opposizione alla sinistra, mentre in origine è stata più forte che altrove, è stata forse la meno ferma alle sue fondamenta. Sono ora i fautori del libero mercato e della società libera che devono sopportare la comune accusa di “impraticità.”
In nessun campo è stata riconosciuta giustizia e moralità alla sinistra estesamente e quasi universalmente quanto nel suo abbracciare ampiamente l'uguaglianza. È raro in effetti trovare negli Stati Uniti qualcuno, specialmente un intellettuale, che sfidi la bellezza e la bontà dell'ideale egalitario. Sono tutti così devoti a questo ideale che l'“impraticità” – ovvero, l'indebolimento degli incentivi economici – è stata virtualmente l'unica critica contro i programmi egalitari, persino i più bizzarri. L'inesorabile marcia dell'egalitarismo è un'indicazione sufficiente dell'impossibilità di evitare degli impegni etici; i ferocemente “pratici” americani, nel tentativo di evitare le dottrine etiche, non possono evitare di stabilire tali dottrine, ma possono ora farlo soltanto in modo inconscio, ad hoc e non sistematico. La famosa intuizione di Keynes che “gli uomini pratici, che si credono essere del tutto esenti da qualsiasi influenza intellettuale, sono di solito schiavi di qualche economista defunto” – è vero tanto più per i giudizi etici e la teoria etica. [1]
L'indiscusso status etico dell'“uguaglianza” può essere osservato nella pratica comune degli economisti. Gli economisti rimangono spesso intrappolati nei giudizi di valore – bramosi di fare dichiarazioni politiche. Come possono farlo rimanendo “scientifici” e liberi dal valore? Nel campo dell'egalitarismo, hanno potuto esprimere un chiaro giudizio di valore in nome dell'uguaglianza con notevole impunità. A volte questo giudizio è stato francamente personale; altre volte, l'economista ha preteso di essere il surrogato della “società” nell'esprimere il proprio giudizio di valore. Il risultato, tuttavia, è lo stesso. Considerate, per esempio, l'ultimo Henry C. Simons. Dopo aver correttamente criticato vari argomenti “scientifici” per la tassazione progressiva, è alla fine venuto fuori a favore della progressione come segue:
Il caso per una drastica progressione nelle tasse deve essere basato sull'argomento contro la diseguaglianza – sul giudizio etico o estetico che la distribuzione prevalente di patrimonio e di reddito rivela un grado (e/o genere) di diseguaglianza che è distintamente malvagio o sgradevole. [2]Un'altra tattica tipica può essere estratta da un testo standard sulle finanze pubbliche. Secondo il professor John F. Due,
Il più forte argomento per la progressione è il fatto che l'opinione generale nella società oggi considera la progressione necessaria per l'equità. Ciò a sua volta è basato sul principio che il modello di distribuzione del reddito, prima delle tasse, prevede un'eccessiva diseguaglianza.Quest'ultima “può essere condannata in base all'inerente slealtà nei termini degli standard accettati dalla società.” [3]
Sia nel caso che l'economista promuova i propri giudizi di valore, sia che presuma che essi riflettano i valori della “società,” la sua immunità dalla critica è stata comunque notevole. Anche se la sincerità nell'affermazione dei propri valori può essere ammirevole, questo non è certamente sufficiente; nella ricerca della verità è a malapena sufficiente affermare i propri giudizi di valore come se dovessero essere accettati come tavole della legge non soggette a critica e valutazione intellettuali. Non è necessario che questi giudizi di valore siano in un certo senso validi, sensati, convincenti, veri?
Fare tali considerazioni, naturalmente, significa schernire i canoni moderni della pura wertfreiheit nelle scienze sociali da Max Weber in poi, così come l'ancora più vecchia tradizione filosofica della netta separazione di “fatto e valore,” ma forse è giunta l'ora di sollevare tali questioni fondamentali. Supponiamo, ad esempio, che il giudizio etico o estetico del professor Simons non riguardasse l'uguaglianza ma un ideale sociale molto diverso.
Supponiamo, per esempio, che fosse stato a favore dell'omicidio di tutte le persone basse, di tutti gli adulti al di sotto del metro e settanta d'altezza. E supponete che quindi avesse scritto, “il caso per la liquidazione di tutte le persone basse deve essere basata sull'argomento contro l'esistenza delle persone basse – sul giudizio etico o estetico che il numero prevalente di adulti bassi è distintamente malvagio o sgradevole.” Ci si domanda se l'accoglienza accordata alle osservazioni del professor Simons dai suoi colleghi economisti o sociologi sarebbe stata esattamente la stessa.
Oppure, possiamo similmente riflettere sullo scritto del professor Due a nome dell'“opinione della società di oggi” nella Germania degli anni 30 riguardo al trattamento sociale degli ebrei. Il punto è che in tutti questi casi la condizione logica delle osservazioni di Simons o Due sarebbe stata precisamente la stessa, anche se la loro ricezione da parte della comunità intellettuale americana sarebbe stata straordinariamente diversa.
Il mio ragionamento finora è stato in due parti:
- non è sufficiente per un intellettuale o sociologo affermare i suoi giudizi di valore – che questi giudizi devono essere razionalmente difendibili e dev'essere dimostrabile la loro validità, correttezza e verità: in breve, che non devono più essere trattati come fossero al di sopra della critica intellettuale; e
- l'obiettivo dell'uguaglianza è stato trattato per troppo tempo non criticamente ed assiomaticamente come l'ideale etico.
___________________________
Note
[1] John Maynard Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta
[2] Henry C. Simons, Personal Income Taxation (1938), pp. 18–19, citato da Walter J. Blum e Harry Kalven, Jr. in The Uneasy Case for Progressive Taxation (Chicago: University of Chicago Press, 1953), p. 72.
[3] John F. Due, Government Finance (Homewood, Ill.: Richard D. Irwin, 1954), pp. 128–29.
[4] Quindi:
Una terza linea di obiezione alla progressione, ed indubbiamente quella che ha ricevuto la maggior parte dell'attenzione, è che diminuisce la produttività economico della società. Virtualmente tutti coloro che hanno sostenuto la progressione nell'imposta sul reddito lo ha riconosciuto come considerazione controbilanciante. (Blum and Kalven, The Uneasy Case for Progressive Taxation, p. 21)Ancora una volta l'“ideale” contro il “pratico”!
___________________________
Link all'originale.
Link alla seconda parte.
Link alla terza parte.
Link alla quarta parte.
Link alla quinta parte.
No comments:
Post a Comment