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Saturday, July 3, 2010

Giuseppe, ministro dell’agricoltura

In un universo governato dalla Legge di Murphy è abbastanza naturale essere condannati a ripetere all'infinito gli stessi errori.

Come si dice, la storia insegna ma nessuno la sta a sentire, proprio come accade nelle aule dei centri d'indottrinamento statale.


E dire che, come ben illustra in questo brano Frank Chodorov, gli errori economici che finiscono inevitabilmente per rendere schiavi gli uomini li ripetiamo ormai da migliaia di anni, e stanno pure scritti nel libro più letto al mondo...
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Di Frank Chodorov


Molto, molto tempo prima di Freud, un uomo chiamato Giuseppe si costruì la reputazione di saper interpretare i sogni; il Faraone lo chiamò per spiegare ciò che il suo subconscio aveva prodotto – qualcosa che riguardava sette vacche grasse e sette vacche magre.

Precisiamo delle note biografiche sul personaggio: Giuseppe aveva già mostrato di possedere doti speciali, che gli avevano garantito la preferenza del padre sui fratelli; ciò creò attorno a lui l’invidia di coloro i quali non tollerano violazioni al principio che tutti gli uomini sono uguali, e costoro tentarono di ristabilire condizioni di parità eliminandolo dalla circolazione.

Circostanze strane lo posero al servizio di Potiphar, un potente egiziano presso cui fece rapidamente carriera grazie alla sue doti, finchè la moglie di Potiphar tentò senza successo di sedurlo e, scornata dal rifiuto del giovane, lo accusò di averla voluta sedurre, ciò che portò Giuseppe in prigione. Qui mostrò le sue capacità di divinazione ai compagni di cella, uno dei quali fu preso a servizio dal Faraone e, sapendo che il suo padrone voleva interpretare i sogni dai quali era angosciato, suggerì di ricorrere al parere del nostro eroe.


Giuseppe fu chiamato a palazzo e offrì rapidamente la risposta al Faraone: l’Egitto avrebbe presto affrontato l’esperienza del ciclo economico, spesso chiamato “boom and bust cycle”. Come poteva saperlo ? Per mezzo della Divinazione, uno strumento più potente delle capacità dell'attuale Harvard School of Economics.

A questo punto, ricevuto il favore del Faraone, Giuseppe elaborò un piano: il boom sarebbe sicuramente accaduto, ma il bust forse non si sarebbe verificato con certezza: si poteva aggirare il volere di Jehova costruendo delle riserve durante gli anni di boom. Un ministro dell’agricoltura avrebbe curato l’attuazione del piano, e Giuseppe si offrì per il ruolo. Il Faraone, senza il consenso del Senato, che all’epoca non era necessario, approvò questa decisione; invece di giurare sulla Bibbia o sulla Costituzione, gli diede un anello ed un catena d’oro; invece di un’automobile, una biga; inoltre possiamo pensare che Giuseppe avesse molti assistenti, segretarie e un ufficio spazioso.

A questo punto Giuseppe non aveva più bisogno di interpretare i sogni: era l’amministratore del principale settore dell’economia. La prima cosa che fece fu approvare una legge, che naturalmente fu una legge sulla tassazione: un quinto della produzione durante gli anni di boom doveva essere sottratto agli agricoltori per essere messo da parte; questa tassa sul reddito doveva essere imponente, se è scritto che il grano fu accumulato come la sabbia sulla spiaggia.

Poi, come previsto, arrivò la depressione; non è chiaro se fu provocata dalla sovrapproduzione o dal sottoconsumo, e a quel tempo i professori non avevano scoperto le teorie economiche moderne. Si racconta che ci fu carestia, senza specificare quale incidente la causò, se pestilenza, siccità, oppure il sabotaggio dell’economia dovuto a sette anni di pesante tassazione. Ma da come il racconto si conclude possiamo pensare che il nostro pianificatore avesse idee chiare su come sarebbe finita la vicenda: con la schiavitù della classe produttiva dell’Egitto.

La fame colpiva il regno del Faraone, che chiese al ministro dell’agricoltura di utilizzare il grano immagazzinato per sfamare il popolo; Giuseppe ovviamente eseguì l’ordine, ma ad un prezzo: quando il popolo aveva la ricchezza, si era preso i suoi soldi, ora che il popolo non aveva i soldi si prese il bestiame in cambio del grano accumulato. “ E Giuseppe diede loro pane in cambio dei cavalli, e delle greggi, e delle mandrie”.

Ma la fame continuò a colpire il popolo come è ovvio, poichè il loro capitale era scomparso, e senza capitale non c’è produzione. Quindi il popolo, per sopravvivere nel capitalismo di stato di Giuseppe, chiese allo stato di trovargli un lavoro, allo stipendio stabilito dallo stato, che era pari alla mera sussistenza; si offrirono al Faraone come servi in cambio di pane. “E Giuseppe disse al popolo: vi ho guidato fino a questo punto e ho dato la vostra terra al Faraone, e voi la coltiverete”. Il che equivale a dire che nazionalizzò la terra ed il mercato del lavoro.

Il piano funzionò alla perfezione per il Faraone e Giuseppe, ma c’è da credere che qualcuno fosse colpito da un fatto: la perdita del diritto di proprietà. La cronaca degli eventi non cita questo fatto, ma solamente le migrazioni di contadini da una terra all’altra agli ordini di Giuseppe. Gli schiavi si rivoltarono ? Giuseppe utilizzò il noto strumento delle purghe per eliminare i migranti in eccesso ? Non lo sappiamo, ma in assenza di spiegazioni lo possiamo pensare.

D'altra parte, si racconta che una delegazione di egiziani andò da Giuseppe e disse: “Tu hai salvato le nostre vite: fai che troviamo il favore del nostro Padrone, e saremo gli schiavi del Faraone”. Erano ormai scesi a patti col collettivismo e si adattavano a qualunque proposta arrivasse dal burocrate.

Giuseppe dovette comunque fare concessioni alla proprietà provata, probabilmente per incoraggiare l’incremento di produzione tassabile; affittò ad alcuni egiziani la terra che prima essi possedevano. L’ammontare dell’affitto era un quinto della produzione annuale. Mediante questa ulteriore decisione, come ci informa lo storico Flavio, Giuseppe stabilì la sua autorità sull’Egitto ed incrementò i profitti dei monarchi che vennero dopo il Faraone.

Ma il morale delle forze produttive si ridusse tanto che, quando conquistatori esterni invasero l’Egitto, non incontrarono resistenza; chi non aveva niente da perdere decise di non combattere, ed anche i monarchi dovettero pregare i vincitori di garantirgli lavori nella nuova amministrazione. E scese la polvere sulla civiltà dei Faraoni.
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Traduzione di Massimiliano “El Pasador” Belloni

Tuesday, June 29, 2010

La politica oppio dei popoli

Nuovo interessante articolo di Gian Piero de Bellis di panarchy.org sui nefasti effetti della politica nella vita civile.
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La politica oppio dei popoli
(e i politicanti imbonitori furfanti)

Di Gian Piero de Bellis


Passato. Nei secoli passati la trasmissione della cultura nell’Europa Occidentale ha avuto come protagonista la Chiesa Cattolica che aveva saputo preservare il patrimonio classico (greco e latino) e l’aveva diffuso durante il MedioEvo. Questa attività culturale diede vita anche alla formazione di università e scuole che si moltiplicarono in tutta Europa e permisero alla Chiesa di avere un dominio quasi esclusivo sui processi di formazione dell’individuo. Questo monopolio culturale della Chiesa, come tutti i monopoli, portò inesorabilmente, nel corso del tempo, ad un crescente oscurantismo che si manifestò come incapacità ad accettare il metodo scientifico e la libera ricerca. La riproposizione pura e semplice del passato e l’uso della fede come sostegno del potere (ecclesiastico e non), hanno generato guasti enormi per la religione intesa come spiritualità e hanno condotto all’emergere della religione come una ideologia che giustificava lo sfruttamento e i patimenti subiti sulla terra in vista di una ipotetica ricompensa ultraterrena.

È quindi più che comprensibile che tutti coloro che, nell’epoca moderna, si sono pronunciati a favore del rinnovamento (ad es. liberi pensatori, socialisti, anarchici, radicali, ecc.) hanno sviluppato un forte anti-clericalismo e un acceso sentimento contrario alla religione. Nel 1843 Marx espresse chiaramente questa posizione di rigetto della religione come manipolazione affermando nella sua Critica della filosofia del diritto di Hegel: “La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l'oppio dei popoli.” Da allora, almeno negli ambienti progressisti e illuminati, la religione è stata considerata, puramente e semplicemente, come “l’oppio dei popoli”.

Presente. L’emergere dello stato nazionale (dopo la Rivoluzione Francese), l’esproprio di buona parte delle proprietà della Chiesa in tutti i paesi d’Europa, la fine del potere temporale del Papato, la secolarizzazione delle società moderne, l’istituzione della scuola di stato, questi e molti altri accadimenti storici hanno minato il potere della Chiesa e ne hanno distrutto il monopolio culturale. Di certo a partire quanto meno dalla Prima Guerra Mondiale, lo scontro di idee e di gruppi ha avuto poco o nulla a che fare con la religione e quasi tutto a che vedere con un nuovo fenomeno culturale di massa: la politica.

Nell’epoca contemporanea la politica ha rimpiazzato del tutto la religione come tema di discussione e molla per l’azione delle masse. Mentre in passato si manifestava lo scontro tra cattolici e protestanti per l’affermazione (e imposizione) del proprio credo religioso, nel corso del XX secolo si è assistito alla lotta tra destra e sinistra per affermare (e imporre) la propria visione politica.

Queste due fazioni rivali, la destra e la sinistra, non solo hanno sostenuto due modelli di organizzazione sociale apparentemente diversi ma hanno anche presentato la politica in due modi apparentemente diversi.

Per gli esponenti della sinistra, la politica è una cosa sublime; tutto è o deve essere politica e quindi anche il personale è politico. In sostanza la sinistra esprime una visione totalizzante della politica.

Per gli esponenti della Destra, la politica è una cosa sporca (secondo la presunta affermazione di Mussolini) e in quanto cosa sporca va lasciata fare alle persone pure, cioè a loro. In sostanza la destra abbraccia una visione totalitaria della politica.

Tenendo conto delle vicende storiche, tra visione totalizzante e visione totalitaria le differenze sono risultate poi praticamente inesistenti, con gli uni che proclamavano e proclamano tuttora: morte ai fascisti, e gli altri che proclamano e continuano a proclamare: morte ai comunisti. Forse non più con la stessa foga e le stesse parole, ma sempre con la stessa voglia di esclusività nell’occupazione del potere.

Da queste contrapposizioni fasulle, da queste diatribe prive di senso, se ne esce solo attraverso una analisi fattuale di che cos'è stata e di cos'è tuttora la politica. A questo riguardo ci aiutano alcune affermazioni di commentatori e critici acuti della società occidentale.

