Friday, April 2, 2010

Il nuovo dispotismo

Robert Nisbet (1913-1996), eminente sociologo, insegnò alla Columbia University ed ha lasciato il segno nella vita intellettuale osservando le strutture intermedie nella società che servono come bastione fra l'individuo e lo stato.

Noto come conservatore, il suo lavoro è in ogni lista di contributi conservatori alle scienze sociali, ma, ben lungi dall'essere un conservatore tipico, attaccò il conservatorismo come un genere di militarismo ed interventismo sfrenato, che abusava delle devozioni pubbliche e private della gente al servizio dell'orrida etica civica dello statalismo.

Questo articolo è tratto da
The New Despotism.
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Di Robert A. Nisbet


Allorché la moderna comunità politica stava venendo modellata alla fine del XVIII secolo, i suoi fondatori pensarono che la conseguenza delle istituzioni repubblicane o rappresentative nel governo fosse la riduzione del potere politico nella vita dell'individuo.

Niente sembrava importasse di più a menti come Montesquieu, Turgot e Burke in Europa e ad Adams, a Jefferson e Franklin negli Stati Uniti dell'espansione della libertà degli esseri umani nell'esistenza quotidiana, indipendentemente da classe, occupazione, o convinzione.

Quindi le elaborate e attentamente studiate disposizioni di costituzioni o leggi da cui il governo formale sarebbe stato controllato, limitato e radicato nelle più piccole assemblee popolari possibili.

Il genere di potere arbitrario che Burke così tanto detestava e a cui faceva riferimento quasi costantemente nei suoi attacchi al governo britannico per il suo rapporto con i coloni americani ed i popoli indiano e irlandese ed al governo francese durante la rivoluzione, era al primo posto nelle menti di tutti gli architetti della comunità politica, ed essi pensarono che si sarebbe potuto eliminare, o essere ridotto all'insignificanza, tramite un ampio uso dei meccanismi legislativi e giudiziari.

Ciò a cui abbiamo assistito, tuttavia, in ogni paese occidentale e specialmente negli Stati Uniti, è la crescita quasi incessante del potere sulle vite degli esseri umani – potere che è basicamente il risultato della scomparsa graduale di tutte le istituzioni intermedie che, ereditate dal passato predemocratico, erano servite a lungo a controllare quel genere di autorità che quasi subito iniziò a sgorgare dai nuovi corpi legislativi ed esecutivi delle moderne democrazie.

La speranza del XVIII secolo che il popolo, grazie alla sua partecipazione diretta al governo, attraverso il voto e gli incarichi, sarebbe stato altrettanto restio a veder crescere il potere politico, si è dimostrata errata. Niente sembra tanto calcolato per ampliare ed rafforzare il potere dello stato come l'espansione dell'elettorato e la generale popolarizzazione delle pratiche del potere.

Nondimeno, non penso che possiamo spiegare correttamente il potere immenso che esiste nelle democrazie moderne solamente riferendoci all'allargamento della base del governo o al genere di parlamenti contro cui sir Henry Maine metteva in guardia nel suo Governo Popolare. Se il potere politico fosse rimasto visibile, come in gran parte ha fatto fino circa alla Prima Guerra Mondiale, e manifesta la funzione della legislatura e dell'esecutivo, la questione sarebbe molto diversa.

Quello che è in effetti accaduto durante il mezzo secolo scorso è che la massa del potere nella nostra società, dacché interessa le nostre esistenze intellettuali, economiche, sociali e culturali, è diventata in gran parte invisibile, una funzione del vasto infragoverno composto di commissioni burocratiche, agenzie e dipartimenti in una miriade di campi. Ed il motivo per cui questo potere è comunemente così invisibile all'occhio è che si trova celato sotto gli scopi umanitari che lo hanno portato in essere.

La più grande singola rivoluzione del secolo scorso nella sfera politica è stata il trasferimento di potere effettivo sulla vita umana dagli uffici costituzionalmente visibili del governo, gli uffici nominalmente sovrani, alla vasta rete realizzata in nome della protezione del popolo dai suoi sfruttatori.

È contro questo tipo di potere che Justice Brandeis mise in guardia con decisione quasi mezzo secolo fa.
L'esperienza dovrebbe insegnarci ad essere massimamente pronti a proteggere la libertà quando gli scopi dei governi sono caritatevoli. Gli uomini nati liberi sono naturalmente attenti a respingere le invasioni della loro libertà da governanti malevoli. I più grandi pericoli per la libertà si nascondono nelle invasioni insidiose degli uomini zelanti, benevolenti ma senza comprensione.
Ciò che dà al nuovo dispotismo la sua particolare efficacia è effettivamente il suo legame con l'umanitarismo, ma oltre questo fatto è la sua capacità di entrare nei più piccoli particolari della vita umana.

