Frank Chodorov è stato un grande fautore del mercato libero, dell'individualismo e della pace. Cominciò come sostenitore di Henry George e pubblicò il giornale The Freeman prima di fondare il proprio giornale, l'influente Human Events.
Di lui Murray Rothbard scrisse: “l'opera finale di Frank è il suo ultimo testamento ideologico, il brillantemente scritto The Rise and Fall of Society, pubblicato nel 1959, all'età di 72 anni.”
Quella che segue ne è la stupenda introduzione. In due parti, questa è la prima.
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Di Frank Chodorov
Ciò che la che storia penserà dei nostri tempi è qualcosa che soltanto la storia ci dirà. Ma una buona congettura è che sceglierà il collettivismo come caratteristica che identifica il ventesimo secolo.
Perché anche una rapida indagine del modello di sviluppo del pensiero durante gli scorsi cinquant'anni rivela la dominanza di un'idea centrale: che la Società sia un'entità trascendente, qualcosa al di là e maggiore della somma delle sue parti, in possesso di un carattere sovrumano e dotata di simili poteri. Che opera in un campo suo proprio, moralmente e filosoficamente, ed è guidata da stelle sconosciute ai mortali.
Quindi, l'individuo, l'unità della Società, non può giudicarla per le sue stesse limitazioni né applicare ad essa gli standard con cui misura il proprio pensiero e il proprio comportamento. Le è necessario, naturalmente, ma soltanto come parte sostituibile di una macchina. Segue, quindi, che la Società, che può interessarsi paternalisticamente degli individui, non dipende in alcun modo da essi.
In un modo o nell'altro, questa idea si è insinuata in quasi ogni ramo di pensiero e, come succede spesso con le idee, è stata istituzionalizzata. Forse l'esempio più lampante è l'orientamento moderno della filosofia dell'educazione. Molti dei professionisti in questo campo asseriscono francamente che lo scopo primario dell'educazione non è di sviluppare la capacità dell'individuo di apprendere, come si pensava in passato, ma di prepararlo per un posto fruttuoso e “felice” nella Società; le sue inclinazioni devono essere allontanate da lui, in modo che possa ricadere nelle usanze dei suoi coetanei ed oltre ad essi dell'ambiente sociale in cui vivrà la sua vita. Egli non è un fine in sé stesso.
La giurisprudenza gira intorno alla stessa idea, sostenendo sempre più che il comportamento umano non è una questione di responsabilità personale quanto un riflesso delle forze sociali che lavorano sull'individuo; la tendenza è di dare alla Società la colpa dei crimini commessi dai suoi membri. Questo è anche un principio della sociologia, la cui crescente popolarità, ed il cui esser stata elevata a scienza, testimoniano della presa che il collettivismo ha nei nostri tempi.
Lo scienziato non è più onorato come coraggioso avventuriero dell'ignoto, alla ricerca dei principi della natura, ma è diventato un servo della Società, a cui deve il suo addestramento e la sua conservazione. Gli eroi e le imprese eroiche vengono retrocessi ai manifestazioni accidentali di pensiero e movimenti di massa. La persona superiore, il “capitano d'industria” che s'è fatto da sé, il genio inerente: queste sono finzioni; tutti non sono che robot fatti dalla Società. L'economia è lo studio di come funziona la Società, sotto le sue proprie tecniche e prescrizioni, non di come gli individui, nel perseguire la felicità, costruiscono la loro vita. E la filosofia, o ciò che così viene chiamato, ha reso la verità stessa un attributo della Società.
Il collettivismo è più di un'idea. In sé, un'idea non è che un giocattolo della speculazione, un idolo mentale. Poiché, come dice il mito, la Società sovrapersonale è piena di possibilità, la cosa vantaggiosa da fare è lasciar lavorare il mito, per dare energia alla sua virtù. Lo strumento attuale è lo Stato, pulsante di energia politica e ben disposto a consumarla in questa avventura gloriosa. Così sorge lo statalismo, o il culto del potere politico.