Ambrose Bierce nel suo The Devil’s Dictionary (Il Dizionario del Diavolo) offre due definizioni di politica:
  1. “A means of livelihood affected by the more degraded portion of our criminal class.” [Un mezzo per guadagnarsi da vivere utilizzato dalla parte più spregevole della nostra classe criminale].
  2. “A strife of interests masquerading as a contest of principles. The conduct of public affairs for private advantage.” [Un conflitto di interessi mascherato da contesa per l’affermazione di principi. Conduzione di affari pubblici per guadagni privati].
Come giornalista egli aveva continuamente sotto gli occhi il sistema americano di spartizione del bottino (lo “spoil system”) attraverso il quale il partito vincente si accaparrava posti di lavoro e mazzette per i suoi seguaci e sostenitori.

Un altro giornalista americano, H. L. Mencken ha qualificato gli uomini politici come "men who, at some time or other, have compromised with their honour, either by swallowing their convictions or by whooping for what they believe to be untrue." [persone che, prima o poi, sono venute a patti con il loro onore, o abbandonando le loro convinzioni o dichiarandosi a favore di quello che esse sanno essere falso].

In Europa, Paul Valéry nella sua raccolta di scritti Regards sur le monde actuel, 1931, ha giustamente rimarcato che “La politique fut d’abord l’art d’empêcher les gens de se mêler dans ce qui le regarde.” [La politica fu fin dal principio l’artifizio di impedire che le persone si occupassero di ciò che li riguarda].

Ciò richiama molto bene un altro modo di vedere la politica che dobbiamo alla lingua tagliente di Groucho Marx: “La politica è l'arte di cercare un problema, trovarlo dappertutto, diagnosticarlo in modo errato e applicargli i rimedi sbagliati” (da una segnalazione di Tobia Cavalli).

E si potrebbe proseguire con citazioni ancora più dissacranti e devastanti in cui la politica appare come uno strumento per generare l’odio tra le persone e per spingerle a commettere azioni efferate (genocidi, persecuzioni, espulsioni di massa, ecc.).

Se tutto ciò è stato ed è tuttora vero, allora come spiegare e giustificare il fatto che molti, soprattutto tra coloro che si dichiarano progressisti e illuminati, continuano ancora ad avere una visione miracolistica della politica, a voler fare politica e incoraggiano tutti a occuparsi di politica come se questa fosse davvero un impegno indispensabile ed utile e non una attività criminale e una presa in giro colossale? Forse perché, anche le persone sensate non hanno ben chiaro che cosa è davvero la politica. Se è così allora c’è bisogno (a) di produrre una definizione più esatta e più penetrante della “politica” e (b) per coloro che vogliono impegnarsi in un movimento di rinnovamento occorre prospettare un impegno personale e sociale più entusiasmante, convincente e soprattutto sensato che li porti al superamento della politica.

Futuro. Per inventare un futuro di rinnovamento è necessario conoscere a fondo il passato e il passato ci fa scoprire parallelismi interessanti e al tempo stesso inquietanti che mostrano il ricorrere di alcuni fenomeni storici indesiderabili. Questa ripetizione delle vicende storiche più negative è possibile solo in quanto, coloro che ignorano la storia, finiscono per commettere sempre gli stessi errori.

Le sette religiose che si combattevano per l’affermazione della vera fede, non sono scomparse, hanno solo cambiato nome, si chiamano partiti politici. Il monopolio culturale che manipolava i cervelli e promuoveva l’oscurantismo non è finito con la Chiesa Cattolica, è solo passato di mano: adesso è appannaggio dello Stato nazionale e del suo Ministero della (D)Istruzione (dei cervelli). Le cosiddette guerre di religione in cui si voleva imporre a tutti la propria visione di fede e di vita non sono finite, anzi si sono moltiplicate, come guerre mondiali, lotte tribali, conflitti nazionali, in altre parole, guerre politiche.

Per farla breve, siamo passati dal clericume al laicume, dall’altare in chiesa all’altare della patria, dalle illusioni create dalla religione alle illusioni create dalla politica. Chi ha notato tutto ciò non può arrivare che alla seguente conclusione-constatazione che aggiorna una vecchia formulazione e offre al tempo stesso una lucida definizione della politica: La politica è l’oppio dei popoli.

Lasciate perdere il calcio, la televisione, i divertimenti; questi sono spesso solo strumenti subordinati e manipolati dalla politica la quale, attraverso i politicanti, veri imbonitori furfanti, agisce come un gas invisibile e inodore che circola dappertutto e annebbia il cervello degli individui (illudendo, corrompendo, sviando, snervando, offuscando e così via).

Per questo la costruzione del futuro sarà opera di movimenti che vanno al di là della politica e già fin d’ora non solo si pongono contro la politica come pretesa al monopolio dei cervelli e dei comportamenti di tutti ma prefigurano già un modello sociale post-politico.

Un movimento di liberazione degli individui deve andare quindi necessariamente contro la politica (ed essere quindi post-politico) perché, se fosse un movimento politico e avesse successo, sarebbe destinato quasi inevitabilmente a trasformarsi in partito politico riproponendo così tutta il vecchio sudiciume e i soliti imbrogli.

Per questo, la lotta contro l’oppressione dello stato, cioè contro il massimo esponente della politica, non è una battaglia politica ma un conflitto per l’affermazione dei propri diritti civili (alla libertà, all’autonomia, all’autodeterminazione, all’autogestione o comunque si voglia caratterizzare la libertà di decisione della persona). La lotta di liberazione dallo statismo ha bisogno quindi non di un movimento politico ma di un movimento o di una rete per i diritti civili in vista del superamento della politica, cioè delle contrapposizioni fasulle che si risolvono poi nella subordinazione materiale di tutti a un potere e a una ideologia dominanti (lo stato o qualunque altra sia la denominazione o forma che assume il potere monopolistico).

Al posto delle contrapposizioni inventate occorre fare emergere la varietà, volontariamente scelta per sé e rispettata negli altri, degli stili di vita. In sostanza, l’obiettivo del movimento per i diritti civili sono le società parallele volontarie nello spazio aperto (al posto degli stati territoriali oppressivi nei pollai o recinti nazionali).

Ma questo è un altro discorso che non si può affrontare qui in poche parole; e forse è meglio lasciare che ognuno scopra per conto suo il nuovo e se lo inventi giorno per giorno nella sua vita.

Saturday, June 26, 2010

Insegnante in Sei Lezioni

Pubblicato la prima volta su Whole Earth Review dell'autunno 1991, questo articolo di John Taylor Gatto, premiato quello stesso anno come Insegnante dell'Anno dello Stato di New York, rivela impietosamente la vera funzione della scuola: privare i ragazzi della loro individualità e plasmarli perché occupino in futuro una precisa posizione nella piramide sociale.
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Di John Taylor Gatto


Chiamatemi Mr. Gatto, grazie. Ventisei anni fa, non avendo niente di meglio da fare, mi sono messo alla prova con l'insegnamento. La mia licenza mi certifica come istruttore di inglese e letteratura lingua, ma non è affatto quello che faccio. Ciò che insegno è la scuola, e vinco dei premi facendolo.

L'insegnamento significa molte cose diverse, ma sei sono le lezioni comuni da Harlem a Hollywood. Pagate queste lezioni in più modi di quelli che potete immaginare, quindi dovreste pure sapere cosa sono:

La prima lezione che insegno è: “Rimanete nella classe a cui appartenete.” Non so chi decide dove i miei ragazzi appartengono ma non è affar mio. I bambini sono numerati di modo che se uno dovesse sfuggire lo si possa riportare alla giusta classe. Nel corso degli anni la varietà di maniere con cui i bambini vengono numerati è aumentata drammaticamente, fino al punto che è difficile vedere l'essere umano sotto il carico di numeri che ciascuno si porta addosso. La numerazione dei bambini è un grande affare di molto profitto, benché lo scopo per cui è progettato sia evasivo.

Comunque, ancora, non è affar mio. Il mio lavoro è di farlo piacere ai ragazzi – l'essere chiusi dentro insieme, intendo – o come minimo, di farglielo sopportare. Se le cose vanno bene, i ragazzi non riescono ad immaginarsi in qualsiasi altro luogo; invidiano e temono le classi migliori ed hanno disprezzo per le classi più stupide. Così la classe mantiene generalmente un buon ordine di marcia. Questa è la vera lezione di tutte le competizioni truccate come la scuola. Arrivi a capire qual è il tuo posto.

Tuttavia, nonostante il modello generale, faccio lo sforzo per spingere i bambini ai livelli più alti di successo nei test, promettendo loro il trasferimento finale dalle classi di livello più basso come ricompensa. Insinuo che verrà il giorno in cui un datore di lavoro li assumerà in base alle valutazioni del test, anche se la mia propria esperienza è che i datori di lavoro sono (giustamente) indifferenti di fronte a cose simili. Non mento mai spudoratamente, ma sono giunto a capire che la verità e l'insegnamento [scolastico] sono incompatibili.

La lezione delle classi numerate è che non c'è via d'uscita dalla vostra classe a se non con la magia. Senza di essa dovrete rimanere dove vi mettono.

La seconda lezione che insegno ai ragazzi è di accendersi e spegnersi come un interruttore. Chiedo che si lascino coinvolgere completamente nelle mie lezioni, saltando su e giù nei loro banchi con entusiasmo, competendo vigorosamente tra loro per ottenere il mio favore. Ma quando la campanella suona insisto che lascino il lavoro immediatamente e procedo rapidamente al seguente posto di lavoro. Niente di importante viene mai finito nella mia classe né, che io sappia, in qualunque altra classe.

La lezione della campanella è che non vale la pena di finire nessun lavoro, così perché curarsi troppo a fondo di qualcosa? La campanella è la logica segreta del tempo a scuola; il suo argomento è inesorabile; la campanella distrugge il passato e il futuro, convertendo ogni intervallo in routine, come una mappa astratta rende identici ogni fiume o montagna reali anche se non lo sono. La campanella inocula l'indifferenza in ogni impresa.

La terza lezione che insegno è di cedere la vostra volontà ad una predestinata catena di comando. I diritti possono essere dati o tolti, per autorità, senza appello. Come insegnante io intervengo in molte decisioni personali, concedendo un pass per quelle che ritengo legittime, o avviando un confronto disciplinare per i comportamenti che minacciano il mio controllo. I miei giudizi sono duri e saldi, perché l'individualità tenta costantemente di affermarsi nella mia aula. L'individualità è una maledizione per tutti i sistemi di classificazione, una contraddizione della teoria delle classi.

Questi sono alcuni dei modi più comuni con cui si rivela: i bambini sgattaiolano nei bagni per stare un momento da soli con il pretesto di svuotare la vescica; mi ingannano con la scusa che hanno bisogno di un po' d'acqua per avere un momento privato nel corridoio. A volte il libero arbitrio mi appare davanti in bambini arrabbiati, depressi o eccitati da cose fuori dalla mia comprensione. Diritti per cose simili per gli insegnanti non possono esistere; esistono soltanto privilegi, che possono essere ritirati.