L'autorità più assoluta, scriveva Rousseau,
è quella che penetra nell'essenza più interna dell'uomo e che si interessa non meno della sua volontà che delle sue azioni.
La verità di questa osservazione non è affatto diminuita dal fatto che per Rousseau un vero governo legittimo, il governo basato sulla volontà generale, dovrebbe penetrare in tal modo. Rousseau vide correttamente che il genere di potere esercitato tradizionalmente dai re e dai principi, rappresentati principalmente dal collettore delle imposte e dall'esercito, era in effetti un genere molto debole di potere rispetto a quello che una filosofia del governo basata sulla volontà generale avrebbe potuto determinare.

Anche Tocqueville, seppur partendo da una filosofia notevolmente differente dello stato, notò il tipo di potere descritto da Rousseau.
Non si deve dimenticare che è particolarmente pericoloso asservire gli uomini nei dettagli secondari della vita. Per quanto mi riguarda, dovrei tendere a ritenere la libertà meno necessaria nelle grandi cose che in quelle piccole, se fosse possibile essere sicuro dell'una senza l'altra.
I congressi e le legislature approvano le leggi, l'esecutivo le fa rispettare e le corti le interpretano. Questi, come ho detto, sono i corpi su cui si era fissata l'attenzione dei Padri Fondatori. Ancora oggi sono gli organi visibili del governo, oggetto della costante segnalazione nei media. E non metterò in discussione la capacità di ciascuno di essi di interferire sostanzialmente con la libertà individuale.

Ma di importanza ben maggiore nel reame della libertà è che il governo invisibile generato in primo luogo dalla legislatura e dall'esecutivo ma reso a tempo debito in gran parte autonomo, è spesso quasi impermeabile alla volontà dei corpi costituzionali eletti. In una quantità di modi troppo numerosi persino per provare ad elencarli, il governo invisibile – composto di commissioni, di uffici e di agenzie regolarici di ogni genere immaginabile – entra quotidianamente in quelli che Tocqueville chiamava “i dettagli secondari della vita.”

Murray Weidenbaum, in uno studio importante su questo governo invisibile, Government Mandated Price Increases, fa correttamente riferimento ad una “seconda rivoluzione amministrativa” ora in corso nella società americana. La prima rivoluzione amministrativa, descritta originariamente da A.A. Berle e mezzi di Gardiner C. Means nel loro classico The Modern Corporation and Private Property ed identificata esplicitamente da James Burnham, interessò, come precisa Weidenbaum, la separazione dell'amministrazione dalla proprietà formale nelle moderne corporazioni.

La seconda rivoluzione amministrativa è molto diversa. “Questa volta,” scrive Weidenbaum,
lo spostamento proviene dall'amministrazione professionale selezionata dal consiglio d'amministrazione della società all'ampio organico dei regolatori di governo che influenza e spesso controlla le decisioni chiave della tipica ditta di affari.
Weidenbaum si interessa quasi esclusivamente del settore aziendale – precisando incidentalmente che questo intero organico di regolamentazione è ormai una causa di inflazione profondamente integrata – ma la sua osservazione è perfettamente applicabile ad altri campi non affaristici della società.

In nome dell'educazione, della previdenza sociale, delle tasse, della sicurezza, della sanità, dell'ambiente e di altri scopi lodevoli, il nuovo dispotismo ci si pone di fronte ad ogni angolo. La sua efficacia si basa, come dico, in parte nel legame con la filantropia piuttosto che esplicitamente negli obiettivi dello sfruttamento ma anche, e forse più significativamente, nella sua capacità di occuparsi dell'essere umano piuttosto che delle mere azioni umane.

Per il semplice fatto che esista l'uno o l'altro ufficio regolatore del governo invisibile che ora occupa un posto predominante, la volontà di educatori, ricercatori, artisti, filantropi e imprenditori in tutti i campi, così come negli affari, è destinata ad essere influenzata: modellata, piegata, guidata, persino estinta.

Di tutti gli obiettivi sociali o morali, tuttavia, che sono i punti di partenza del nuovo dispotismo nel nostro tempo, ce n'è uno che si staglia chiaramente sugli altri, che ha la più vasta attrazione possibile, e che attualmente rappresenta senza dubbio la più grande singola minaccia contro la libertà e l'iniziativa sociale. Mi riferisco all'uguaglianza, o, più precisamente, alla Nuova Uguaglianza.
La principale, o in effetti la sola condizione richiesta per riuscire a centralizzare il potere supremo in una comunità democratica è di amare l'uguaglianza o di convincere gli uomini a credere di amarla. Così, la scienza del dispotismo, una volta così complessa, è stata semplificata e ridotta, per così dire, ad un singolo principio.
Le parole sono di Tocqueville, verso la fine di Democrazia in America, in un parziale riassunto della tesi centrale di quel libro, che è l'affinità fra la centralizzazione del potere e l'egalitarismo di massa. Tocqueville non era secondo a nessuno nella sua stima per l'uguaglianza di fronte alla legge. Essa era vitale, pensava, in una società creativa ed uno stato libero.

Fu il genio di Tocqueville, tuttavia, a vedere la grande possibilità per la crescita dello stato nazione in un altro tipo di uguaglianza, più simile al genere di livellamento che la guerra e la centralizzazione portano in un ordine sociale. È solo nel nostro tempo che le sue parole sono diventate analitiche e descrittive piuttosto che profetiche.

