“Verso un nuovo mondo non si puo’ andare con idee e strumenti vecchi.”
(Giulio Tremonti)
Eccoci qua: il prossimo ministro Tremonti straparla di nazionalizzazioni e di “mondi nuovi” che ci aspettano (ma le elezioni non avevano eliminato i comunisti dal parlamento?), preparandosi a riparare ai fallimenti degli imprenditori nostrani – parola grossa, per chi ha sempre evitato il rischio dell'impresa grazie alla mammella statale! – ovviamente con i soldi dei contribuenti, che magari li avrebbero voluti e potuti spendere in modo più utile e produttivo. È come un tandem, in cui però pedalano sempre gli stessi. Insomma, il metafascismo comincia come la sua versione primeva: con il grido belluino “autarchia, autarchia!”
A questo proposito sono lieto di pubblicare un lucido intervento di Carlo Lottieri, che spiega con chiarezza come non solo non sia morale, ma nemmeno necessario rinunciare alla libertà in nome del protezionismo economico.
___________________________
Di Carlo Lottieri
Di recente taluni commentatori sono entrati nel dibattito suscitato dalle proposte neo-protezioniste avanzate da Giulio Tremonti nel suo ultimo pamphlet in favore di un’Europa che guardi con crescente sospetto all’integrazione economica internazionale e si attrezzi a tutelare se stessa di fronte alla concorrenza portata dai popoli del Terzo Mondo: Cina e India, in testa.
Quasi sempre le tesi neomercantiliste sono contrastate, e insieme ad esse è avversata ogni prospettiva dettata dalla paura dei competitori, oltre che dal desiderio di chiudersi di fronte all’economia globalizzata, sottraendo l’Europa ai benefici del commercio internazionale. Nel ragionamento di vari economisti e commentatori sedicenti liberali c’è però non di rado qualcosa che non appare del tutto convincente.
In effetti, più di un opinionista non solo accetta la prospettiva per così dire “olista” di quanti ritengono che si possa parlare di un interesse dell’Europa nel suo insieme (anche sacrificando i diritti di quei proprietari che vogliono disporre a loro piacere delle proprie risorse, negoziando con chi vogliono), ma in più si ritiene che i nemici della globalizzazione non abbiano torto quando affermano che nel breve termine un’Europa aperta al mondo perderebbe qualcosa, e che questo beneficio verrebbe riacquistato solo in un secondo tempo grazie allo sviluppo ulteriore degli scambi. Il loro argomento è che vi sarebbe un ritardo tra quando un paese perde ricchezza a favore di quello emergente e poi la riacquista accresciuta, ed è in questo gap temporale che avrebbe luogo l’impoverimento del primo.
La tesi è che c’è bisogno di un certo lasso di tempo perché i paesi sviluppati, pressati dalla concorrenza dei paesi emergenti, riescano a ridefinire le proprie produzioni e cogliere le nuove opportunità offerte dall’aprirsi di mercati emergenti verso cui esportare. Tanto più che vi sono situazioni – come quella cinese – in cui ci si confronta con attitudini protezionistiche anche da parte dei paesi a basso livello di sviluppo.
Questo argomento secondo cui esisterebbe un momento (seppure solo iniziale) durante il quale l’apertura dei mercati si rivelerebbe dannosa per un’economia avanzata mi pare possa essere messo in discussione.
Immaginiamo un modello molto semplificato: in un pianeta perduto nello spazio esiste una società ad alto livello di sviluppo, la chiameremo Europa, la quale occupa fisicamente solo una parte di quel corpo celeste, per il resto del tutto disabitato. All’interno di tale società vi sono individui dediti alle più diverse attività e impegnati a scambiare ciò che producono. Una parte di loro produce biciclette che vende alla restante parte della società: farmacisti, attori, agricoltori, e via dicendo.
Un bel giorno, su un’altra del pianeta che ospita la società europea una navicella spaziale scarica una popolazione nuova, che chiameremo Cina. Si tratta di soggetti le cui attività economiche sono, al momento, assai meno sviluppate di quelle europee, come testimonia il basso standard del loro stile di vita: alimentazione, abitazioni, cure mediche, e via dicendo.
Molti europei scoprono però che grazie a una serie di ragioni – e in primo luogo il basso costo della manodopera dei cinesi – le biciclette realizzate in quell’altra parte del pianeta da questi suoi nuovi abitanti sono assai convenienti. La qualità è la medesima, ma il costo è inferiore. Smettono quindi di comprare le biciclette europee e acquistano quelle cinesi.