La quarta lezione che insegno è che solo io decido il programma che studierete (o meglio, faccio rispettare decisioni trasmesse da chi mi paga). Questo potere mi fa separare immediatamente i bambini buoni da quelli cattivi. Quelli buoni eseguono le mansioni che assegno con un minimo di conflitto e una rispettabile esposizione di entusiasmo. Dei milioni di cose che vale la pena imparare, io decido quelle poche per le quali abbiamo il tempo da dedicarvi. Le scelte sono mie. La curiosità non ha un posto importante nel mio lavoro, la conformità sì.

Quelli cattivi, naturalmente, combattono questo fatto, cercando apertamente o di nascosto di prendere loro le decisioni riguardo cosa imparare. Come potremmo permetterlo e sopravvivere come insegnanti? Fortunatamente ci sono procedure per spezzare la volontà di coloro che resistono.

Questo è un altro modo con cui insegno la lezione della dipendenza. I buoni aspettano che un insegnante dica loro cosa fare. Questa è la lezione più importante di tutte, che dobbiamo aspettare qualcun altro, più preparato di noi, che dia un significato alla nostra vita. Non è un'esagerazione dire che l'intera nostra economia dipende dall'imparare questa lezione. Pensate alle cose che crollerebbero se i ragazzi non fossero istruiti con la lezione della dipendenza: I servizi sociali difficilmente potrebbero sopravvivere, compresa la fiorente industria dell'assistenza; l'intrattenimento commerciale di ogni specie, compresa la televisione, appassirebbe se la gente si ricordasse come divertirsi per conto loro; i servizi di ristoro, i ristoranti ed i fornitori di cibi pronti si ridurrebbero se la gente tornasse a cucinarsi i propri pasti piuttosto che dipendere da sconosciuti che lo fanno per loro. Gran parte della legge, della medicina e dell'ingegneria moderne scomparirebbe allo stesso modo – il commercio dell'abbigliamento pure – se non si riversasse ogni anno fuori dalle nostre scuole un rifornimento garantito di gente impotente. Abbiamo costruito un modo di vivere che dipende dal fatto che le persone facciano ciò che viene detto loro perché non conoscono altra maniera. Per l'amor d'Iddio, non facciamo rovesciare questa barca!

Nella lezione cinque insegno che il vostro amor proprio dovrebbe dipendere dalla misura del vostro valore da parte di un osservatore. I miei ragazzi vengono costantemente valutati e giudicati. Un rapporto mensile, impressionante nella sua precisione, viene spedito alle case degli allievi per diffondere approvazione o segnalare esattamente – fino ad un singolo punto percentuale – quanto i genitori dovrebbero essere insoddisfatti dei loro bambini. Anche se qualcuno potrebbe essere sorpreso da quanto poco tempo o riflessione viene speso per compilare queste annotazioni, il peso cumulativo degli apparentemente obiettivi documenti stabilisce un profilo del difetto che costringe un bambino ad arrivare a determinate decisioni su di sé e sul suo futuro basandosi sul giudizio casuale di sconosciuti.

L'auto-valutazione – l'ingrediente base di tutti i principali sistemi filosofici apparsi sul pianeta – non è mai un fattore in queste cose. La lezione delle pagelle, dei voti e dei test è che i bambini non devono fidarsi di sé stessi o dei loro genitori, ma contare sulla valutazione dei funzionari autorizzati. Alle persone dev'essere detto quel che valgono.

Nella lezione sei insegno ai bambini che sono osservati. Mantengo ogni allievo sotto costante sorveglianza e così fanno i miei colleghi. Non ci sono spazi privati per i bambini; non c'è tempo privato. Il cambiamento di classe dura 300 secondi per mantenere la fraternizzazione promiscua a bassi livelli. Gli allievi sono incoraggiati a sparlare l'uno dell'altro, a sparlare anche dei loro genitori. Naturalmente incoraggio anche i genitori a limare l'indocilità dei loro figli.

Assegno i “compiti a casa” in modo che questa sorveglianza si estenda in seno alla famiglia, dove gli allievi potrebbero altrimenti usare il tempo per imparare qualcosa di non autorizzato, forse da un padre o da una madre, o ascoltando qualche persona più saggia nel vicinato.

La lezione della sorveglianza costante è che nessuno può fidarsi di nessuno, che la segretezza non è legittima. La sorveglianza è un'antica urgenza fra certi influenti pensatori; era una prescrizione fondamentale stabilita da Calvino negli Istituti, da Platone nella Repubblica, da Hobbes, da Comte, da Francis Bacon. Tutti questi uomini senza figli scoprirono la stessa cosa: i bambini devono essere osservati molto attentamente se volete mantenere una società sotto un controllo centrale.

È il grande trionfo dell'istruzione che persino tra i migliori dei miei colleghi insegnanti, e persino tra i migliori genitori, ce ne sia solo un piccolo numero in grado di immaginare un modo diverso di fare le cose. Eppure solo poche generazioni fa le cose erano diverse negli Stati Uniti: l'originalità e la varietà erano valuta comune; la nostra libertà dall'inquadramento aveva fatto di noi il miracolo del mondo; i confini delle classi sociali erano relativamente facili da attraversare; i nostri cittadini erano meravigliosamente sicuri di sé, inventivi e capaci di fare molte cose indipendentemente, di pensare con la propria testa. Eravamo qualcosa come individui, e tutto grazie alle nostre forze.

Bastano soltanto circa 50 ore a contatto per trasmettere il saper leggere e scrivere e far di conto abbastanza bene perché i bambini possano auto-istruirsi da quel momento in poi. I proclami per le “conoscenze di base” è una cortina fumogena dietro cui le scuole si appropriano del tempo dei bambini per dodici anni ed insegnano loro le sei lezioni che vi ho appena insegnato.

Abbiamo avuto una società sempre più sotto controllo centrale negli Stati Uniti fin da appena prima la Guerra Civile: le vite che conduciamo, i vestiti che indossiamo, i cibi che mangiamo ed i segnali verdi delle autostrade che percorriamo da costa a costa sono prodotti di questo controllo centrale. Così anche, io credo, lo sono le epidemie di droga, di suicidi, di divorzi, di violenza, di crudeltà, e la trasformazione delle classi in caste negli Stati Uniti, prodotti della disumanizzazione delle nostre vite, della diminuzione dell'importanza dell'individuo e della famiglia che il controllo centrale impone.

Senza un ruolo del tutto attivo nella vita della comunità non ci si può sviluppare in un essere umano completo. Lo insegnò Aristotele. Aveva sicuramente ragione; guardatevi intorno o guardatevi nello specchio: quella è la dimostrazione.

La “scuola” è un sistema di supporto essenziale per una visione di ingegneria sociale che condanna la maggior parte delle persone ad essere pietre secondarie in una piramide che si riduce ad un punto di controllo mentre sale. La “scuola” è un artificio che fa sembrare inevitabile un tale ordine sociale piramidale (anche se una tale premessa è un fondamentale tradimento della Rivoluzione Americana). Ai tempi delle Colonie e nel primo periodo della Repubblica non avevamo scuole di sorta. Eppure la promessa della democrazia stava cominciando ad essere realizzata. Abbiamo voltato le spalle a questa promessa riportando in vita l'antico sogno dell'Egitto: addestramento obbligatorio alla subordinazione per tutti. La scuola dell'obbligo era il segreto che Platone inserì riluttante nella Repubblica quando stabilì i piani per il totale controllo statale della vita umana.

Il dibattito corrente circa l'opportunità di avere un programma di studi nazionale è falso; ne abbiamo già uno, fissato nelle sei lezioni di cui vi ho parlato più qualcuna che vi ho risparmiato. Questo programma di studi produce paralisi morale ed intellettuale e nessun programma di studi sarà sufficiente per invertire i suoi effetti maligni. Ciò di cui si sta discutendo è del tutto irrilevante.

Niente di tutto ciò è inevitabile, sapete. Niente di tutto ciò è impermeabile al cambiamento. Abbiamo una scelta su come far crescere i giovani; non c'è un modo giusto. Non c'è “competizione internazionale” che costringa la nostra esistenza, per quanto sia difficile persino pensarlo a fronte del costante sbarramento dei media del mito contrario. Per quanto concerne ogni importante aspetto materiale la nostra nazione è autosufficiente. Se avessimo una filosofia non materiale che trova il significato dove è davvero situato – nella famiglia, negli amici, nel passaggio delle stagioni, nella natura, nelle semplici cerimonie e rituali, nella curiosità, nella generosità, nella pietà e nel servizio agli altri, in un'indipendenza ed in una sfera privata rispettabili – allora noi saremmo davvero autosufficienti.

Come hanno fatto ad apparire questi posti terribili, queste “scuole”? Come li conosciamo, sono un prodotto dei due “Terrori Rossi” del 1848 e del 1919, quando interessi potenti temevano una rivoluzione tra i nostri poveri delle industrie e sono parzialmente il risultato della repulsione con cui le famiglie di antico lignaggio vedevano le ondate di immigrazione celtica, slava e latina – e la religione cattolica – dopo il 1845. E certamente una terza causa che ha contributo si può trovare nella repulsione con cui queste stesse famiglie vedevano la libera circolazione degli africani nella società dopo la Guerra Civile.

Riguardate le sei lezioni della scuola. È un addestramento per sottoclassi permanenti, gente che dev'essere privata per sempre della capacità di individuare il centro del proprio genio particolare. Ed è un addestramento tratto dalla sua logica originale: regolamentare i poveri. Dagli anni 20 la crescita della ben articolata burocrazia scolastica, e quella meno visibile di un'orda delle industrie che profittano dall'istruzione esattamente com'è, ha allargato la stretta originaria dell'istruzione per sequestrare anche i figli e le figlie della classe media.

Dovrebbe meravigliare che Socrates si sentì oltraggiato dall'accusa di aver preso dei soldi per insegnare? Anche allora, i filosofi vedevano chiaramente il corso inevitabile che il professionalizzare l'insegnamento avrebbe preso, appropriandosi della funzione dell'istruzione che in una comunità in buona salute appartiene a tutti; appartiene, in effetti, soprattutto a noi stessi, dato che nessun altro si preoccupa tanto del nostro destino. L'insegnamento professionistico tende ad un altro grave errore. Rende difficili cose che sono di per sé facili da imparare, come la lettura, la scrittura e l'aritmetica – insistendo che vengano insegnate con procedure pedagogiche.

Con le lezioni come quelle che io insegno giorno dopo giorno, dovrebbe meravigliare se oggi abbiamo la crisi nazionale che affrontiamo? Giovani indifferenti al mondo adulto ed al futuro; indifferenti a quasi tutto tranne la diversione dei giocattoli e della violenza? Ricchi o poveri, gli scolari non possono concentrarsi su qualcosa per troppo a lungo. Hanno poco senso del tempo passato e futuro; diffidano dell'intimità (come i figli di divorziati che sono in realtà); odiano la solitudine, sono crudeli, materialisti, dipendenti, passivi, violenti, timidi di fronte all'inatteso, dipendenti dalle distrazioni.