C'è molto in comune fra il collettivismo militare ed il tipo di società che dev'essere il risultato certo delle dottrine dei Nuovi Egalitari, il cui scopo non è il semplice aumento dell'uguaglianza di fronte alla legge.

In effetti questo tipo storico di uguaglianza si pone come ostacolo al genere di uguaglianza desiderata: uguaglianza di condizione, uguaglianza di risultato. Non c'è niente di paradossale nell'amore degli egalitari per il potere centralizzato, il genere meglio rappresentato dalle forze armate, e l'amore dei centralizzatori per l'uguaglianza. Quest'ultima, qualsiasi altra cosa possa indicare, significa l'assenza di quei tipi di centri di autorità e di livelli che sono sempre pericolosi per i governi dispotici.

L'uguaglianza di condizioni o risultati è una cosa quando è fissata nella comunità utopistica, nella comune, o nel monastero. La regola benedettina è una buona guida per la gestione di questo tipo di ordine egalitario, abbastanza piccolo, abbastanza personale da impedire al dogma dell'uguaglianza di estinguere la normale diversità di forza e talento.

Per secoli innumerevoli, ovunque nel mondo, la religione e la parentela sono state contesti di questo genere di uguaglianza; lo sono ancora.

L'uguaglianza di risultati è una cosa molto differente, tuttavia, quando si trasforma in politica guida del genere di stato nazione esistente oggi in occidente – fondato sulla guerra e la burocrazia, il suo potere irrobustito da queste forze attraverso la storia moderna, e dipendente fin dal principio da un grado di livellamento della popolazione.

Possiamo avere in mente l'ideale dell'uguaglianza che il monastero o la famiglia rappresentano, ma ciò che otterremo in realtà nello stato moderno è il genere di uguaglianza che si accompagna all'uniformità e l'omogeneità e, soprattutto, alla società bellica.

Tocqueville non era affatto solo nel percepire l'affinità fra uguaglianza e potere. Alla fine del XVIII secolo, Edmund Burke aveva scritto, nelle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, della passione per il livellamento esistente nei militanti e nei militari: quelli, scriveva, “che tentano di livellare, non equalizzano mai.”

La Rivoluzione Francese, credeva correttamente Burke, fu diversa da ogni rivoluzione precedente. Ed il motivo di questa differenza risiede nella sua combinazione di eradicamento della diversità sociale da un lato e, dall'altro, dell'implacabile aumento del potere militare e politico espresso nella maniera arcaica di tale potere.

Tutto ciò che tendeva verso la distruzione delle autorità intermedie della classe sociale, della provincia, della chiesa e della famiglia portò simultaneamente in essere, notava Burke, un livellamento sociale e un trasferimento nel solo stato dei poteri precedentemente residenti in una pluralità di associazioni.

“Tutto dipende dall'esercito in un governo come il vostro,” scriveva; “perché avete industriosamente distrutto tutte le opinioni e i pregiudizi e, per quanto in vostro potere, tutti gli istinti che sostengono il governo.”

Con parole effettivamente profetiche, dato che le scrisse nel 1790, Burke dichiarò inoltre che la crisi inerente alla “democrazia militare” poteva essere risolta soltanto con l'arrivo di “un certo popolare generale che capisca l'arte di conciliare i soldati e che possieda il vero spirito del comando.” Un tale individuo “attirerà su di sè gli occhi di tutti gli uomini.”

Il tema della democrazia militare, dell'unione dell'uguaglianza militare e sociale, era forte in certi critici del XIX secolo. Lo vediamo in alcuni degli scritti di Burckhardt, dove si riferisce al futuro avvento dei “comandi militari” in circostanze di uguaglianza sfrenata.

Lo vediamo, forse più profondamente, in Libertà, Uguaglianza e Fraternità di James Fitzjames Stephen, benché ad essere più evidente in questa notevole opera è molto meno l'esercito, salvo implicitamente, dell'implacabile conflitto fra l'uguaglianza e la libertà che Stephen individuò.
Ci furono altri – Henry Adams in America, Taine in Francia, Nietzsche in Germania – che richiamarono l'attenzione al problema che l'uguaglianza crea per la libertà negli stati democratici moderni. Né tali percezioni furono limitate ai pessimisti.

Socialisti come Jaures in Francia videro nell'esercito dei cittadini, basato sulla coscrizione universale, un mezzo eccellente per infondere nei francesi un più grande amore per l'uguaglianza che per la libertà connessa con la società capitalista.

È evidente ai nostri giorni quanto più l'etica dell'uguaglianza si è trasformata in una forza da quando queste profezie e prescrizioni del XIX secolo vennero emesse. Due guerre mondiali e un'importante depressione hanno portato la burocrazia e la sua inerente irreggimentazione ad un punto in cui l'ideologia dell'uguaglianza diventa sempre più un mezzo per razionalizzare questa irreggimentazione e sempre meno una forza al servizio della vita individuale o della libertà.

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