Lo statalismo non è una religione moderna. Anche prima di Platone, la filosofia politica si è interessata della natura, dell'origine e della giustificazione dello Stato. Ma, mentre i pensatori ci speculavano sopra, il grande pubblico accettò l'autorità politica come un fatto della vita e se ne fece una ragione. È solo in tempi recenti (tranne, forse, i tempi in cui Chiesa e Stato erano una cosa sola, dotando così la coercizione politica di una sanzione divina) che la massa della gente ha accettato, coscientemente o implicitamente, la citazione hegeliana che “lo Stato è la sostanza generale, di cui gli individui non sono che incidenti.” È questa accettazione dello Stato come “sostanza,” come una realtà sovrapersonale, e il suo esser investito di una competenza che nessun individuo può reclamare per sé, ad essere la caratteristica speciale del ventesimo secolo.
Nei tempi passati, c'era la disposizione a considerare lo Stato come qualcosa con cui ci si deve confrontare, ma da completi estranei. Ciascuno conviveva con lo Stato come meglio poteva, temendolo o ammirandolo, sperando di farne parte e di goderne i privilegi, o tenendosene a distanza come da una cosa intoccabile; a malapena si pensava allo Stato come parte integrale della Società. Si doveva sostenere lo Stato – non c'era modo di evitare le tasse – e se ne tolleravano gli interventi come interventi, non come trama ed ordito della vita. E lo Stato stesso era fiero della sua posizione al di là – ed al di sopra – della società.
La disposizione attuale è di liquidare qualsiasi distinzione fra Stato e Società, concettualmente o istituzionalmente. Lo Stato è la Società; l'ordine sociale è effettivamente un corollario dell'istituzione politica, dipendente da esso per il sostentamento, la salute, la formazione, le comunicazioni e per tutte le cose che rientrano nella definizione di “perseguimento della felicità.”
In teoria, prendendo come autorità i testi accademici su economia e scienza politica, l'integrazione è quasi completata. Nel funzionamento degli affari umani, malgrado il fatto che parole vuote si sostituiscano al concetto di diritti personali inerenti, la tendenza ad invocare lo Stato perché risolva tutti i problemi della vita mostra fino a che punto abbiamo abbandonato la dottrina dei diritti, con il suo corollario della fiducia in noi stessi, ed accettato lo Stato come realtà della Società. È questa integrazione reale, piuttosto che la teoria, che contraddistingue il ventesimo secolo dai suoi predecessori.
Di lui Murray Rothbard scrisse: “l'opera finale di Frank è il suo ultimo testamento ideologico, il brillantemente scritto The Rise and Fall of Society, pubblicato nel 1959, all'età di 72 anni.”
Quella che segue ne è la stupenda introduzione. In due parti, questa è la prima.
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Di Frank Chodorov
Ciò che la che storia penserà dei nostri tempi è qualcosa che soltanto la storia ci dirà. Ma una buona congettura è che sceglierà il collettivismo come caratteristica che identifica il ventesimo secolo.
Perché anche una rapida indagine del modello di sviluppo del pensiero durante gli scorsi cinquant'anni rivela la dominanza di un'idea centrale: che la Società sia un'entità trascendente, qualcosa al di là e maggiore della somma delle sue parti, in possesso di un carattere sovrumano e dotata di simili poteri. Che opera in un campo suo proprio, moralmente e filosoficamente, ed è guidata da stelle sconosciute ai mortali.
Quindi, l'individuo, l'unità della Società, non può giudicarla per le sue stesse limitazioni né applicare ad essa gli standard con cui misura il proprio pensiero e il proprio comportamento. Le è necessario, naturalmente, ma soltanto come parte sostituibile di una macchina. Segue, quindi, che la Società, che può interessarsi paternalisticamente degli individui, non dipende in alcun modo da essi.
In un modo o nell'altro, questa idea si è insinuata in quasi ogni ramo di pensiero e, come succede spesso con le idee, è stata istituzionalizzata. Forse l'esempio più lampante è l'orientamento moderno della filosofia dell'educazione. Molti dei professionisti in questo campo asseriscono francamente che lo scopo primario dell'educazione non è di sviluppare la capacità dell'individuo di apprendere, come si pensava in passato, ma di prepararlo per un posto fruttuoso e “felice” nella Società; le sue inclinazioni devono essere allontanate da lui, in modo che possa ricadere nelle usanze dei suoi coetanei ed oltre ad essi dell'ambiente sociale in cui vivrà la sua vita. Egli non è un fine in sé stesso.