Tutte le tendenze periferiche dell'infanzia sono ingrandite in misura grottesca dall'istruzione, il cui programma di studi occulto impedisce l'efficace sviluppo della personalità. Effettivamente, senza sfruttare le paure, l'egoismo e l'inesperienza dei bambini le nostre scuole non potrebbero affatto sopravvivere, né potrei farlo io come insegnante certificato.

“Pensiero critico” è un termine che sentiamo frequentemente in questi giorni come forma di addestramento che annunzierà un nuovo giorno per la scuola di massa. Sarebbe certamente così, se mai dovesse succedere. Nessuna scuola comune che abbia davvero osato insegnare l'uso della dialettica, dell'euristica e di altri strumenti delle menti libere non è durata un anno senza essere fatta a pezzi.

Gli insegnanti istituzionali sono distruttivi per lo sviluppo dei bambini. Nessuno sopravvive indenne al programma di studi in Sei Lezioni, neppure gli istruttori. Il metodo è profondamente anti-educativo. Nessuna pezza potrà aggiustarlo. In una delle grandi ironie degli affari umani, la massiccia revisione che le scuole richiedono costerebbe così tanto di meno di quello che stiamo spendendo ora che non è probabile che accada. Prima di tutto, quello di cui faccio parte è un business di posti di lavoro e contratti d'affitto. Non possiamo permetterci di risparmiare soldi, neppure per aiutare i bambini.

Al passaggio a cui siamo giunti storicamente, e dopo 26 anni di insegnamento, devo concludere che una delle uniche alternative all'orizzonte per la maggior parte delle famiglie è di insegnare ai propri bambini in casa. Le scuole piccole, de-istituzionalizzate, sono un'altra. Qualche forma di sistema di mercato per l'istruzione pubblica è il luogo più probabile per cercare delle risposte. Ma la quasi impossibilità di queste cose per le famiglie spaccate dei poveri, e per troppe persone ai bordi della classe economica media, lascia prevedere che il disastro delle scuole delle Sei Lezioni probabilmente continuerà.

Dopo una vita adulta passata insegnando la scuola credo che il metodo di istruzione sia l'unico contenuto reale che abbia. Non fatevi ingannare dal pensiero che i buoni programmi di studi o i buoni insegnanti o le buone attrezzature siano i fattori determinanti nella giornata di scuola dei vostri figli. Tutte le patologie che abbiamo considerato si verificano in larga misura perché le lezioni scolastiche impediscono ai bambini di mantenere appuntamenti importanti con loro stessi e le loro famiglie, di imparare le lezioni dell'auto-motivazione, della perseveranza, della fiducia in sé stessi, del coraggio, della dignità e dell'amore – e, naturalmente, le lezioni del servizio agli altri, che sono fra le lezioni chiave della vita domestica.

Trent'anni fa queste cose potevano ancora essere imparate nel tempo lasciato dopo la scuola. Ma la televisione ha divorato la maggior parte di quel tempo, e una combinazione di televisione e degli sforzi peculiari delle famiglie a doppio reddito o con un solo genitore ha inghiottito la maggior parte del tempo della famiglia. Ai nostri ragazzi non rimane tempo per crescere come esseri umani completi, ed hanno soltanto terreni incolti dove farlo.

Un futuro sta scorrendo giù veloce sulla nostra coltura che richiederà che tutti noi impariamo la saggezza dell'esperienza non materiale; questo futuro richiederà, come prezzo della sopravvivenza, che seguiamo un ritmo di vita naturale economico nei suoi costi materiali. Queste lezioni non possono essere imparate nelle scuole così come sono. La scuola è come cominciare la vita con una sentenza di 12 anni di prigione in cui le cattive abitudini sono l'unico programma di studi davvero imparato. Insegno a scuola e vinco dei premi facendolo. Dovrei saperlo.

Monday, June 7, 2010

The Story of Your Enslavement

Video di Stefan Molineux. Molti altri simili li potete trovare nel suo canale su youtube, Freedomain Radio.

Sunday, June 6, 2010

La generazione perduta

L'autore del seguente articolo, che descrive efficacemente i problemi che l'economia spagnola sta affrontando, si chiama Jaime Levy Moreno ed è solo uno studente universitario spagnolo.

Ma la sua impietosa analisi è più chiara di qualsiasi altra possiate trovare su quelle raccolte di veline chiamate giornali, ed è ugualmente valida per illustrare la situazione di un'altra triste nazione: è sufficiente sostituire la parola Spagna con Italia.
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Di Jaime Levy Moreno


Negli ultimi due decenni nell'Europa mediterranea e particolarmente in Spagna, è emerso un nuovo gruppo sociale, chiamato jovenes (giovani). I membri di questo gruppo esibiscono parecchie caratteristiche specifiche. Per prima cosa, i jovenes sono solitamente maschi, tra i 25 e i 35 anni, anche se alcuni membri sono nei 40. Secondo, sono in una condizione perpetua fra la scuola ed il loro primo lavoro. Terzo, vivono solitamente con i loro genitori per risparmiare i soldi che gli permettono di uscire almeno tre volte la settimana. Quarto, lavorano occasionalmente part-time – se non altro per la pressione imposta loro dai genitori. Infine, la cosa più importante, ricevono sussidi di disoccupazione e rinnovano la loro iscrizione alla “lista di disoccupazione” di tanto in tanto, di modo che le sovvenzioni statali non si esauriscono durante il loro letargo “provvisorio.”

Sarebbe molto ingiusto dar loro tutta la colpa per la loro mancanza di iniziativa. Hanno una parte vitale in quella che è chiamata la “generazione di Atlante.” Hanno il peso del mondo sulle loro spalle, e saranno quelli che dovranno pagare i peccati economici dei loro genitori. È importante analizzare le ragioni per le quali è apparso questo gruppo sociale, qual è la situazione oggi e quali saranno le conseguenze di questo fenomeno in futuro.

Per gli ultimi dieci anni e particolarmente da quando la recente crisi finanziaria è cominciata, la disoccupazione spagnola è aumentata astronomicamente, raggiungendo il record di circa il 20 per cento. Questo, naturalmente, non comprende le migliaia di immigrati illegali, che non compaiono nelle statistiche ufficiali di stato.

Oltre all'ampio numero di disoccupati, un altro significativo gruppo di persone lavora part-time con “ contratti spazzatura” o stipendi molto bassi. I membri di questo gruppo sono chiamati mileuristas (coloro che guadagnano solo 1,000€/mese). Questo gruppo appare sopra i jovenes nella piramide sociale. I mileuristas normalmente vivono in casa dei genitori e sognano di diventare alla fine economicamente autosufficienti, o vivono in appartamenti in affitto poco costosi finanziati da soldi dello stato, che vengono direttamente dalle tasche dei contribuenti.

Infine, troviamo un gruppo più piccolo in cima alla piramide. Questo gruppo è costituito o da pochi fortunati, o in alcuni casi, da giovani laboriosi e in genere eccezionali. Questo gruppo ha impieghi molto rispettabili (normalmente con stipendi iniziali intorno ai 2,000€/mese) e sono i figli e le figlie di famiglie ricche che ricevono normalmente un'istruzione privata di qualità più o meno alta. Finiscono impiegati nell'azienda di famiglia o in qualche ditta con cui i loro genitori o familiari hanno dei contatti.

Al di fuori di questa piramide troveremo inoltre un gruppo di persone che decidono di studiare per un “oposición” (esame di stato) per lavorare per il governo. Secondo la complessità della loro formazione ed il loro successo all'esame, finiranno per lavorare per la prima volta fra i 26 e i 35 anni e saranno pagati decentemente, o persino molto bene, per il resto delle loro vite.

È inoltre molto importante prestare una particolare attenzione al numero di anni in cui si viene chiamati “studenti” in Spagna. La qualità di una laurea si è svalutata negli ultimi anni al punto in cui un datore di lavoro non sarà affatto impressionato da un diplomato in un'intervista di lavoro. Di conseguenza, è richiesta almeno una laurea o un certo genere di specializzazione accompagnato dalla competenza in almeno tre lingue. Questo, naturalmente, significa più anni da passare come studente e, per i più privilegiati, un anno o due per vivere e studiare le lingue straniere all'estero.

Non molto tempo fa in Spagna, era un onore avere un diploma e ancor più prestigioso l'avere una laurea, che soltanto poche persone poteva ottenere a causa del costo e del duro lavoro che comportavano. Ora studiare in un'università pubblica spagnola è quasi gratis. Questo è visto come un grande successo che offre opportunità alle persone delle classi più basse, che a volte finiscono per far parte del gruppo dei “giovani eccezionali e duri lavoratori.” Ma, per essere onesti, questo gruppo è abbastanza piccolo. Lo sforzo per rendere più facile essere uno studente è in gran parte un modo per il governo di abbassare il tasso di disoccupazione.

Per spiegare perché per i neo-laureati è così difficile ottenere un lavoro rispettabile in Spagna, è importante sapere che il costo della manodopera è molto alto per i datori di lavoro – una conseguenza delle leggi rigorose che proteggono i lavoratori. Una vacanza di quattro settimane l'anno è il minimo obbligatorio. Un salario minimo artificialmente alto pone un limite sotto l'offerta di lavoratori e la domanda di impieghi, generando uno squilibrio devastante. Ciò significa che c'è un'enorme domanda di lavoro e poca voglia da parte dei datori di lavoro di soddisfarla.

I motivi supplementari per la mancanza di offerte di lavoro in Spagna includono l'eccessivo finiquito, la paga finale a cui un lavoratore ha diritto per la legge spagnola una volta licenziato: 45 giorni di stipendio per ogni anno passato nell'azienda. Ancora, le tasse sui datori di lavoro sono molto alte – almeno il 50 per cento dello stipendio annuale di ogni lavoratore, il che significa che se qualcuno è pagato 20,000€ l'anno, ne costa al suo datore di lavoro almeno 30,000€. Tutto questo rende un datore di lavoro molto riluttante ad impiegare qualcuno, il che genera un tasso alto di disoccupazione ed un gran numero di “contratti spazzatura.” Queste tasse promuovono inoltre le attività del mercato nero, che o schivano le regole stabilite o le ignorano completamente.

Le tasse sugli stipendi degli impiegati sono anch'esse molto alte, il che ci riporta alla condizione sociale di mileurista. Queste tasse generano un effetto sostitutivo: le ditte cercano disperatamente di ridurre l'impatto del lavoro con le nuove tecnologie. Un esempio recente in Spagna è la mossa di McDonald's di cominciare a sostituire i lavoratori con delle nuove macchine che prendono gli ordini per il cliente, riducendo il numero degli operai. L'obiettivo è di lasciare soltanto due gruppi di impiegati: quelli in cucina e quelli che vi passano i cibi al banco.

