If inequality of wealth and incomes is an evil, there is no reason to acquiesce in any degree of it, however low; equalization must not stop before it has completely leveled all individuals' wealth and incomes.
(Ludwig von Mises)
Un timore che viene spesso evidenziato di fronte all'ipotesi di una società senza stato è che, in assenza del controllo di un'autorità superiore, si aprirebbero le porte al dominio incontrastato del grande capitale. Un vero e proprio favore, insomma, alle “grandi corporazioni” che senza più freni governerebbero il mondo. Questo perché “il capitalismo genera ingiustizia” di per sé, e senza un controllo l'ingiustizia raggiungerebbe il massimo grado.
Ora, evito di dilungarmi più di tanto sul fatto che non è facile immaginare un grado di ingiustizia più alto dell'attuale – se non proiettandolo nell'inevitabile futuro in cui si riveleranno le conseguenze delle azioni presenti – grado che è stato possibile raggiungere con l'intervento statale sull'economia e non senza (particolare questo che gli entusiasti del maggior “controllo” troppo spesso trascurano), e preferisco dedicare una certa attenzione ad un altro aspetto del problema: da dove arriva il potere delle grandi corporazioni, come si sono create queste grandi concentrazioni finanziarie.
Nella vulgata comune, sottilmente incoraggiata dalla propaganda statale, tale concentrazione sarebbe il naturale sviluppo in una società capitalista. In altre parole, la competizione viene vinta sempre dall'impresa dotata di maggiori risorse, incentivando quindi la concentrazione del capitale e l'instaurazione infine di monopoli.
Subito una prima obiezione: considerato che non è possibile, al momento, osservare alcuna società capitalista in cui lo stato non interferisca più o meno pesantemente, tale “teorema” non è altro che un'ipotesi, anche piuttosto azzardata, come si può comprendere analizzando la storia di queste concentrazioni di potere economico. Abbiamo visto con Hoppe che, su questa analisi, si può dire che tra la scuola marxista e quella austriaca c'è un certo accordo:
È sufficiente leggere la storia delle compagnie delle Indie, di un monopolio creato dalla corona britannica e garantito dalle truppe di sua maestà, per trovare un perfetto esempio di come legiferare e disporre delle risorse di tutti a favore di alcuni, primo passo per la creazione delle grandi concentrazioni di capitale in questione. Possiamo affermare che lo scopo principale, se non unico, del colonialismo, fosse proprio la creazione di questi monopoli. Senza concorrenza non perché sbaragliata dalla sproporzione del capitale, ma perché negata a priori per decreto. Insomma: nient'altro che il noto trucco di privatizzare le entrate socializzando le uscite.
Per restare in Italia, potremmo ricordare l'epopea coloniale fascista, un affare molto più limitato ma che presenta le stesse caratteristiche: sottrarre risorse economiche ed umane dalla società per indirizzarle in una determinata direzione, da cui una ristretta élite di persone potrà ottenere enormi guadagni senza doverne sopportare il costo. Osserviamo più da vicino, da un lavoro di Nicola Labanca:
Come scrive Mises, se il controllo del capitale rimane nelle mani dei diversi imprenditori, a guidarlo sono le preferenze dei consumatori. Un eventuale monopolio potrebbe nascere allora soltanto nel caso in cui riuscisse a soddisfare meglio di ogni altro concorrente le richieste dei consumatori, e rimarrebbe tale finché questa soddisfazione è completa e non oltre. Se anche solo una piccola fetta del target group si trovasse scoperta, questo costituirebbe un'occasione per un competitore di entrare nel mercato per servirla: la differenza di capitale con l'azienda monopolista non sarebbe in questo caso un problema, in quanto l'investimento deve essere sufficiente per una frazione soltanto dell'intero mercato.
Ma quand'anche un monopolio dovesse emergere, questo suo predominio economico in nessun caso sarebbe paragonabile a quello delle corporations ammanicate con lo stato: se nel primo caso il motivo del successo è la volontà espressa liberamente da tutti, nel secondo la soddisfazione è tutta degli azionisti e dei politici che agiscono per loro conto, tutti gli altri – ben lungi dall'essere soddisfatti – pagano semplicemente il salatissimo conto, e non sempre soltanto in denaro.
Ora, evito di dilungarmi più di tanto sul fatto che non è facile immaginare un grado di ingiustizia più alto dell'attuale – se non proiettandolo nell'inevitabile futuro in cui si riveleranno le conseguenze delle azioni presenti – grado che è stato possibile raggiungere con l'intervento statale sull'economia e non senza (particolare questo che gli entusiasti del maggior “controllo” troppo spesso trascurano), e preferisco dedicare una certa attenzione ad un altro aspetto del problema: da dove arriva il potere delle grandi corporazioni, come si sono create queste grandi concentrazioni finanziarie.