Che ne deriva?
Per sviluppare un’analisi razionale delle conseguenze delle scelte, molto comprensibili, compiute da quanti vivono in Europa e hanno bisogno di una bicicletta bisogna preliminarmente cogliere una semplice verità: ogni scambio è (soggettivamente) vantaggioso. Chi acquista o cede un bene lo fa perché ritiene che quel negozio giuridico l’avvantaggi: esiste insomma un beneficio che va tanto a chi compra una bicicletta come a chi la vende.
Nel momento in cui compaiono in scena le biciclette cinesi si assiste ad un venir meno di transazioni intra-europee (gli europei non comprano più le biciclette europee) e a una crescita delle transazioni tra europei e cinesi. Per gli europei il venir meno dei commerci interni è certamente una perdita (poiché ogni scambio, come ho detto, produce ricchezza), ma bisogna aggiungere che lo svilupparsi delle relazioni commerciali tra Cina ed Europa è invece un beneficio.
La tesi degli economisti che enfatizzano le difficoltà del “breve termine” sarebbero difendibili se fossimo in grado di sapere che quanto si perde nel rarefarsi degli scambi interni – gli europei non comprano più biciclette europee – è maggiore di quanto si guadagna con il commercio esterno (gli europei comprano biciclette cinesi perché le trovano convenienti).
Quanti ritengono che commerciare con l’esterno impoverisca un Paese muovono in fondo da un’osservazione elementare e non infondata: quando il negozio riguardante una bicicletta concerne due europei (chi vende e chi compra), sono due europei a migliorare la loro condizione, e quindi è facile capire come l’economia europea ne guadagni complessivamente in maniera cospicua; quando invece l’interazione vede protagonisti un cinese produttore di biciclette e un europeo che ne acquista una, la ricchezza complessiva dell’Europa è incrementata solo sul lato dell’acquirente.
Ma siamo certi che la somma dei due benefici ottenuti entro un quadro autarchico sia superiore al beneficio ricavato dall’acquirente entro il quadro di un’economia aperta? Per nulla. Non abbiamo nessun solido argomento che possa essere usato a sostegno di tale ipotesi. Si può anzi ipotizzare che in taluni casi – e forse spesso – il beneficio ricavato dall’europeo che acquista la bicicletta cinese sia superiore alla somma dei benefici che, in passato, ottenevano i due europei che vendevano e compravano una bicicletta realizzata in Europa.
Abbiamo invece un’altra certezza: che il proprietario europeo che prima usava i propri soldi per comprare biciclette europee ora li utilizza per acquistare biciclette cinesi. Dispone della propria ricchezza liberamente, e questo è certamente più importante di tanti sofismi economici.
C’è comunque un’altra considerazione da farsi. Anche prescindendo dall’entità dei benefici dei due europei impegnati nella negoziazione entro un’economia europea autarchica e dall’entità degli utili divisi tra europeo e cinese entro un’economia aperta, nel momento in cui gli europei sanno che i cinesi sono sbarcati sul loro pianeta e producono biciclette convenienti, se una qualunque autorità inibisce agli europei (compresi quanti producono biciclette europee) di comprare biciclette cinesi, quanto avviene è puramente e semplicemente un trasferimento di risorse dai consumatori di biciclette ai produttori delle medesime.
In questo senso, anche quando non fa ricorso a dazi, il protezionismo è davvero nella sua essenza una forma di tassazione e redistribuzione delle risorse, a tutto vantaggio di produttori che non sono in grado di soddisfare al meglio il pubblico.
C’è poi un ulteriore aspetto che merita di essere sviluppato, a completamento di quanto detto in precedenza.
Prima si è sostenuto che alla base dell’avversione diffusa verso lo scambio internazionale si può ritrovare il dato elementare che mentre lo scambio tra due europei avvantaggia “due volte” l’economia europea, lo scambio tra un cinese e un europeo l’avvantaggia “una volta sola”. E in un’economia basata sul baratto le cose sono certamente così.
Ma si può dire lo stesso in un’economia monetaria?
Immaginiamo che all’interno dell’Europa vi siano cento persone molto abili nel produrre televisori. Fino a ieri avevano prodotto i loro televisori per il mercato interno, ma dopo l’arrivo della società cinese scoprono come in Cina vi sia molta gente disposta anche a pagare una cifra superiore per i loro prodotti. Iniziano quindi a orientare la loro produzione verso il mercato cinese, ricevendo renimimbi in cambio dei beni esportati.
Che faranno però di quella valuta?