Le sfortune della Spagna sono state complicate dall'entrata nell'eurozona. La possibilità di ottenere tassi d'interesse molto bassi per prendere soldi in prestito – gli stessi tassi d'interesse di economie più potenti e orientate al risparmio – come la Germania – ha incentivato le aziende a prendere prestiti per costruire alloggi e infrastrutture. Circa 800.000 case sono state costruite ogni anno in Spagna, più di Francia, Germania ed Inghilterra insieme. Questo si è trasformato in un impulso nell'offerta di lavoro nell'industria edilizia. Purtroppo, questa domanda di manodopera è stata soddisfatta principalmente da immigrati che ora si trovano disoccupati con poche possibilità. Gli enormi prestiti per finanziare questo boom immobiliare, in particolare delle “cajas” (casse di risparmio) spagnole, ora non possono essere ripagati e sono risultati in un enorme operazione di salvataggio del governo.

Di conseguenza, il governo spagnolo ha creato un debito sempre più grande, finanziato con l'emissione continua di nuovi bond. Questi prestiti ha spossato le finanze pubbliche spagnole, abbassato il suo rating, e ridotto la domanda degli investitori per continuare a finanziare questa spesa di deficit.

Allo stesso tempo, la crisi ha causato un severo declino negli introiti fiscali, particolarmente nelle tasse come l'IVA (imposta sul valore aggiunto). Di conseguenza lo stato ha ricevuto meno redditi ed in risposta ora sta aumentando le imposte sui consumi per coprire il deficit (effettivo il mese prossimo). Questo aumento delle tasse, alla fine, si tradurrà in minore spesa e profitti ridotti per tutti i produttori. Renderà inoltre la Spagna un posto non molto attraente per le aziende mondiali che volessero iniziare o continuare la loro attività.

Tutti questi effetti, infine, significheranno più disoccupazione, che ci riporta alla giovane “generazione di Atlante.” Ironicamente, molti membri di questa generazione hanno una fiducia totale che il governo si prenderà cura di tutte questi problemi per loro. Scelgono di stare a casa dei genitori fino alla mezza età e rimandano il matrimonio e il farsi una famiglia fino ad oltre i 30 anni. Inoltre hanno il problema di un debito sempre più enorme, di cui alla fine dovranno occuparsi.

Se le attuali tendenze continuano, entro pochi anni in Spagna ogni impiegato dovrà pagare un pensionato della previdenza sociale. Soltanto 40 anni fa, dieci impiegati si prendevano cura di un pensionato con i loro contributi della sicurezza sociale. La generazione di Atlante, rinviando matrimonio e figli, ha peggiorato questo squilibrio tra lavoratori e pensionati. Il tasso annuale di nascite per donna fertile in Spagna è soltanto l'1,2, uno dei più bassi nel mondo e probabilmente diminuirà durante gli anni venturi.

L'unico modo per risolvere questo problema sarebbe di abbassare drasticamente le tasse, in particolare le tasse sull'occupazione. Agire in tal modo incoraggerebbe i datori di lavoro ad offrire più posti di lavoro e gli impiegati ad avere famiglie più grandi. Purtroppo, questa opzione non interessa molto i politici spagnoli, che preferiscono mantenere lo status quo socialista a prescindere da quale partito politico è al potere.

Monday, May 31, 2010

Lo Stato sono Loro

Ricevo e pubblico con piacere un nuovo articolo dell'amico Gian Piero de Bellis, del sito panarchy.org, che si occupa stavolta di uno dei più perniciosi dogmi della dottrina democratica: l'identificazione dei sudditi con lo stato che li opprime.
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Di Gian Piero de Bellis


Una delle frasi storiche più famose è quella attribuita al giovane Luigi XIV, ancora sotto la tutela del Cardinal Mazarino, e desideroso di liberarsi da qualsiasi potere che lo limitasse: “L’Etat c’est Moi,” lo Stato sono Io.

Che questa frase sia stata o meno pronunciata da Luigi XIV non ha molta importanza. Quello che invece conta è il fatto che essa raffiguri un dato della realtà tuttora valido e cioè che lo Stato non è altro che l’organizzazione dell’esercizio del potere sugli altri e che colui che ne è al vertice e che gode di un potere assoluto è identificabile con l’entità stessa.

Nei decenni successivi, e soprattutto a partire dalla Rivoluzione Francese, lo Stato è diventato sempre meno una entità personale e sempre più una macchina burocratica. Il tramonto dell’aristocrazia, l’ascesa della borghesia e l’entrata in scena delle masse hanno condotto ad un accrescimento smisurato della struttura statale a tal punto che Bastiat, alla ricerca di una definizione di cosa fosse lo Stato, se ne venne fuori con una frase geniale: “Lo Stato è la grande illusione attraverso la quale tutti sperano di vivere alle spalle di tutti gli altri.”

Lo stato nazionale moderno è quindi un apparato gigantesco che penetra negli animi e nelle menti di tutti, sfruttatori e sfruttati, agli uni concedendo laute pappagioni e agli altri distribuendo semplici illusioni. In sostanza, a partire dall’ottocento, tutti o quasi tutti sembrano essere partecipi di questo mastodonte che è lo stato, foraggiandosi o sperando di foraggiarsi o anche solo illudendosi di essere foraggiati.

Lo stato si intrufola in tutti gli interstizi sociali, in tutte le associazioni e istituzioni messe in piedi da gruppi sociali e le assorbe sotto la sua ala apparentemente protettrice ma in realtà soffocante. Alexis de Tocqueville ha descritto molto bene questa situazione in cui lo Stato, dopo essersi sovrapposto alla società annientandola, appare poi come l’unica forma sociale possibile e immaginabile.

E dal momento che noi tutti, a meno di non soffrire di gravi patologie della psiche, siamo esseri più o meno sociali, e la nostra vita è fatta in gran parte di relazioni sociali, ne deriva che molti hanno cominciato a confondere lo stato con la società o addirittura a pensare che senza lo Stato non esiste la Società.

Il passaggio logico successivo è la formulazione di quella che è diventata una convinzione diffusa: Lo Stato siamo Noi.

Questa convinzione si basa sul seguente sillogismo:
Lo Stato è la Società
Noi facciamo parte della Società
Noi siamo lo Stato o, altrimenti detto, lo Stato siamo noi.
Il problema è che questo strampalato sillogismo poggia su una premessa del tutto fasulla: lo Stato non è la Società. La Società, qualsiasi società, è esistita prima dello Stato che non è altro che una recente forma di organizzazione politica territoriale di tipo monopolistico.

Questa identificazione è resa possibile anche per il fatto che gli intellettuali asserviti allo stato si sono riempiti la bocca della parola astratta: Società, mentre avrebbero fatto meglio a usare al suo posto una locuzione concreta come: gli individui e le loro relazioni sociali. In effetti la Società non esiste se non in quanto esistono gli individui che si relazionano tra di loro. Purtroppo l’uso manipolativo di una astrazione (la Società) fa cadere nella trappola di una realtà concreta (lo Stato) presentata come indispensabile; e questo è il risultato nefasto prodotto dagli intellettuali da strapazzo pagati dallo stato come docenti prezzolati o scribacchini a giornata o manipolatori televisivi.

Se noi usiamo invece realtà concrete come Francesca, Giovanni e Teresa, la prima che lavora a Biandrate al Bar dello Sport, l’altro che è a studiare a Reading in Inghilterra, e la terza che è casalinga a Bollate, e diciamo che essi, assieme molti altri, sono lo Stato Italiano, allora l’imbroglio è presto smascherato e la presa in giro o truffa intellettuale è praticamente impossibile. Se poi ci mettiamo dentro Hassan l’emigrato dal Marocco che fa il muratore a Sesto San Giovanni o Alì in fuga dalle persecuzioni di qualche cricca al potere, e diciamo che lo Stato sono anche loro (quale Stato?), allora l’inganno diventa talmente visibile nella sua indecente e lercia immoralità che anche l’ultimo degli ingenui ci penserebbe due volte prima di dire che lo Stato siamo Noi.

Allora dobbiamo ritornare alla realtà di Luigi XIV, alla sua presunta ma quanto mai vera affermazione e attualizzarla. Ai tempi nostri mentre non è più concepibile che qualcuno possa dire: Lo Stato sono Io, è invece non solo plausibile ma anche estremamente veritiero affermare: Lo Stato sono Loro.

E per loro intendiamo tutti coloro che, basandosi sull’imposizione fiscale e cioè sull’estrazione forzata del pizzo, ricevono il loro reddito dallo Stato (i burocrati, i militari, i docenti universitari, ecc.), ricevono sovvenzioni dallo Stato (i giornalisti, gli industriali delle corporazioni, ecc.) ricevono privilegi dallo Stato in quanto facenti parte di albi professionali riconosciuti dallo Stato (i notai, gli avvocati, i commercialisti, ecc) o di enti riconosciuti dallo Stato (ad es. le banche).

Alcuni di costoro possono essere contro lo Stato e non riconoscersi nello Stato, ma la grande maggioranza di essi sono lo Stato. Loro sono lo Stato.

Questo è il Loro Stato che a molti di noi non interessa minimamente e da cui vogliamo scappare come vuole scappare colui che è tenuto prigioniero da un gruppo di banditi per il pagamento di un riscatto, soggetto ad uno strozzinaggio infinito che nelle intenzioni dei banditi dovrebbe durare tutta la vita.

In sostanza, quando qualcuno vuole inserirti controvoglia nel Loro Stato tirando fuori la bidonata assoluta che lo Stato siamo tutti Noi, allora è bene chiarire, con le buone maniere ma fermamente, che si declina l’invito a fare parte di una organizzazione di magnaccia bancarottieri, guerrafondai e beceri xenofobi e che si hanno invece ambizioni più elevate e di più largo raggio che non quella di far parte di un pollaio nazionale. Al tempo stesso si può far rassicurare l’interlocutore che lui assieme ad altri possono continuare a sostenere e a sentirsi parte del Loro Stato perché lo Stato è in effetti Loro e Loro sono lo Stato. Però si dovrebbe fare gentilmente ma vigorosamente presente che, come nessuno chiede agli altri di pagare le proprie spese condominiali o il proprio conto al ristorante, così è bene che Loro comincino a pagare le spese del Loro Stato perché il tempo dell’estorsione del pizzo sta rapidamente volgendo al termine.

Solo allora si moltiplicheranno gli individui liberi impegnati a sviluppare libere relazioni sociali e le società, cioè le reti volontarie di individui come Teresa, Hassan, Miguel e Peter, potranno finalmente rifiorire.

Sunday, May 30, 2010

La loro Africa

Il colonialismo, nell'era della neolingua, si chiama “aiuto internazionale.” Questa nuova forma di colonialismo calpesta la dignità degli uomini che pretende di aiutare per mascherarsi da solidarietà.

