Sunday, December 23, 2007

Il Piano

C'è un male che che affligge l'umanità, che attraverso i secoli ne minaccia la sopravvivenza stessa, che impedisce la legittima ricerca della felicità a cui ogni uomo anela. Questo male, questo cancro, è il potere, ovvero la presunzione dell'uomo di elevarsi al di sopra della legge e del diritto, e di governare gli altri. È da tale presunzione che originano tutte le tragedie del genere umano, le ingiustizie, la schiavitù. Ed è un male così ostinato e subdolo da infettare anche le aspirazioni più pure dell'uomo, ed usarle a suo vantaggio.

Già nel 1850 un grande pensatore francese, Frédéric Bastiat, nel suo saggio
La Legge, ammoniva del pericolo che si nascondeva negli scritti di molti autori di quel periodo, che nel promuovere una società più giusta – come invocata dalle masse di oppressi – ponevano se stessi su un al di sopra della stessa: tutti avevano un Piano, e questo Piano doveva essere imposto al popolo per raggiungere l'agognata libertà. Era la nefasta presunzione dell'uomo che si crede Dio, e fa del suo Piano un culto.

Questo è un brano di quel suo libro magistrale, che potete trovare integralmente sul sito PanArchia.
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Di Frédéric Bastiat


Non è sorprendente che i secoli diciassettesimo e diciottesimo abbiano ritenuto il genere umano come una materia inerte in attesa, che riceve tutto, forma, immagine, stimoli, movimento e vita da un grande Principe, da un grande Legislatore, da un grande Genio. Questi secoli si nutrivano dello studio dell'Antichità, e l'Antichità ci offre in effetti dappertutto, in Egitto, in Persia, in Grecia, a Roma, lo spettacolo di alcuni uomini che manipolano a loro piacere l'umanità asservita attraverso la forza o l'inganno. Che cosa mostra ciò? Il fatto che, poiché l'essere umano e la società sono perfettibili, l'errore, l'ignoranza, il dispotismo, la schiavitù, la superstizione, devono accumularsi di più all'inizio dei tempi. Il torto degli scrittori che ho citato non è quello di aver constatato il fatto, ma di averlo proposto, come regola, all'ammirazione e all'imitazione delle generazioni future. Il loro torto è quello di avere ammesso, con una incredibile assenza di senso critico, e sulla base di una convenzione puerile, ciò che è inammissibile, vale a dire la grandezza, la dignità, la moralità e il benessere di queste società fittizie dell'antichità, di non aver compreso che il corso della storia produce e diffonde la luce della civiltà; che, mano a mano che la civiltà si diffonde, la forza passa dalla parte del Diritto, e la società riprende possesso di sé stessa.

E in effetti, qual è l'operato politico di cui noi siamo testimoni? Non è altro che lo sforzo istintivo di tutti i popoli verso la libertà. [*]

E cos'è la Libertà, questa parola che ha la potenza di far battere tutti i cuori e di agitare il mondo intero, che cos'è se non l'insieme di tutte le libertà, libertà di coscienza, d'insegnamento, d'associazione, di stampa, di movimento, di lavoro, di scambio; in altri termini, l'esercizio franco, per tutti, di tutte le facoltà che non nuocciono ad alcuno; in altre parole ancora, la distruzione di tutti i dispotismi, anche il dispotismo legale, e la riduzione della Legge al suo solo attributo razionale, che è di regolarizzare il Diritto individuale di legittima difesa o di reprimere l'ingiustizia.

Questa tendenza del genere umano, occorre convenirne, è accesamente ostacolata, in particolare nel nostro paese, dal funesto atteggiamento, frutto dell'insegnamento classico, - comune a tutti gli scrittori, di porsi al di fuori dell'umanità per modificarla, organizzarla e istruirla a modo loro. Infatti, mentre la società si agita per realizzare la Libertà, i grandi uomini che si pongono al suo comando, imbevuti dei principi del diciassettesimo e diciottesimo secolo, non pensano altro che a piegarla sotto il dispotismo filantropico delle loro trovate sociali e a farle portare docilmente, secondo l'espressione di Rousseau, il giogo della pubblica felicità, come essi l'hanno immaginata.

Lo si è visto bene nel 1789. Non era ancora stato distrutto del tutto l'apparato legale dell'Ancien Régime, che ci si è subito preoccupati di sottomettere la nuova società ad altre disposizioni artificiali, partendo sempre da questo punto fisso: l'onnipotenza della Legge.
Saint-Just. «Il Legislatore dispone dell'avvenire. Spetta a lui volere il bene. Spetta a lui rendere gli esseri umani ciò che egli vuole essi siano.»