Nella vulgata comune, sottilmente incoraggiata dalla propaganda statale, tale concentrazione sarebbe il naturale sviluppo in una società capitalista. In altre parole, la competizione viene vinta sempre dall'impresa dotata di maggiori risorse, incentivando quindi la concentrazione del capitale e l'instaurazione infine di monopoli.
Subito una prima obiezione: considerato che non è possibile, al momento, osservare alcuna società capitalista in cui lo stato non interferisca più o meno pesantemente, tale “teorema” non è altro che un'ipotesi, anche piuttosto azzardata, come si può comprendere analizzando la storia di queste concentrazioni di potere economico. Abbiamo visto con Hoppe che, su questa analisi, si può dire che tra la scuola marxista e quella austriaca c'è un certo accordo:
È vero che Marx, nel famoso capitolo 24 del primo tomo del suo Il Capitale, fa una descrizione della comparsa del capitalismo che intende dimostrare che una gran parte, se non la maggior parte della proprietà capitalista iniziale risulta dal furto, dall'accaparramento delle terre e dalla conquista. Allo stesso modo, nel capitolo 25 sulla “teoria moderna del colonialismo”, sottolinea pesantemente il ruolo della forza e della violenza nell'esportazione del sitema capitalista verso quello che noi chiameremmo il terzo mondo. Vediamo bene che tutto ciò è grossomodo esatto, e nella misura in cui lo è, non cercheremo contrasti con chiunque chiamasse “sfruttatore” quel capitalismo.Non bisogna tra l'altro dimenticarsi di sottolineare che l'esportazione violenta del capitalismo fu un'operazione portata a termine per volontà di case regnanti e stati, e grazie alle risorse da essi sottratte al popolo: quando si dice intervento dello stato in economia!
È sufficiente leggere la storia delle compagnie delle Indie, di un monopolio creato dalla corona britannica e garantito dalle truppe di sua maestà, per trovare un perfetto esempio di come legiferare e disporre delle risorse di tutti a favore di alcuni, primo passo per la creazione delle grandi concentrazioni di capitale in questione. Possiamo affermare che lo scopo principale, se non unico, del colonialismo, fosse proprio la creazione di questi monopoli. Senza concorrenza non perché sbaragliata dalla sproporzione del capitale, ma perché negata a priori per decreto. Insomma: nient'altro che il noto trucco di privatizzare le entrate socializzando le uscite.
Per restare in Italia, potremmo ricordare l'epopea coloniale fascista, un affare molto più limitato ma che presenta le stesse caratteristiche: sottrarre risorse economiche ed umane dalla società per indirizzarle in una determinata direzione, da cui una ristretta élite di persone potrà ottenere enormi guadagni senza doverne sopportare il costo. Osserviamo più da vicino, da un lavoro di Nicola Labanca:
Un primo indicatore potrebbe essere quello che definiremmo il tasso di colonizzazione del bilancio statale, misurato cioè sul rapporto tra bilanci per il ministero delle Colonie e bilancio dello stato. Si trattò ovviamente di spese molto basse per tutta la lunga prima fase dell’Italia liberale, spese che nel 1920 erano ancora dell’0,8% del totale, equivalenti in valore assoluto a 232 milioni. La percentuale crebbe con il fascismo, a territori coloniali sostanzialmente invariati (“riconquiste” a parte), passando nel 1925 all’1,9 e al 1930 al 2,4. Il mutamento radicale quando avviene? Attorno al 1935-36, quando le spese coloniali balzarono al 19%, il che significa in valore assoluto 4 miliardi e 144 milioni. L’anno successivo “scesero” al 10,7%, ma il dato non deve ingannare perché in valore assoluto raddoppiarono (7 miliardi 199 milioni): le spese per la conquista dell’Etiopia furono fatte gravare su più esercizi finanziari. Le spese coloniali rappresentavano ancora nel 1939 il 17,2% dei bilanci statali, cioè più di 7 miliardi. [...]Un supplemento di indagine potrebbe facilmente svelare l'identità di questi gruppi di pressione – gruppi che, abbiamo visto, non possono raggiungere il loro scopo se non per mezzo delle risorse e del potere dello stato, e che dello stato sono quindi i più grandi sponsor – ma in questa sede ne citerò, a titolo di esempio, uno tra i più importanti, la cui commistione con il potere politico attraversa tutta la nostra storia nazionale. Leggiamo da un articolo di Pino Cacucci:
Alcune tendenze, anche solo dall’esame dei tre indicatori proposti, sembrano delinearsi con chiarezza: non indifferente costo delle colonie (basso in percentuale rispetto al bilancio statale, ma non trascurabile rispetto alla moderata estensione dei possedimenti e soprattutto alla loro scarsa messa in valore), ristrettezza dell’interscambio commerciale con le colonie (rispetto al totale del commercio estero nazionale) e, sembra, un rapporto ancora non ben deciso dell’economia nazionale tra Africa-colonia e Africa-Mediterraneo (nel senso di colonie altrui). Quanto alla cronologia, si delinea ancora una volta una lunga continuità strutturale fra Italia liberale e primo fascismo, e un salto marcato con l’Impero. Quanto alla natura merceologica di questo interscambio, il che rinvia all’identificazione degli interessi di specifici gruppi economici nazionali verso le colonie, non c’è spazio in questa sede: ma non sarebbe difficile argomentare la tesi di una spinta economica al colonialismo fortemente settoriale, di pochi talora anche grandi interessi, legati a specifiche aree geografiche e a ristretti gruppi di pressione.
Fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli, fino allo scoppio della Prima guerra mondiale era un’azienda che annaspava per restare a galla durante la depressione economica internazionale acuitasi nel periodo 1904-1905, poi aggravata per l’Italia con il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1907, che dissestò ulteriormente il bilancio dello stato. Con le guerre coloniali in Libia del 1911-12 la Fiat era riuscita a piazzare un po’ di veicoli militari, ma niente di paragonabile alla bonanza della Grande Guerra. Bastino questi dati: nel 1914 era al 30° posto tra le aziende italiane con 4000 addetti, grazie alla macelleria voluta dagli interventisti, nel 1918 contava ben 40510 dipendenti, cioè più che decuplicati, mentre il capitale sociale passava dai miseri 25 milioni del 1914 ai 128 milioni del 1918. Autocarri, autoblindo, aerei, mitragliatrici, bombe: una manna dal cielo, la guerra, con le sue trincee piene di sangue, viscere, fango e pidocchi.Senza parlare delle sovvenzioni, degli incentivi, della cassa integrazione destinati alla FIAT in tutti questi anni, per mantenere viva un'azienda che, se non fosse stata favorita in tal modo dai governi via via succedutisi, sarebbe probabilmente fallita molto tempo fa, liberando le enormi quantità di risorse da essa assorbite. Risorse che avrebbero così potuto finanziare imprese più utili e redditizie, imprese che, soprattutto, avrebbero risposto alle esigenze di tutti i consumatori e non di una sola famiglia. Scrive Mises:
Un simile “miracolo economico” era dovuto alle commesse di guerra, ovviamente, ma anche alla manodopera militarizzata: legislazione speciale che sospendeva i diritti sindacali, turni massacranti, scioperi considerati “boicottaggi”, salari da fame. Come scriveva il giornale socialista l’Avanti il 22 marzo 1916, “Entrando alla Fiat gli operai devono dimenticare nel modo più assoluto di essere uomini per rassegnarsi a essere considerati come utensili”. Considerando che Austria e Germania avevano offerto all’Italia, in cambio della neutralità, esattamente gli stessi territori che avrebbe ottenuto alla fine della guerra e costati centinaia di migliaia di morti, la domanda della persona sensata è: perché l’Italia entrò in guerra? La domanda va rivolta ovviamente alla Fiat, e la risposta sta nei dati precedenti, applicabili in misura minore a tante altre industrie italiane che producevano materiale bellico.
Poi, Giovanni Agnelli divenne un sostenitore del fascismo così entusiasta da rivestire l’incarico di senatore in un senato prono ai voleri di Mussolini. E si arrivò alla Seconda guerra mondiale, con la Fiat a fornire carri armati di latta – le famigerate trappole Fiat Ansaldo M40 e P40, patetici cingolati dotati di cannoncino e spediti nel deserto di El Alamein con i carristi ad arrostirci dentro, per quanto si arroventavano sotto il sole - che gli inglesi preferivano sfondare in corsa con i loro tank per risparmiare granate perforanti; e anche aerei da caccia biplani – i Fiat CR 32 già intervenuti in Spagna a sostenere i golpisti di Francisco Franco, e i CR 42 – quando l’intero apparato aereo dei paesi coinvolti nel conflitto avevano abbandonato i biplani da anni; bastano alcuni dati per comprendere quanto l’industria italiana fosse antidiluviana rispetto alle macchine messe in campo dal “nemico”: il Fiat CR 42 poteva raggiungere una velocità massima di 440 km/h con un motore da 840 hp, mentre lo Spitfire inglese superava i 590 km/h grazie alla spinta dei suoi 1498 hp, e persino il più vetusto Hawker Hurricane volava a 505 km/h, mentre il rispettivo armamento vedeva il misero Fiat combattere con due mitragliatrici contro le otto dei velivoli avversari. Quando la Fiat tentò di mettersi alla pari, sfornò un monoplano, il G50, così evoluto da avere a malapena un parabrezza e l’abitacolo aperto anziché un tettuccio a proteggere il posto di pilotaggio, come tutti i velivoli inglesi e tedeschi, oltre a essere tragicamente lento e poco maneggevole. Sembra quasi che il motto della Fiat fosse allora come oggi “Sempre un passo indietro rispetto agli altri”, tanto poi c’è chi paga il conto dei cocci rotti.