Essi possono accantonarla, rinunciando a utilizzarla, e in questo caso hanno ceduto prodotti di qualità (i televisori) in cambio di semplici pezzi di carta. Oppure possono utilizzare quel denaro per comprare i prodotti disponibili sul mercato cinese. Ad esempio, possono acquistare biciclette.
Quanto intendo dire è davvero elementare. Magari non sempre nel brevissimo termine, ma certamente nel medio o lungo termine, le bilance commerciali tendono ad essere in pareggio perché nessuno è interessato a cedere beni e servizi in cambio di foglietti di carta colorati prodotti da questa o quella banca centrale.
Tale osservazione mi serve però a integrare ciò che ho detto in precedenza.
La constatazione che lo svilupparsi del commercio delle biciclette cinesi in Europa farebbe perdere all’economia europea un lato del beneficio delle interazioni commerciali (il beneficio della transazione si ripartirebbe tra cinesi ed europei, e non solo tra europei) va corretta con la considerazione che bisogna però attendersi che verrà presto un giorno in cui gli euro incassati dal venditore cinese di biciclette verranno utilizzati per acquistare, ad esempio, televisori europei. A questo punto è l’economia della Cina che perde un lato dei due benefici, poiché mentre in passato il mercato tutto interno dei televisori fatti dai cinesi per i cinesi avvantaggiava acquirenti e venditori cinesi, con l’apertura verso l’Europa l’acquirente cinese che si orienta verso un televisore europeo certamente ne trae un beneficio, ma viene meno il beneficio del venditore cinese.
Ancora una volta è utile ricordare la saggezza delle analisi di Frédéric Bastiat su ciò che si vede e ciò che non si vede, e insomma il fatto che non bisogna farsi ingannare da ciò che appare a prima vista, finendo per trascurare altri (e non meno importanti) elementi.
I critici del commercio internazionale ci lasciano intendere che mentre negli scambi interni si traggono due benefici (quello di chi vende e quello di chi acquista), nel commercio internazionale il beneficio è solo uno. Ma in realtà il venditore cinese di biciclette si appresta a minare il tradizionale commercio dei televisori tutto interno alla Cina: userà gli euro che ha ottenuto producendo e vendendo biciclette per acquistare apparecchi televisivi prodotti nell’altra parte del mondo.
È poi ugualmente da sottolineare quanto sia curioso che l’argomento del “breve termine” sia talora usato per scongiurare l’apertura dei mercati ricchi come pure di quelli poveri. Il neo-colbertismo protezionista dice oggi che bisogna – almeno in una prima fase – tutelare le economie ricche dall’arrivo di beni a basso prezzo prodotti nel Terzo Mondo, mentre nei decenni scorsi era moneta corrente la retorica di quanti dicevano che un’economia fragile dell’Africa o dell’America latina non poteva subito competere con quelle più dinamiche e quindi deve conoscere una fase di “incubazione”. (Tale argomento fu usato anche a fine Ottocento, in Italia, per “proteggere” la nostra industria nascente.) Ma non è chiaro, né può esserlo, se l’apertura dei mercati giovi ai più poveri a danno dei più ricchi, oppure non avvenga l’opposto.
In conclusione, anche accettando la prospettiva anti-liberale di chi ragiona in termini di entità collettive (la popolazione chiamata Europa e quella chiamata Cina) e quindi anche accantonando i principi morali che devono spingerci a riconoscere il diritto di ogni singolo proprietario a interagire con chi vuole (quale che sia il colore della pelle o la nazionalità), pure restando su quel piano e limitando per giunta la riflessione a considerazioni strettamente economiche, pare legittimo sostenere che le antiche tesi della scienza economica sui benefici del libero commercio e i danni del protezionismo mostrino ancora oggi, e del tutto intatta, la loro validità.
A questo proposito sono lieto di pubblicare un lucido intervento di Carlo Lottieri, che spiega con chiarezza come non solo non sia morale, ma nemmeno necessario rinunciare alla libertà in nome del protezionismo economico.
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Di Carlo Lottieri
Di recente taluni commentatori sono entrati nel dibattito suscitato dalle proposte neo-protezioniste avanzate da Giulio Tremonti nel suo ultimo pamphlet in favore di un’Europa che guardi con crescente sospetto all’integrazione economica internazionale e si attrezzi a tutelare se stessa di fronte alla concorrenza portata dai popoli del Terzo Mondo: Cina e India, in testa.