Per questo Dambisa Moyo, l'autrice del libro La carità che uccide, propone l'immediata eliminazione degli aiuti ai cosiddetti paesi in via di sviluppo: gli aiuti ai governi fanno crescere i governi, non le economie. Infatti, nel suo libro The Bottom Billion, Paul Collier mostra come il 40% delle spese militari in Africa siano pagate con gli aiuti stranieri.
La “solidarietà” coloniale alimenta quegli stessi problemi che usa per giustificare sé stessa.

Nel continente africano, tra il 1970 e il 1998, sono stati immessi oltre un trilione di dollari in “aiuti,” e la povertà è aumentata dall'11% al 66%. Un trilione di dollari che, oggi, farebbero comodo anche nel “ricco” occidente. Il risultato non è stata una redistribuzione di ricchezza, ma una diffusione globale della miseria.





Monday, May 24, 2010

Il pensiero fa marcire la mente!

Niente dà più fastidio alle autorità costituite di tutto ciò che è libero, tanto che ogni crisi, ogni problema che lo stato mostra di non saper risolvere viene regolarmente attribuito a quelle cose che in qualche misura si possono ancora considerare – o anche solo chiamare – libere.

Un esempio recente di questa attitudine è senz'altro la crisi economica, provocata, come i nostri benefattori non si stancano mai di ripetere, dal mercato libero, troppo libero anche se servirebbe un microscopio elettronico per riuscire a misurare i gradi di differenza tra il nostro attuale ambiente economico e quello della fu Unione Sovietica.

Ma se c'è una cosa - tra quelle libere – che fa davvero saltare i nervi ai gestori del potere, è senza dubbio il libero pensiero, quella pervicace attitudine dell'individuo che ogni governante della storia ha sempre cercato di estirpare, o almeno di far appassire negandogli il suo indispensabile nutrimento: il flusso libero dell'informazione. Butler Shaffer ci racconta degli attuali sforzi di Obama in questo senso.
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Di Butler Shaffer



“Senza censura, le cose possono diventare terribilmente confuse nella mente del pubblico.

~Gen. William Westmoreland

“È una fortuna per i governanti che gli uomini non pensino.

~Adolf Hitler


In un recente discorso di inaugurazione, il presidente Obama ha dichiarato che “le informazioni diventano una distrazione, una diversione” che mette “pressione sul nostro paese e sulla nostra democrazia.” Le innovazioni tecnologiche – internet compresa – producono “un ambiente mediatico 24 su 24 che ci bombarda con ogni genere di discussioni, alcune delle quali non si qualificano sempre così in alto sulla scala della verità.” Ha aggiunto che “con tante voci che reclamano attenzione sui blog, sui canali tv, sulle radio, può essere difficile, a volte, setacciare tutto – per sapere a cosa credere, per capire chi dice la verità e chi no.” Hillary Clinton espresse simili preoccupazioni alcuni anni fa quando suggerì di creare un “guardiano“ per internet, per impedire che proprio tutti potessero esprimere le loro opinioni in pubblico.

Un libro che sto attualmente scrivendo tratta della domanda epistemologica: come sappiamo ciò che sappiamo? Questa è senza dubbio la domanda più importante che l'umanità dovrà mai affrontare, una domanda che ciò nonostante non riusciamo a farci perché i nostri custodi mentali istituzionali trovano che una tale indagine sia troppo pericolosa e minacci il mantenimento dei loro interessi nello status quo. Se le istituzioni sono organizzazioni che sono diventate il loro stesso motivo di esistere, la nostra indagine su come siamo arrivati ad accettare un simile pensiero potrebbe essere devastante per questi sistemi.

La vita stessa dipende dalla nostra capacità di adattarci creativamente ad un ambiente che cambia. È dalla resilienza – non dalla rigidità – che dipende la vita. Ma per agire per realizzare fini favorevoli alla vita, dobbiamo potere identificare, analizzare ed agire in base alle condizioni che ci troviamo di fronte. Ecco perché la libertà è centrale per la sopravvivenza umana, dato che permette alle persone di rispondere alle circostanze secondo il consiglio del loro giudizio individuale. Ma la loro efficacia dipenderà dalla loro capacità di pensare liberamente, così come dalla natura realistica ed esatta delle informazioni sulla base delle quali devono agire.

Il problema che incontriamo è che l'informazione è molto ambigua, incompleta e di qualità definita soggettivamente. Ciascuno di noi cerca, scopre e valuta le informazioni in accordo con le domande delle nostre precedenti esperienze. Oltre a questo, lo studio del “caos” ci dice che il nostro universo è troppo interconnesso con reti di variabilità per permetterci di conoscere tutto ciò che influenza le nostre decisioni. La nostra capacità di predire risultati richiede una “sensibile dipendenza dalle condizioni iniziali,” che si traduce nel nostro essere in grado non solo di identificare tutti i fattori che influenzano gli eventi, ma anche di misurare il grado preciso della loro influenza (se ne dubitate, provate a predire i precisi eventi che si verificheranno nella vostra vita per i prossimi sette giorni).

Incerta com'è, la qualità delle informazioni a nostra disposizione è un fattore principale nel determinare come dobbiamo vivere. Una delle caratteristiche principali di un imprenditore si trova nella sua capacità di identificare ed agire sulla base di informazioni che gli altri non vedono. Se ho trovato una fonte di gingilli che posso comprare a 10 dollari l'uno e so di un consistente gruppo di persone che (a) non sia informato di questa fonte, (b) è disposto a pagarmi 20 dollari ogni gingillo e (c) i miei costi per farli arrivare a questo mercato ammontano a solo un dollaro l'uno, probabilmente farò un affare.

L'informazione è inoltre al centro del nostro agire sociale e politico. Un capo tribù basava la sua autorità sui nostri più primitivi antenati avvertendoli delle minacce esterne – note solo a lui – e del suo speciale contatto con gli dei che lo avrebbero assistito nel suo comando. Come abbiamo visto più di recente, la paura ci induce a radunarci intorno a coloro che ci promettono protezione. Ciò è dovuto alla nostra innocente credenza che i nostri presunti “protettori” abbiano a disposizione più informazioni di noi.

Nel tempo, le informazioni fornite non solo dagli altri, ma dalle nostre stesse esperienze, ci dicono non solo che coloro ai quali abbiamo affidato il potere non godono di un maggiore accesso alla “verità” ma, in più, che la maggior parte delle paure che ci incutono sono state fabbricate e propagandate dagli stessi cercatori di potere. Ricordate tutte quelle “armi di distruzione di massa” con le quali gli iracheni progettavano di attaccarci? Avete sentito parlare di quell'inventata “glaciazione in arrivo” (oops, “riscaldamento globale,” oops, “cambiamento climatico”) che continua ad essere modificata ed impiegata negli sforzi politici per controllare la nostra vita quotidiana?

Johann Gutenberg dimostrò al mondo che il flusso libero di informazioni è molto liberatorio. La sua invenzione dei caratteri mobili ha consentito ad uomini e donne di leggere ed informare le loro menti, senza bisogno di figure autoritarie che spiegassero loro la natura delle cose. Il lavoro di Gutenberg è responsabile non solo della Riforma, ma di gran parte del Rinascimento, dell'Illuminismo, dell'era scientifica e, infine, del più creativo e liberatorio di tutti i periodi, la Rivoluzione Industriale.

Col passare del tempo, gli esseri umani hanno cominciato a vedere quanto l'informazione fosse personalmente rilevante alla qualità delle loro vite. Allo stesso tempo, gli uomini del racket politico i cui interessi dipendevano dal fatto che le loro vittime rimanessero in una condizione d'ignoranza controllata istituzionalmente, hanno visto minacciato il loro potere. In una forma o nell'altra, i maniaci del controllo hanno abbracciato la censura e il bruciare libri. Furono le menti delle persone, non solo i loro corpi, ad essere bruciate sulle pire. Fahrenheit 451 di Ray Bradbury mostra fino a che punto uno stato totalitario potrebbe arrivare per conservare il proprio controllo sulla mente delle persone. Mark Twain espresse tale idea in modo più ironico quando disse: “La verità è la cosa di maggior valore che abbiamo. Usiamola con parsimonia.”

Le tecnologie computerizzate continuano ad inventare nuovi sistemi per la creazione e la comunicazione di informazioni, il più familiare dei quali è internet. Creato come rete interna per le agenzie militari, si è diffuso rapidamente – come un genio liberato dalla lampada – nel resto della società. In breve tempo decine di milioni di persone stavano comunicando con innumerevoli altri ogni materiale avessero scelto di trasmettere e ricevere. Il modello del flusso di informazioni strutturato verticalmente che si trova nelle scuole, nelle religioni, nei media e nel governo – basato sull'idea che “vi diremo noi quello che vogliamo che sappiate” è collassato in reti orizzontali gestite da nessuno che abbia un potere monopolista di controllarne i contenuti. Vostro zio Harlow o vostra nipote Marcia possono diventare fonti d'informazione per altri che scegliessero di leggere le loro opinioni.

Ma l'influenza liberatoria dell'informazione a flusso libero è risultata essere un disturbo per i membri dell'establishment dello stato corporativo la cui autorità sugli altri dipende dal mantenimento di una forma mentale subordinata. L'informazione porta le persone a riflettere sulla situazione della loro vita. Cominciano a vedere le bugie, la corruzione, le frodi, la violenza ed il saccheggio che sono stati impiegati – con l'aiuto della propaganda assicurata dalle scuole e dai mass media – per mantenerle nella loro condizione servile. Come gli abitanti disillusi della Fattoria degli Animali, le greggi hanno cominciato a disperdersi. Le pecore stanno abbandonando i loro ovili; il bestiame si precipita verso pascoli più verdi.

Il burattino presidenziale dell'establishment avverte gli americani che le “distrazioni” prodotte dal flusso libero di informazioni ed opinioni creerà più “pressioni.” Un dizionario definisce “pressione” come “l'azione di una forza contro una forza opposta.” Le classi dirigenti non possono tollerare simili influenze compensatrici che rovescerebbero lo status quo che vogliono mantenere. Perché farlo equivarrebbe a riconoscere la legittimità di interessi diversi dai loro. Del resto, lo sforzo per distinguere la “verità” dalla “falsità” impone una grave peso sulla mente individuale. La maggior parte di noi è contenta di permettere che altri sopportino questo peso per noi; di lasciare che le scuole e i media ci forniscano il livello ottimale di conoscenza e di comprensione con il quale possiamo funzionare nelle stalle a noi assegnate come utili servomeccanismi istituzionali. I custodi del nostro pensiero potrebbero riassumerci il loro messaggio con le parole implicite nel discorso del presidente Obama ai neodiplomati: “limitate il vostro pensiero a ciò che è nel nostro interesse farvi sapere. Noi vi terremo informati.”