I profitti e le perdite dicono all'imprenditore che cosa i consumatori stanno chiedendo più urgentemente. E soltanto i profitti che l'imprenditore intasca gli permettono di adeguare le sue attività alle richieste dei consumatori. Se i profitti vengono espropriati, gli viene impedito di uniformarsi agli indirizzi dati dai consumatori. Così l'economia di mercato è privata del suo timone. Si trasforma in un groviglio senza senso.La verità è che, se volessimo spingerci ad ipotizzare la distribuzione del capitale in una società senza intervento statale, nulla indica una univoca tendenza alla concentrazione. Senza guerre per dirottare risorse verso tasche ben precise, senza sovvenzioni e leggi su ordinazione, e dall'altra parte, senza barriere fiscali e controllo di prezzi e salari, un capitale maggiore costituisce certamente un vantaggio, ma non un ostacolo insuperabile.
La gente può consumare soltanto ciò che è stato prodotto. Il grande problema della nostra era è precisamente questo: chi dovrebbe determinare ciò che dev'essere prodotto e consumato, la gente o lo stato, i consumatori stessi o un governo paternalista? Se si decide per i consumatori, si sceglie l'economia di mercato. Se si decide per il governo, si sceglie il socialismo. Non c'è una terza soluzione. La determinazione dello scopo per il quale ogni unità di vari fattori di produzione deve essere impiegata non può essere divisa.
Come scrive Mises, se il controllo del capitale rimane nelle mani dei diversi imprenditori, a guidarlo sono le preferenze dei consumatori. Un eventuale monopolio potrebbe nascere allora soltanto nel caso in cui riuscisse a soddisfare meglio di ogni altro concorrente le richieste dei consumatori, e rimarrebbe tale finché questa soddisfazione è completa e non oltre. Se anche solo una piccola fetta del target group si trovasse scoperta, questo costituirebbe un'occasione per un competitore di entrare nel mercato per servirla: la differenza di capitale con l'azienda monopolista non sarebbe in questo caso un problema, in quanto l'investimento deve essere sufficiente per una frazione soltanto dell'intero mercato.
Ma quand'anche un monopolio dovesse emergere, questo suo predominio economico in nessun caso sarebbe paragonabile a quello delle corporations ammanicate con lo stato: se nel primo caso il motivo del successo è la volontà espressa liberamente da tutti, nel secondo la soddisfazione è tutta degli azionisti e dei politici che agiscono per loro conto, tutti gli altri – ben lungi dall'essere soddisfatti – pagano semplicemente il salatissimo conto, e non sempre soltanto in denaro.
2 comments:
Pino Cacucci ha scritto:
CR 42 – quando l’intero apparato aereo dei paesi coinvolti nel conflitto avevano abbandonato i biplani da anni; bastano alcuni dati per comprendere quanto l’industria italiana fosse antidiluviana rispetto alle macchine messe in campo dal “nemico”: il Fiat CR 42 poteva raggiungere una velocità massima di 440 km/h con un motore da 840 hp.
Forse va confusione con le date: all'inizio anche il nemico usava i biplani; ad es l'attacco al porto di Taranto del Novembre 1940 è stato effettuato da Swordfish, il modello imbarcato del Gloster Gladiator e Malta era difesa da 3 (tre) biplani Gladiator (soprannominati Fede,Speranza e Carità).
Queste sono le mie solite idee, per il resto concordo su tutto.
Gianni Pesce
La madre di Gianni Agnelli era Virginia Bourbon del Monte, figlia del principe di San Faustino e la moglie era Marella Caracciolo, parente del principe Caracciolo.
Bourbon e Caracciolo sono nomi già sentiti
mah! che ci sia un nesso?
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