Robespierre. «La funzione del governo è quella di dirigere le forze fisiche e morali della nazione verso i fini della sua istituzione.»

Billaud-Varennes. «Occorre ricreare il popolo che si vuole rendere libero. Poiché occorre distruggere antichi pregiudizi, cambiare antiche abitudini, perfezionare i sentimenti depravati, tenere a freno i bisogni superflui, estirpare vizi inveterati; occorre dunque una azione forte, un impulso veemente...
Cittadini, l'inflessibile austerità di Licurgo divenne a Sparta la base indistruttibile della Repubblica; il carattere debole e fiducioso di Solone ripiombò Atene nella schiavitù. In questo parallelismo sta tutta la scienza di governo.»

Lepelletier. «Considerando a qual punto il genere umano si è degradato, mi sono convinto della necessità di operare una rigenerazione totale e, se così mi posso esprimere, di creare un nuovo popolo.»
Lo si vede, gli individui non sono nient'altro che dei materiali grezzi. Non sta a loro di volere il bene; - essi ne sono incapaci, - spetta al Legislatore, secondo Saint-Just. Gli individui non sono altro che ciò che egli vuole essi siano.

Seguendo Robespierre, che copia letteralmente Rousseau, il Legislatore comincia con il determinare il fine istituzionale della nazione. A quel punto i governi non hanno altro da fare che dirigere verso quel fine tutte le forze fisiche e morali. La nazione stessa resta sempre passiva in tutto ciò, e Billaud-Varennes ci insegna che essa non deve avere che i pregiudizi, le abitudini, le simpatie e i bisogni che il Legislatore autorizza. Egli arriva a dire che l'inflessibile rigidità di un uomo è la base della repubblica.

Si è visto che, nel caso in cui il male è così grande che i magistrati ordinari non sono in grado di porre rimedio, Mably consigliava la dittatura per far fiorire la virtù. “Ricorrete, egli dice, a una magistratura straordinaria, in carica temporaneamente e con notevoli poteri. L'immaginazione del cittadino deve essere colpita.” Questo insegnamento non è andato perduto. Sentiamo Robespierre:
«La base del governo repubblicano è la virtù, e il suo strumento, in attesa che essa metta radici, è il terrore. Noi vogliamo sostituire, nel nostro paese, la morale all'egoismo, la probità all'onore, i principi agli usi, i doveri alle buone azioni, il dominio della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo del vizio al disprezzo del malessere, la fierezza all'insolenza, la grandezza d'animo alla vanità, l'amore della gloria all'amore del denaro, le buone persone alla buona compagnia, il merito all'intrigo, la genialità allo spirito brillante, la verità allo scalpore, l'attrazione della felicità ai fastidi della voluttà, la grandezza dell'uomo alla piccolezza dei grandi, un popolo magnanime, potente, felice, a un popolo amabile, frivolo, miserabile, vale a dire tutte le virtù e tutti i miracoli della Repubblica a tutti i vizi e a tutto il ridicolo della monarchia.»
A quale alto livello al di sopra del resto dell'umanità si pone qui Robespierre!
E notate la circostanza nella quale egli parla, Egli non si limita ad esprimere il desiderio di un grande rinnovamento dell'animo umano, egli non si limita nemmeno al fatto che essa risulterà da una normale amministrazione. No, egli vuole realizzarlo lui stesso attraverso il terrore. Il discorso, da cui è estratto questo puerile e pesante ammasso di posizioni contrapposte, aveva per oggetto di esporre i principi morali che devono dirigere un governo rivoluzionario.
Notate che, quando Robespierre viene a chiedere la dittatura, non è soltanto per respingere lo straniero e combattere le fazioni; è per far prevalere attraverso il terrore, e innanzitutto a spese della Costituzione, i suoi propri principi morali. La sua pretesa non chiede niente di meno che di estirpare dal paese, attraverso il terrore, l'egoismo, l'onore, gli usi, le buone maniere, la moda, la vanità, il gusto del denaro, la buona compagnia, l'intrigo, lo spirito arguto, il desiderio e la miseria. Solamente dopo che lui, Robespierre, avrà compiuto questi miracoli - come li chiama a ragione - egli permetterà alle leggi di riprendere il loro corso. - Eh! miserabili, che vi credete così grandi, che giudicate l'umanità così piccola, che volete tutto riformare, riformate prima voi stessi, questo sarebbe già abbastanza.