Wednesday, May 19, 2010

Politica e statistica #2

Di Murray Rothbard


Uno dei principali fondatori della moderna inchiesta statistica in economia fu sicuramente Wesley C. Mitchell. Non c'è dubbio che Mitchell aspirava a porre le basi per la pianificazione “scientifica” del governo. Così:
[Citando da Mitchell] “il tipo di invenzione sociale più necessario oggi è chiaramente quello che offre tecniche definite con cui il sistema sociale possa essere controllato e manovrato per il vantaggio ottimale dei suoi membri.” A questo scopo [Mitchell] cercò costantemente di estendere, migliorare e raffinare la raccolta e la compilazione dei dati…. Mitchell credeva che l'analisi del ciclo economico… avrebbe potuto indicare il mezzo per il successo dell'ordinato controllo sociale dell'attività economica. [12]
E:
[Mitchell] vedeva il grande contributo che il governo avrebbe potuto dare alla comprensione dei problemi economici e sociali se i dati statistici raccolti indipendentemente da vari enti federali fossero stati sistematizzati e pianificati in modo che le correlazioni fra essi potessero essere studiate. L'idea di sviluppare la statistica sociale, non soltanto come registro ma come base per la pianificazione, emerse presto nel suo lavoro. [13]
Il resoconto dell'aumento degli enti statistici del governo federale differisce poco dagli esempi di cui sopra. L'Ufficio del Budget, durante l'amministrazione non rabbiosamente socialista del presidente Eisenhower, spiegava il continuo aumento delle statistiche federali come segue:
La crescita e la prosperità della nazione hanno richiesto un comportamento illuminato degli affari pubblici con l'aiuto di informazioni fattuali. La responsabilità ultima del governo federale nell'assicurare la salute dell'economia nazionale è stata sempre implicita nel sistema americano. [14]
Quindi, parlando dell'era del New Deal dopo il 1933, l'ufficio aggiunse:
Si cominciò a comprendere nel congresso e nelle alte cerchie dell'amministrazione che proposte sane e positive per combattere la depressione avevano richiesto un'analisi basata su informazioni certe. Di conseguenza… l'espansione statistica venne ripresa ad un passo accelerato. [15]
È sufficiente allora dire che una causa principale della proliferazione delle statistiche governative è il bisogno di dati statistici nella pianificazione economica di governo. Ma il rapporto funziona anche al contrario: lo sviluppo delle statistiche, spesso aumentate in origine nel loro stesso interesse, finisce per moltiplicare le vie di intervento del governo e della pianificazione. In breve, le statistiche non hanno bisogno di essere elaborate originariamente per fini politico-economici; il loro stesso sviluppo autonomo, direttamente o indirettamente, apre nuovi campi da sfruttare per gli interventisti.

Ogni nuova tecnica statistica, che sia flusso di fondi, economia interindustriale, o analisi di attività, in breve acquisterà la propria posizione ed applicazione nel governo. Un esempio particolare è l'analisi input-output, che ebbe inizio come tentativo puramente teorico di fornire contenuto empirico al sistema walrasiano dell'equilibrio generale. È ora arrivata al punto in cui i suoi campioni la acclamano perché fornisce
un'immagine integrata del meccanismo industriale. Credono che possa misurare con buona esattezza i cambiamenti nei rapporti interindustriali che seguirebbero a presupposte variazioni “nel conto finale delle merci…” In pratica, la variazione più importante nel conto delle merci è quello richiesto dal riarmo su grande scala. Non provoca molto stupore, quindi, che la maggior parte dello sviluppo e dell'applicazione degli studi dell'input-output è stata collegata con la mobilizzazione industriale. [16]
Ci sono altre ragioni per le quali l'orientato statisticamente tenderà a diventare interventista. Per prima cosa, lo statistico economico tenderà ad essere insofferente verso ogni teoria considerandole “speculazioni da poltrona,” e quindi tenderà a sostenere il tipo di pianificazione governativa graduale, pragmatica, decidi-ogni-caso-nel-“merito.” È forse vero, come dichiara Stigler, che pochi economisti empirici sono diventati autentici socialisti o comunisti; un tale percorso sarebbe troppo teorico per loro. Ma nemmeno sono diventati aderenti del laissez-faire; invece, il metodo caso-per-caso e ad hoc li guida lungo il percorso di un confuso interventismo governativo.

Non so se, come afferma Stigler, “l'ala più radicale dei sostenitori del New Deal non si era distinta per la propria conoscenza empirica dell'economia americana.” Ma certamente i Tugwell e gli Stuart Chase e i vebleniani proclamarono il loro empirismo abbastanza spesso. E gli storici del New Deal, in genere, lo elogiano molto per il suo metodo elastico e pragmatico.

Un'altra ragione per la quale la statistica ed il pragmatismo politico sono reciprocamente congeniali è che lo stesso marchio di riconoscimento del metodo pragmatico è di cominciare cercando i problemi o i “settori problematici” nella società. Il pragmatista cerca le zone dove l'economia e la società non sono esattamente un giardino dell'Eden e queste, naturalmente, abbondano. Povertà, disoccupazione, anziani con scorbuto, giovani con denti cariati – la lista è effettivamente infinita. E mentre ogni problema si moltiplica sotto le cure della sua volenterosa ricerca, il pragmatista esige in maniera sempre più stridula che il governo faccia qualcosa – rapidamente – per risolvere il problema. Soltanto una severa e deduttiva teoria economica aprioristica può insegnargli qualcosa su mezzi e fini, sulla destinazione delle risorse, sul costo di opportunità e sulle altre rigidità della disciplina economica.

Tenendo conto degli argomenti di cui sopra, non meraviglia che i membri conservatori del Congresso, prima che venissero indottrinati nelle moderne delicatezze economiche dal Comitato Misto sul Rapporto Economico, sospettavano molto dell'espansione apparentemente inoffensiva delle attività statistiche federali. Quindi, nel 1945, il rappresentante Frank Keefe, membro repubblicano conservatore del Congresso dal Wisconsin, procedeva all'interrogazione del dott. A. Ford Hinrichs, capo dell'Ufficio delle Statistiche del Lavoro, sulla richiesta di quest'ultimo di un aumento di stanziamenti. Nel corso dell'interrogazione, i dubbi di Keefe circa le statistiche di governo emersero come un grido dal suo cuore – non sofisticato forse, ma almeno di sano istinto conservatore:
Non c'è dubbio che sarebbe bello avere un sacco di statistiche…. Mi sto solo chiedendo se non ci stiamo imbarcando in un programma pericoloso continuando ad aggiungere ed aggiungere ed aggiungere a questa cosa.

Stiamo pianificando e raccogliendo statistiche fin dal 1932 per provare ad affrontare una situazione di carattere interno, ma non siamo mai stati in grado nemmeno di affrontare quella questione…. Ora siamo coinvolti in una questione internazionale…. A me pare che stiamo passando una quantità tremenda di tempo con i grafici e le tabelle e le statistiche e la pianificazione. Quello che interessa alla mia gente è, cos'è tutto ciò? Dove stiamo andando e dove state andando? [17]
Penso che possiamo concludere che la principale differenza fra Stigler e me è questa: per lui un radicale o un non conservatore è essenzialmente un socialista o un comunista. Per me, un non conservatore è qualcuno che predica l'intervento piuttosto che il laissez-faire. La differenza è sostanziale. Se definiamo il conservatorismo come Stigler, allora è vero che la maggior parte degli economisti sono conservatori; se lo definiamo come credere nel laissez-faire, allora la conclusione dev'essere molto diversa. Perché la chiave allora diventa non tanto l'economia e la non economia quanto teoria contro empirismo. Gli empirici tenderanno meno ad essere socialisti completi, ma anch'essi seguiranno generalmente una deriva verso l'intervento. [18]

Eppure, alla fine, è probabilmente vero che persino la percentuale di chi crede nel laissez-faire è molto maggiore fra gli economisti che in altre discipline accademiche, e che il punto “medio” sulla scala ideologica in economia è considerevolmente “sulla destra” della media in altri campi di studio. Sembra che la disciplina economica, di per sé, imponga una variazione verso destra nella fede ideologica. E questa, dopo tutto, è la questione principale dell'articolo di Stigler.

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Note

[12] Joseph Dorfman, The Economic Mind in American Civilization (New York: Viking Press, 1949), 4, pp. 376, 361.

[13] Lucy Sprague Mitchell, Two Lives (New York: Simon e Schuster, 1953), p. 363. Corsivo mio.

[14] Dichiarazione dell'Ufficio del Budget, in Economic Statistics, Udienze di Fronte al Sottocomitato sulle Statistiche Economiche del Comitato Misto per il Rapporto Economico, ottantatreesimo Cong., 2d sess., 12 luglio 1954 (Washington, DC: Ufficio per la Stampa degli Stati Uniti, 1954), pp. 10-12.

[15] Ibid.

[16] Raymond W. Goldsmith, “Introduction,” in Input–Output Analysis, An Appraisal (Princeton, NJ.: National Bureau of Economic Research, 1955), p. 5. Come affermano Hoffenberg ed Evans: “È a causa della necessità di fare un lavoro migliore nell'analisi della mobilizzazione industriale… che sono in corso la maggior parte degli attuali sviluppi nel campo dell'economia interindustriale.” W. Duane Evans e Marvin Hoffenberg, "The Nature and Uses of Interindustry-Relations: Data and Methods," ibid., p. 102. Inoltre vedi ibid., pp. 116ff e le critiche dell'analisi input/output di Clark Warburton e Milton Friedman, ibid., pp. 127, 174.

Un altro esempio dell'analisi input/output come stimolo per la raccolta di statistiche e la pianificazione di governo: “mentre ci può essere un pensiero sistematico fra gli economisti sull'analisi economica applicata a regioni, essi possono offrire pochi consigli ai politici a meno che gli ultimi siano preparati a rendere più facile l'ottenere la materia prima statistica” A.T. Peacock e D.G.M. Dosser, "Regional Input–Output Analysis and Government Spending," Scottish Journal of Political Economy (novembre 1959): p. 236.

[17] Ministero del Lavoro - Legge di Stanziamento FSA per il 1945. Udienze di fronte al Sottocomitato del Comitato della Camera sugli Stanziamenti. settantottesimo Cong., 2d sess., pt. 1 (Washington, DC: Ufficio per la Stampa degli Stati Uniti, 1945), pp. 258ff, 276ff.

[18] Ci sono inoltre profondi motivi epistemologici per l'empirismo nelle “scienze sociali” che tendono verso lo statalismo. Questo coinvolge l'intero problema del positivismo e dello “scientismo.” Su questo, vedi F.A. Hayek, The Counter-Revolution of Science (Glencoe, ifi.: The Free Press, 1952).
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Link alla prima parte.

Monday, May 17, 2010

Politica e statistica #1

I grandi romanzi distopici del passato provarono ad avvertirci di come la rinuncia al primato dell'individuo a favore del collettivismo di stato avrebbe portato alla riduzione in semplici numeri degli esseri umani, numeri da calcolare per aggregati come nell'economia keynesiana. Ma quegli avvertimenti non sono stati ascoltati, e le nostre vite sono oggi solo un segno su qualche tabella negli istituti di statistica.