La giurisprudenza gira intorno alla stessa idea, sostenendo sempre più che il comportamento umano non è una questione di responsabilità personale quanto un riflesso delle forze sociali che lavorano sull'individuo; la tendenza è di dare alla Società la colpa dei crimini commessi dai suoi membri. Questo è anche un principio della sociologia, la cui crescente popolarità, ed il cui esser stata elevata a scienza, testimoniano della presa che il collettivismo ha nei nostri tempi.
Lo scienziato non è più onorato come coraggioso avventuriero dell'ignoto, alla ricerca dei principi della natura, ma è diventato un servo della Società, a cui deve il suo addestramento e la sua conservazione. Gli eroi e le imprese eroiche vengono retrocessi ai manifestazioni accidentali di pensiero e movimenti di massa. La persona superiore, il “capitano d'industria” che s'è fatto da sé, il genio inerente: queste sono finzioni; tutti non sono che robot fatti dalla Società. L'economia è lo studio di come funziona la Società, sotto le sue proprie tecniche e prescrizioni, non di come gli individui, nel perseguire la felicità, costruiscono la loro vita. E la filosofia, o ciò che così viene chiamato, ha reso la verità stessa un attributo della Società.
Il collettivismo è più di un'idea. In sé, un'idea non è che un giocattolo della speculazione, un idolo mentale. Poiché, come dice il mito, la Società sovrapersonale è piena di possibilità, la cosa vantaggiosa da fare è lasciar lavorare il mito, per dare energia alla sua virtù. Lo strumento attuale è lo Stato, pulsante di energia politica e ben disposto a consumarla in questa avventura gloriosa. Così sorge lo statalismo, o il culto del potere politico.
Lo statalismo non è una religione moderna. Anche prima di Platone, la filosofia politica si è interessata della natura, dell'origine e della giustificazione dello Stato. Ma, mentre i pensatori ci speculavano sopra, il grande pubblico accettò l'autorità politica come un fatto della vita e se ne fece una ragione. È solo in tempi recenti (tranne, forse, i tempi in cui Chiesa e Stato erano una cosa sola, dotando così la coercizione politica di una sanzione divina) che la massa della gente ha accettato, coscientemente o implicitamente, la citazione hegeliana che “lo Stato è la sostanza generale, di cui gli individui non sono che incidenti.” È questa accettazione dello Stato come “sostanza,” come una realtà sovrapersonale, e il suo esser investito di una competenza che nessun individuo può reclamare per sé, ad essere la caratteristica speciale del ventesimo secolo.
Nei tempi passati, c'era la disposizione a considerare lo Stato come qualcosa con cui ci si deve confrontare, ma da completi estranei. Ciascuno conviveva con lo Stato come meglio poteva, temendolo o ammirandolo, sperando di farne parte e di goderne i privilegi, o tenendosene a distanza come da una cosa intoccabile; a malapena si pensava allo Stato come parte integrale della Società. Si doveva sostenere lo Stato – non c'era modo di evitare le tasse – e se ne tolleravano gli interventi come interventi, non come trama ed ordito della vita. E lo Stato stesso era fiero della sua posizione al di là – ed al di sopra – della società.
La disposizione attuale è di liquidare qualsiasi distinzione fra Stato e Società, concettualmente o istituzionalmente. Lo Stato è la Società; l'ordine sociale è effettivamente un corollario dell'istituzione politica, dipendente da esso per il sostentamento, la salute, la formazione, le comunicazioni e per tutte le cose che rientrano nella definizione di “perseguimento della felicità.”
In teoria, prendendo come autorità i testi accademici su economia e scienza politica, l'integrazione è quasi completata. Nel funzionamento degli affari umani, malgrado il fatto che parole vuote si sostituiscano al concetto di diritti personali inerenti, la tendenza ad invocare lo Stato perché risolva tutti i problemi della vita mostra fino a che punto abbiamo abbandonato la dottrina dei diritti, con il suo corollario della fiducia in noi stessi, ed accettato lo Stato come realtà della Società. È questa integrazione reale, piuttosto che la teoria, che contraddistingue il ventesimo secolo dai suoi predecessori.
2 comments:
Buona pasqua a voi tutti!
Questa voce di Wikipedia,
http://it.wikipedia.org/wiki/Emergenza
e' molto vicina ai problemi trattati,nell'articolo.
I concetti di Caos, Complessita' ed Emergenza, influiranno in futuro su economia, politica e sociologia.
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