Nonostante tutto, in generale, i signori Riformatori, Legislatori, e Pubblicisti non chiedono di esercitare sull'umanità un dispotismo immediato. No, essi sono troppo moderati e troppo filantropi per pretendere ciò. Essi non reclamano altro che il dispotismo, l'assolutismo, l'onnipotenza della Legge. Soltanto essi aspirano a fare la Legge.

Per mostrare come questa strana inclinazione degli spiriti sia stata universale, in Francia, avrei dovuto non solo ricopiare tutto Mably, tutto Raynal, tutto Rousseau, tutto Fénelon, e lunghi estratti di Bossuet e Montesquieu, dovrei anche riprodurre per intero il processo verbale delle riunioni della Convenzione. Ma me ne guarderò bene, e rinvio il lettore a prendere visione direttamente di quei documenti.

Si pensa certo che questa idea abbia attratto Bonaparte. Egli l'ha abbracciata con ardore e l'ha messa energicamente in pratica. Considerandosi alla maniera di un chimico, egli non vide nell'Europa che una materia grezza su cui effettuare esperimenti. Ma ben presto questa materia si è manifestata come un potente reagente. Una volta privo di quasi tutte le sue illusioni, Bonaparte, a Sant'Elena, sembrò riconoscere che vi è una qualche iniziativa nei popoli, e si mostrò meno ostile alla libertà. Questo non gli impedì tuttavia di lasciare come testamento questo insegnamento a suo figlio: “governare significa diffondere la moralità, l'istruzione e il benessere.”

È forse a questo punto necessario mostrare attraverso delle citazioni noiose e stucchevoli da dove provengono Morelly, Babeuf, Owen, Saint-Simon, Fourier? Io mi limiterò a presentare al lettore alcuni estratti del libro di Louis Blanc sull'organizzazione del lavoro.
«Nel nostro piano, la società riceva lo stimolo dal potere.» (Pagina 126).
In che consiste lo stimolo che il Potere dà alla società? Nell'imporre il piano di M. L. Blanc. D'altro lato, la società, è il genere umano. Dunque, in definitiva, il genere umano riceve lo stimolo da M. L. Blanc. Affari suoi, dirà qualcuno. Senza dubbio il genere umano è libero di seguire i consigli di chicchessia. Ma non è così che M. L. Blanc vede la cosa. Egli intende che il suo piano sia convertito in Legge, e di conseguenza imposto con la forza dal potere.
«Nel nostro progetto, lo Stato non fa che dare al lavoro un insieme di leggi (vi pare poco), in virtù delle quali il movimento industriale può e deve compiersi in tutta libertà. Esso (lo Stato) non fa altro che porre la libertà su di un piano inclinato (nient'altro) di modo che essa discenda, una volta che essa vi è stata posta, attraverso la forza delle cose e il decorso naturale del meccanismo stabilito.»
Ma qual è questo piano inclinato? - Quello indicata da M. L. Blanc. – Non conduce per caso verso il baratro? – No, esso porta alla felicità. – Come mai allora la società non si pone spontaneamente su questa via? - Il motivo è che essa non sa ciò che vuole ed ha bisogno di uno stimolo - Chi le darà questo stimolo? – Il potere. – E chi darà impulso al potere? - L'inventore del meccanismo, M. L. Blanc.
Non usciamo mai da questo ragionamento circolare: da una parte l'umanità passiva e dall'altra un grande uomo che la mobilita attraverso l'intervento della Legge. Una volta incamminata su questa strada, la società godrà forse almeno di qualche libertà? - Senza dubbio. - E di quale libertà si tratta?
«Diciamolo una volta per tutte: la libertà consiste non soltanto nel DIRITTO accordato, ma nel POTERE concesso all'individuo di esercitare e sviluppare le sue facoltà, sotto il dominio della giustizia e sotto la salvaguardia della legge.»
«E questa non è affatto una distinzione inutile: il significato è profondo, le sue conseguenze immense. Infatti, non appena si ammette che occorre all'individuo, per essere veramente libero, il POTERE di esercitare e di sviluppare le sue facoltà, ne risulta che la società deve a ciascuno dei suoi membri una istruzione appropriata, senza la quale lo spirito umano non può dispiegarsi, e gli strumenti di lavoro, senza i quali l'attività umana non può procedere. Ora, attraverso l'intervento di chi la società offrirà a ciascuno dei suoi membri l'istruzione appropriata e gli strumenti di lavoro necessari, se non attraverso l'intervento dello Stato?»
Così la libertà non è altro che il potere. - In che cosa consiste questo Potere? - Nel possedere l'istruzione e gli strumenti di lavoro. - Chi garantirà l'istruzione e gli strumenti di lavoro? - La società, è suo compito - Attraverso l'intervento di chi la società garantirà gli strumenti di lavoro a coloro che ne sono privi? - Attraverso l'intervento dello Stato - A chi li prenderà lo Stato? Spetta al lettore di trovare la risposta e di vedere dove conduce tutto ciò.