In questo articolo, publicato 50 anni fa (!) su The Quarterly Journal of Economics nel febbraio 1960, Rothbard spiega come il proliferare delle statistiche – oggi praticamente ubique – sia intimamente legato all'aumento del ruolo e dell'intervento del governo nell'economia.

Prima parte di due.

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Di Murray Rothbard


Durante la sua interessante discussione su “la Politica degli Economisti Politici,” il professor Stigler sfida la presunta opinione del professor Mises per cui “la statistica economica, o più in generale l'economia quantitativa – generano una posizione politica radicale.” [1] Stigler afferma che lo studente empirico acquisisce una “vera sensibilità” per il funzionamento di un sistema economico e “ha le complessità dell'economia impresse a fuoco nella sua anima.” Senza entrare nel merito dell'opinione precisa di Mises sulla questione, penso sia importante notare come Stigler abbia trascurato diverse considerazioni fondamentali.

In primo luogo, le statistiche sono disperatamente necessarie per ogni tipo di pianificazione governativa del sistema economico. In un'economia di mercato, la singola azienda ha poco o nessun bisogno delle statistiche. Deve soltanto conoscere i suoi prezzi e costi. I costi vengono in gran parte scoperti internamente in seno alla ditta e non sono quei dati generali dell'economia che chiamiamo solitamente “statistica.”

Il mercato “automatico,” allora, non richiede virtualmente alcuna collezione di statistiche; l'intervento del governo, dall'altro lato, sia in parte che del tutto socialista, non potrebbe letteralmente far nulla senza una vasta raccolta di mucchi di statistiche. La statistica è l'unica forma di conoscenza dell'economia per il burocrate, e sostituisce la conoscenza intuitiva, “qualitativa” dell'imprenditore, guidato soltanto dal test quantitativo dei profitti e delle perdite. [2] Di conseguenza, la spinta per l'intervento governativo e quella per più statistica, sono andate di pari passo. [3]

L'enorme espansione dell'attività governativa nella raccolta e diffusione di statistiche durante gli ultimi 25 anni non è certo solo per coincidenza correlata alla simile espansione del ruolo del governo nella regolamentazione e nella manipolazione dell'economia. Uno delle principali autorità sulla crescita della spesa pubblica l'ha così descritta:
Il progresso nella scienza economica e statistica ha migliorato la nostra conoscenza delle differenze nei bisogni e nelle potenzialità all'interno degli stati e da uno stato all'altro, e può contribuire a stimolare il sistema delle sovvenzioni statali e federali. Ha rinforzato la fiducia nelle possibilità di occuparsi dei problemi sociali tramite l'azione collettiva. Ha portato ad un aumento nelle attività statistiche e di indagine del governo. [4]
Non dobbiamo qui entrare nel dettaglio del vasto uso che è stato fatto delle statistiche sul reddito nazionale e sul prodotto interno lordo, così come di altre misure statistiche, nei tentativi del governo federale di lottare contro i cicli economici o la disoccupazione.

Né questa è solo una storia contemporanea. Un autorevole lavoro sul governo britannico descrive così il caso:
il ruolo minore del governo durante il diciannovesimo secolo non riflette solo l'assenza di una disgregazione economica violenta; riflette anche l'infanzia delle scienze economiche e sociali. Rispetto agli ultimi decenni, il volume di informazione sistematica sulle condizioni sociali era molto piccolo, il che significava che era difficile stabilire in modo persuasivo l'esistenza di problemi…. Se il volume della disoccupazione è sconosciuto, la gravità del problema è in dubbio.

L'accumulazione di informazioni effettive sulle condizioni sociali e lo sviluppo dell'economia e delle scienze sociali hanno aumentato la pressione per l'intervento del governo…. Inchieste come Life and Labor of the People in London di Charles Booth rivelarono condizioni che scossero l'opinione pubblica verso la fine degli anni 80 e degli anni 90. Con il miglioramento delle statistiche ed il moltiplicarsi degli studenti delle condizioni sociali, la continua esistenza di tali condizioni rimase visibile al pubblico. La crescente conoscenza di esse ridestò cerchie influenti e fornì ai movimenti della classe operaia delle armi efficaci. [5]
Certamente il ruolo degli assidui studi empirici della Fabian Society nella promozione della causa del socialismo in Gran Bretagna è fin troppo nota per approfondirla in questa sede.

Sul continente ed in America alla fine del 19esimo secolo, è ben noto che i ribelli contro il laissez-faire e l'economia politica classica sollecitarono la loro sostituzione con l'induzione dalla storia economica e dalla statistica. Questo era l'obiettivo della Scuola Storica Tedesca e del suo Verein für Sozialpolitik e degli esponenti giovani e di formazione tedesca della “nuova economia politica” dell'intervento governativo negli anni 70 e 80 dell'ottocento. [6] Uno dei loro leader, Richard T. Ely, che chiamò il nuovo approccio metodo “guarda e vedi,” chiarì che lo scopo della raccolta di fatti era “modellare le forze al lavoro nella società e di migliorare le condizioni attuali”; essi credevano di avere come economisti la responsabilità di “modellare il carattere dell'economia nazionale.” [7]

E non trascuriamo l'eminente sociologo interventista Lester Frank Ward, la cui economia pianificata “scientifica” e “positiva,” sarebbe consistita di una “ingegneria sociale” basata su informazioni statistiche inserite da ogni parte del paese in un ufficio centrale di statistica. [8]

Né erano soltanto speculatori dell'astratto ad esprimere tali opinioni. Gli stessi statistici presero parte a questo movimento. Fin dal 1863, Samuel B. Ruggles, delegato americano al Congresso Statistico Internazionale a Berlino, dichiarava che “le statistiche sono gli occhi stessi dello statista, che gli permettono di esaminare ed esplorare con una visione libera e completa l'intere struttura ed economia del corpo politico.” Uno dei fondatori del Verein für Sozialpolitik era il famoso statistico Ernst Engel, capo dell'Ufficio Statistico Reale di Prussia. [9]

E Carrol D. Wright, uno dei primi commissari del lavoro negli Stati Uniti e uomo notevolmente influenzato da Engel, sollecitò la raccolta delle statistiche sulla disoccupazione perché voleva trovare un rimedio (presumibilmente per mezzo dell'azione governativa). Wright acclamò la nuova scuola tedesca per il suo includere uomini di ogni terra “che cercano, con mezzi legittimi e senza rivoluzioni, di migliorare rapporti industriali e sociali disagiati.” Henry Carter Adams, un allievo di Engel, che istituì l'Ufficio Statistico della Commissione di Commercio Interstatale, credeva che “una sempre crescente attività statistica da parte del governo sia essenziale non solo per il controllo delle industrie naturalmente monopolistiche, ma anche per il funzionamento efficiente della concorrenza ove possibile.” [10] E certamente uno di grandi stimoli verso la costruzione degli indici dei prezzi all'ingrosso e di altro tipo era il desiderio che il governo stabilizzasse il livello dei prezzi. [11]
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Note

[1] George Stigler, “The Politics of Political Economists,” Quarterly Journal of Economics 73 (novembre 1959): p. 529.

[2] Sul tipo di conoscenza richiesto per un imprenditore nell'economia di mercato, vedi F.A. Hayek, Individualism and the Economic Order (Chicago: University of Chicago Press, 1948), chaps. 4 and 2.

[3] A questo proposito, possiamo notare la distinzione del professor Hutchison fra l'accento di Carl Menger sui fenomeni della società benefici, non pianificati, “non riflettuti” (che, naturalmente, comprendono il mercato libero) e sulla crescita della “auto-coscienza sociale” e della pianificazione di governo. Per Hutchison, una componente prominente della “auto-coscienza sociale” è la statistica sociale ed economica. Terence W. Hutchison, A Review of Economic Doctrines, 1870–1929 (Oxford: Clarendon Press, 1953), pp. 150–51, 427.

[4] Solomon Fabricant, The Trend of Government Activity in the United States since 1900 (Princeton, N.J.: National Bureau of Economic Research, 1952), p. 143.

[5] Moses Abramovitz e Vera F. Eliasberg, The Growth of Public Employment in Great Britain (Princeton, N.J.: National Bureau of Economic Research, 1957), pp. 22–23, 30.

[6] Quindi, la nuova scuola “trovò inadeguato per i suoi scopi il metodo di ragionamento deduttivo. Sostenne il metodo induttivo…. Rifiutato tutti i principi a priori e si rivolse alla storia ed alle statistiche per fornire i fatti di vita economica. Con le informazioni così ottenute, i giovani economisti si avvicinarono ai problemi economici con uno spirito pragmatico, giudicando ogni caso nei suoi diversi meriti. In questo modo, cercarono di impedire alla scienza economica di degenerare in alcune formule astratte, divorziate dalle realtà del tempo.” Sidney Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1956), p. 204. Vedi inoltre i principi della nuova scuola presentati da Joseph Dorfman in “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” American Economic Review, Papers and Proceedings 45 (May 1955): p. 21.

[7] Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State, p. 207. Potremmo aggiungere che l'economista francese del laissez-faire Maurice Block attaccò la scuola storica tedesca ed i suoi seguaci come “empirici” che cercavano di sostituire il principio con il sentimento e che sostenevano che “lo stato… dovrebbe condurre tutto, dirigere tutto, decidere tutto.” Dorfman, “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 20. E recentemente il professor Hildebrand ha commentato, sull'enfasi induttiva della scuola tedesca, che “forse c'è, allora, un certo collegamento fra questo genere di insegnamento e la popolarità delle idee grezze della pianificazione territoriale nei periodi più recenti.” George H. Hildebrand, "International Flow of Economic Ideas — Discussion," American Economic Review, Papers and Proceedings 45 (May 1955): p. 37. Vedi inoltre di F.A. Hayek, “History and Politics,” in Capitalism and the Historians, F.A. Hayek, ed. (Chicago: University of Chicago Press, 1954), p. 23.

[8] Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State, p. 258.

[9] “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 18.

[10] Joseph Dorfman, The Economic Mind in American Civilization (New York: Viking Press, 1949), 3, pp. 172, 123. Dorfman nota che il sistema contabile dell'Ufficio inventato da Adams “è servito da modello per la regolamentazione delle utilità pubbliche qui e nel mondo intero.” Dorfman, “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 23. Potremmo anche aggiungere che il primo professore di statistica negli Stati Uniti, Roland P. Falkner, era un allievo devoto di Engel e un traduttore dei testi dell'assistente di Engel, August Meitzen.

[11] “Uno di più grandi ostacoli che allora ostacolavano la stabilizzazione era l'idea prevalente che gli indici numerici non fossero affidabili. Finché questa difficoltà non avesse potuto essere superata, difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare che la stabilizzazione si trasformasse in una realtà. Per fare la mia parte nella soluzione di questo problema, ho scritto The Making of Index Numbers.” Irving Fisher, Stabilized Money (London: George Allen and Unwin, 1935), p. 383.
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Link alla seconda parte.