Wednesday, May 27, 2009

La storia, romanzo progettato per unirci #1

Leggendo questo estratto del nuovo libro di Jeff Riggenbach Why American History Is Not What They Say: An Introduction to Revisionism non ho potuto fare a meno di pensare a cosa scriveranno gli storici – se mai ci saranno – del periodo storico che stiamo vivendo: armati in pratica solo di ciò che potranno recuperare da una mole mai così vasta di produzione giornalistica, si troveranno a dover descrivere il catastrofico crollo della nostra civiltà. Come la interpreteranno?

La risposta di Riggenbach, e quella del buonsenso, potrebbe essere questa: nel modo che la situazione in cui si troveranno a vivere suggerirà loro, per convenienza o secondo le loro convinzioni. Perché alla fine, la storia, tutta la storia, è solo un grande romanzo.

Prima parte di due.
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Di Jeff Riggenbach


Oggi, la storia va considerata, se non come una delle scienze sociali, almeno come una disciplina indipendente che si occupa di fatti, non di fantasie; di conoscenza, non di intrattenimento. Ma non è sempre stato così. Harry Elmer Barnes racconta che prima del XVIII secolo, “o non si faceva lo sforzo di citare le fonti oppure le citazioni erano disperatamente confuse; non c'era una pratica generale di stabilire la genuinità di un testo; non si esitava granché nell'alterare il testo di un documento per migliorare lo stile.” [1] Ed anche dopo che lo stesso XVIII secolo aveva cominciato a sbiadire nella storia, i nuovi standard che Barnes descrive non erano ancora diventati davvero universali. Al contrario: “Prima della Rivoluzione Francese,” scrive Hayden White,
la storiografia era considerata convenzionalmente come un arte letteraria… il XVIII secolo abbonda di opere che distinguono fra lo studio della storia da un lato e la scrittura della storia dall'altro. La scrittura era un esercizio letterario, specificamente retorico, ed il prodotto di questo esercizio doveva essere valutato tanto sui principi letterari come su quelli scientifici. [2]
In realtà, fino al tardo XIX secolo, la maggior parte degli storici non si consideravano né sociologi (un concetto che non esisteva neppure prima del XIX secolo) né studiosi umanistici, ma piuttosto come uomini letterari, uomini delle lettere. Le storie che raccontavano erano vere, naturalmente, ma ciononostante raccontavano delle storie, proprio come fossero romanzieri, ed il loro lavoro, a loro modo di vedere, era di raccontare le loro storie vividamente e poeticamente come tutti i romanzieri. Peter Novick nota che
George Bancroft, William Lothrop Motley, William H. Prescott e Francis Parkman… ciascuno di essi, almeno in una delle loro opere principali, ha impiegato l'organizzazione della rappresentazione teatrale, con un prologo, cinque atti e un epilogo. Ssir Walter Scott fu, con largo margine, l'autore più popolare ed imitato all'inizio del XIX secolo negli Stati Uniti, e lo stile ornato degli storici “letterari” fornì una chiara prova della sua influenza. [3]
E la maggior parte degli storici più rappresentativi del XIX secolo non solo si vedevano come letterati, la maggior parte di loro si consideravano in particolar modo fornitori di un genere importante di letteratura ispiratrice. Come spiega Novick,
[i] “gentleman amateurs” non scrivevano per mantenere viva la fiamma, o per obbligo professionale verso i colleghi, ma perché avevano un messaggio urgente da far arrivare al pubblico dei lettori in genere. “Se dieci persone nel mondo odiano un po' di più il dispotismo ed amano la libertà civile e religiosa un po' meglio a causa di ciò che ho scritto, sarò soddisfatto,” scrisse Motley. [4]
Più nel dettaglio, la maggior parte degli storici americani del XIX secolo erano convinti che, come scrive Peter Charles Hoffer,
celebrando la nostra storia potremmo guarire le nostre differenze politiche. Guardate i fondatori, argomentavano queste grancasse storiche; elogiateli, esaltateli e onorateli. Ignorate i loro difetti ed i loro fallimenti, poiché il messaggio dev'essere un incoraggiamento che tutti possano sottoscrivere. Il più grande dei fondatori, George Washington, è diventato alle mani del libraio ambulante e predicatore Mason Weems un paradigma immacolato di virtù, i cui “grandi talenti, guidati e custoditi costantemente dalla religione, egli mise al servizio del suo paese.” [5]
Naturalmente, per trasformare George Washington “in un paradigma immacolato di virtù,” Weems dovette concedersi un pizzico di licenza letteraria, inventandosi di sana pianta persino uno dei suoi aneddoti più famosi, quello del giovane Washington e del ciliegio.