Uno dei fenomeni più strani del nostro tempo, e che stupirà probabilmente molti dei nostri nipoti, è il fatto che la dottrina che si basa su questa triplice ipotesi, l'inerzia radicale dell'umanità, l'onnipotenza della Legge, l'infallibilità del Legislatore, sia il simbolo sacro del partito che si proclama totalmente democratico. È vero che si professa anche sociale. In quanto democratico, ha una fede illimitata nell'umanità. In quanto sociale, la mette al di sotto della melma.

Quando si tratta di diritti politici, quando si tratta di far uscire dal suo seno il corpo legislativo, oh! allora, a suo avviso, il popolo possiede la scienza infusa; esso è dotato di un tatto ammirabile; la sua volontà è sempre nel giusto, la volontà generale non può fallire. Il suffragio non potrebbe essere abbastanza universale. Nessuno deve alla società alcuna garanzia. La volontà e la capacità di scegliere bene sono sempre date per scontate. Può forse il popolo sbagliarsi? Non siamo forse nel secolo dei lumi? Che cosa dunque! Deve essere il popolo eternamente sotto tutela? Non ha esso conquistato i suoi diritti attraverso parecchi sforzi e sacrifici? Non ha esso forse dato abbastanza prove della sua intelligenza e della sua saggezza? Non è giunto alla sua maturità? Non è forse nello stato di giudicare in maniera autonoma? Non conosce forse i suoi interessi? Vi è forse un uomo o una classe che osi rivendicare il diritto di sostituirsi al popolo, di decidere e di agire in sua vece? No, no, il popolo vuole essere libero, e sarà libero. Vuole dirigere i suoi propri affari, e li dirigerà.

Ma per il Legislatore, una volta terminati i comizi elettorali, oh! allora la musica cambia. La nazione rientra nella passività, nell'inerzia, nel nulla, e il Legislatore acquista l'onnipotenza. A lui spetta inventare, dirigere, stimolare, organizzare. L'umanità non ha che da lasciarsi fare; l'ora del dispotismo è suonata. E notate che la cosa è inevitabile; perché questo popolo, fino allora così illuminato, così dotato di moralità, così perfetto, non ha più alcuna inclinazione, o, se le ha, esse lo trascinano tutte verso il degrado.


[*] Perché un popolo sia felice, è indispensabile che gli individui che ne fanno parte siano previdenti, prudenti, e abbiano quella fiducia gli uni nei confronti degli altri, che nasce dalla sicurezza.
Ora, l'essere umano non può raggiungere queste cose se non attraverso l'esperienza. Egli diventa previdente quando ha sofferto per non aver previsto, prudente, quando la sua temerarietà è stata sovente punita, ecc.
Ne risulta che la libertà comincia sempre per essere accompagnata dai mali che derivano dall'uso sconsiderato che se ne fa.
Di fronte a questo spettacolo, vi sono sempre delle persone che chiedono che la libertà sia messa al bando.
"Che lo Stato, essi dicono, sia previdente e prudente per tutti quanti."
A questo riguardo, io mi domando:
1. È ciò possibile? Può nascere uno Stato dotato di esperienza da un popolo che ne è privo?
2. Ad ogni modo, ciò non significa forse soffocare l'esperienza al suo nascere?
Se il potere impone gli atti individuali, come potrà l'individuo imparare dalle conseguenze dei suoi atti? Sarà dunque per sempre sotto tutela?
E lo Stato avendo tutto comandato sarà responsabile di tutto.
Vi è in tutto ciò un focolaio di rivoluzioni, e di rivoluzioni senza sbocco, poiché esse saranno opera di un popolo al quale, impedendo l'esperienza, si vieta il progresso.
(Pensiero ripreso dai manoscritti dell'autore)

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