Ma Weems era lontano dall'essere il solo ad usare simili tecniche. Come spiega Hoffer, “contro gli ampi vantaggi percepiti in questo metodo, quale lettore avrebbe potuto muovere delle obiezioni alla riorganizzazione degli storici del linguaggio dei loro soggetti, o al loro uso selettivo dei fatti?” Hoffer suggerisce di prestare attenzione “ad un'edizione del 1835 delle lettere di Washington, pubblicata dal reverendo Jared Sparks,” nel quale il redattore “ha alterato regolarmente le parole di Washington” e “a volte ha incollato un pezzo di un documento in un documento del tutto diverso.” Tuttavia, per quanto i concerneva i lettori ed altri storici, “[n]on sembrava essere importante …. Dopo tutto, il solo scopo della pubblicazione delle lettere era l'istruzione morale, ed i ministri come Sparks avevano una lunga tradizione nel tagliare e incollare le Sacre Scritture nei loro sermoni.” [6]

Hoffer suggerisce inoltre di dare un'occhiata da vicino alla “monumentale Storia degli Stati Uniti in dieci volumi di George Bancroft,” l'ultimo volume della quale apparve nel 1874. La Storia di Bancroft doveva diventare la fondamentale opera sulla storia americana per generazioni. … Quando morì nel 1891, fu il più onorato dei nostri storici, e le sue opere erano lette diffusamente.” Bancroft “credeva che il suo lavoro fosse di scrivere una cronaca che rendesse i suoi lettori fieri della storia del loro paese,” dice Hoffer,
[e] quando serviva per i suoi scopi didattici, inventava. Lui “si sentiva libero [come Bancroft stesso spiegò nell'introduzione alla sua grande opera] di cambiare i tempi o gli atteggiamenti, di trasporre parti di citazioni, di semplificare la lingua e di interpretare liberamente.” Se lo scopo della storia era di raccontare storie che insegnassero delle lezioni, una tale “mescolanza” difficilmente avrebbe potuto essere discutibile, e per i critici contemporanei non lo era. [7]
Hoffer nota che Bancroft era inoltre trascurato nell'accreditare le sue fonti. Per esempio, “non faceva vere distinzioni fra le fonti primarie e le fonti secondarie. Quando una fonte secondaria citava un passaggio da una fonte primaria, Bancroft si riteneva perfettamente libero di riutilizzare il linguaggio della fonte secondaria nel suo proprio resoconto senza identificarlo come tale. Citava le pagine di fonti secondarie, ma copiava o parafrasava con cura piuttosto che citare.” Dopo tutto, un'opera di storia era un'opera di letteratura, giusto? Tutto quello che importava realmente era se il passaggio in questione si adattava allo scorrere dello stile, se si inseriva artisticamente nell'opera – non se era accompagnato da qualche tipo di nota a piè di pagina!

Si arrivò alla fine del XIX secolo prima che la vocazione dello storico diventasse professionale e accademica a tal punto che una maggioranza di professionisti nel campo giungesse a considerare la loro disciplina così come è ora per noi naturale: lo storico come cercatore spassionato della verità, uno studioso, molto più simile ad un antropologo o ad un sociologo che ad un romanziere o ad un commediografo. E ancora, c'erano delle resistenze. La lunga tradizione delle opere storiche scritte da romanzieri e poeti ed offerti francamente, non come studi ma come belle lettere, fu particolarmente dura a morire. Nel decennio del 1890, proprio mentre il nuovo paradigma dello scienziato sociale stava infine per dominare la professione storica, Edgar Saltus, uno scrittore al tempo molto popolare e di successo e oggi del tutto dimenticato, stava dando i tocchi finali al suo libro più famoso e più volte ristampato, Imperial Purple (1892), un esemplare di ciò che Claire Sprague chiama “un genere oggi quasi inesistente – la storia vestita del variopinto impressionismo dei saggi da rivista dell'ultimo [IX] secolo.” [8] Prima della sua morte nel 1921, Saltus inoltre fece per la dinastia dei Romanov di Russia ciò che aveva fatto per i Cesari della Roma imperiale in Imperial Purple. The Imperial Orgy fu pubblicato da Boni e Liveright nel 1920.

Alcuni anni più tardi, il famoso poeta Carl Sandburg avrebbe cominciato a pubblicare un'opera ancora più ambiziosa, anche se abbastanza povera di note a piè di pagina o di bibliografia quanto lo erano state le opere del Saltus: una biografia in sei volumi di Abraham Lincoln. “I due volumi di The Prairie Years furono l'evento editoriale del 1926,” riporta James Hurt, “ed i quattro volumi di The War Years ebbero lo stesso successo nel 1939.” [9] Ancora nel 1969, Richard Cobb, che John Tosh descrive come “uno dei principali storici della Rivoluzione Francese,” poteva scrivere dello storico che “il suo scopo principale è far rivivere i morti.” E, come 'l'impresario di pompe funebri americano,’ può concedersi alcuni trucchi del mestiere: un tocco di rossetto qui, un colpo di matita là, un po' di ovatta nelle guance, per rendere l'operazione più convincente.” [10] Soltanto cinque anni più tardi, nel 1974, il tardo Shelby Foote, che si era fatto la sua reputazione inizialmente come romanziere, pubblicò l'ultimo volume di quella che il New York Times definì la sua “storia militare di 2.934 pagine, tre volumi, un milione e mezzo di parole, The Civil War: A Narrative,” un'opera caratterizzata da una “ricerca puntigliosa, ma spudoratamente priva di note.” Diventò immensamente popolare, guadagnando “considerevolmente di più in diritti d'autore di quanto uno qualsiasi dei suoi romanzi fosse riuscito a fare,” e facendogli conquistare un invito ad apparire come consulente ed esperto nel documentario di Ken Burns sulla guerra, un lavoro che ha trasformato Foote in “una star da prima serata.” [11]

È effettivamente difficile ignorare le molte somiglianze fra il compito dello storico e quello del romanziere. Come scrive Hayden White, “[v]isti semplicemente come manufatti verbali la storia ed i romanzi sono indistinguibili l'uno dall'altro.” Inoltre,
lo scopo dell'autore di un romanzo deve essere lo stesso di quello dell'autore di una storia. Entrambi desiderano fornire un'immagine verbale della “realtà.” Il romanziere può presentare indirettamente la sua idea di questa realtà, ovvero, mediante tecniche figurate, piuttosto che direttamente, il che vuol dire, registrando una serie di proposizioni che si suppone corrispondano punto per punto ad un certo dominio extra-testuale dell'evento o dell'accaduto, come lo storico sostiene di fare. Ma l'immagine della realtà che il romanziere così costruisce è destinata a corrispondere nel suo profilo generale ad un certo dominio dell'esperienza umana che è meno “reale” di quello citato dallo storico. [12]
Per raggiungere questo scopo comune di “fornire un'immagine verbale della “realtà,” “sia gli storici che i romanzieri raccontano delle storie. “L'ultimo R. G. Collingwood insisteva,” ci ricorda White,
che lo storico era soprattutto un novelliere e suggeriva che la sensibilità storica si manifestava nella capacità di fare una storia plausibile da una congerie di “fatti” che, nella loro forma non trattata, non avevano significato alcuno. Nei loro sforzi per dare un senso all'annotazione storica, che è frammentaria e sempre incompleta, gli storici devono usare quella che Collingwood ha chiamato “immaginazione costruttiva,” che dice allo storico – come dice al bravo investigatore – che cosa “dev'essere successo” date le prove disponibili….
“Collingwood suggeriva,” secondo White, “che gli storici affrontassero le loro prove armati di un senso delle forme possibili che i diversi tipi riconoscibili di situazioni umane possono prendere. Ha chiamato questo senso il naso per la ‘storia’ contenuta nella prova o per la ‘vera’ storia sepolta o nascosta dietro la storia ‘apparente’.” I giornalisti [13], questi storici frettolosi che forniscono ciò che il leggendario editore Phillip Graham del Washington Post ha notoriamente chiamato “la prima brutta copia di massima… della storia„ (la quale brutta copia di massima diventa non raramente la versione finale), fanno una distinzione molto simile. O avete “naso per le notizie,” dicono – un buon “senso della notizia,” un buon “giudizio della notizia” – o non l'avete. Se l'avete, potete vedere la storia contenuta nelle prove, la vera storia sepolta o nascosta dietro la storia apparente (o, a volte, quella ufficiale).
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Note

[1] Harry Elmer Barnes, A History of Historical Writing (Norman, OK: University of Oklahoma Press, 1938), p. 241.
[2] Hayden White, Tropics of Discourse: Essays in Cultural Criticism (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1978), p. 123.
[3] Peter Novick, That Noble Dream: The "Objectivity Question" and the American Historical Profession (Cambridge, UK: Cambridge University Press, 1988), pp. 44–45.
[4] Ibid., p. 45.
[5] Peter Charles Hoffer, Past Imperfect: Facts, Fictions, Fraud — American History from Bancroft and Parkman to Ambrose, Bellesisles, Ellis, and Goodwin (New York: Public Affairs, 2004), pp. 18-19.
[6] Ibid., p. 19.
[7] Ibid., pp. 21-22.
[8] Claire Sprague, Edgar Saltus (New York: Twayne, 1968), p. 72.
[9] James Hurt, “Sandburg's Lincoln Within History.” Journal of the Abraham Lincoln Association. Vol. 20, No. 1 (Winter 1999), p. 55.
[10] John Tosh, The Pursuit of History: Aims, Methods and New Directions in the Study of Modern History (London: Longman, 1991), pp. 23–24.
[11] See Douglas Martin, “Shelby Foote, Historian and Novelist, Dies at 88.” The New York Times 29 June 2005.
[12] White, op. cit., p. 122.
[13] Ibid., pp. 83-84.
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