Quasi sempre le tesi neomercantiliste sono contrastate, e insieme ad esse è avversata ogni prospettiva dettata dalla paura dei competitori, oltre che dal desiderio di chiudersi di fronte all’economia globalizzata, sottraendo l’Europa ai benefici del commercio internazionale. Nel ragionamento di vari economisti e commentatori sedicenti liberali c’è però non di rado qualcosa che non appare del tutto convincente.
In effetti, più di un opinionista non solo accetta la prospettiva per così dire “olista” di quanti ritengono che si possa parlare di un interesse dell’Europa nel suo insieme (anche sacrificando i diritti di quei proprietari che vogliono disporre a loro piacere delle proprie risorse, negoziando con chi vogliono), ma in più si ritiene che i nemici della globalizzazione non abbiano torto quando affermano che nel breve termine un’Europa aperta al mondo perderebbe qualcosa, e che questo beneficio verrebbe riacquistato solo in un secondo tempo grazie allo sviluppo ulteriore degli scambi. Il loro argomento è che vi sarebbe un ritardo tra quando un paese perde ricchezza a favore di quello emergente e poi la riacquista accresciuta, ed è in questo gap temporale che avrebbe luogo l’impoverimento del primo.
La tesi è che c’è bisogno di un certo lasso di tempo perché i paesi sviluppati, pressati dalla concorrenza dei paesi emergenti, riescano a ridefinire le proprie produzioni e cogliere le nuove opportunità offerte dall’aprirsi di mercati emergenti verso cui esportare. Tanto più che vi sono situazioni – come quella cinese – in cui ci si confronta con attitudini protezionistiche anche da parte dei paesi a basso livello di sviluppo.
Questo argomento secondo cui esisterebbe un momento (seppure solo iniziale) durante il quale l’apertura dei mercati si rivelerebbe dannosa per un’economia avanzata mi pare possa essere messo in discussione.
Immaginiamo un modello molto semplificato: in un pianeta perduto nello spazio esiste una società ad alto livello di sviluppo, la chiameremo Europa, la quale occupa fisicamente solo una parte di quel corpo celeste, per il resto del tutto disabitato. All’interno di tale società vi sono individui dediti alle più diverse attività e impegnati a scambiare ciò che producono. Una parte di loro produce biciclette che vende alla restante parte della società: farmacisti, attori, agricoltori, e via dicendo.
Un bel giorno, su un’altra del pianeta che ospita la società europea una navicella spaziale scarica una popolazione nuova, che chiameremo Cina. Si tratta di soggetti le cui attività economiche sono, al momento, assai meno sviluppate di quelle europee, come testimonia il basso standard del loro stile di vita: alimentazione, abitazioni, cure mediche, e via dicendo.
Molti europei scoprono però che grazie a una serie di ragioni – e in primo luogo il basso costo della manodopera dei cinesi – le biciclette realizzate in quell’altra parte del pianeta da questi suoi nuovi abitanti sono assai convenienti. La qualità è la medesima, ma il costo è inferiore. Smettono quindi di comprare le biciclette europee e acquistano quelle cinesi.
Che ne deriva?
Per sviluppare un’analisi razionale delle conseguenze delle scelte, molto comprensibili, compiute da quanti vivono in Europa e hanno bisogno di una bicicletta bisogna preliminarmente cogliere una semplice verità: ogni scambio è (soggettivamente) vantaggioso. Chi acquista o cede un bene lo fa perché ritiene che quel negozio giuridico l’avvantaggi: esiste insomma un beneficio che va tanto a chi compra una bicicletta come a chi la vende.
Nel momento in cui compaiono in scena le biciclette cinesi si assiste ad un venir meno di transazioni intra-europee (gli europei non comprano più le biciclette europee) e a una crescita delle transazioni tra europei e cinesi. Per gli europei il venir meno dei commerci interni è certamente una perdita (poiché ogni scambio, come ho detto, produce ricchezza), ma bisogna aggiungere che lo svilupparsi delle relazioni commerciali tra Cina ed Europa è invece un beneficio.
La tesi degli economisti che enfatizzano le difficoltà del “breve termine” sarebbero difendibili se fossimo in grado di sapere che quanto si perde nel rarefarsi degli scambi interni – gli europei non comprano più biciclette europee – è maggiore di quanto si guadagna con il commercio esterno (gli europei comprano biciclette cinesi perché le trovano convenienti).
Quanti ritengono che commerciare con l’esterno impoverisca un Paese muovono in fondo da un’osservazione elementare e non infondata: quando il negozio riguardante una bicicletta concerne due europei (chi vende e chi compra), sono due europei a migliorare la loro condizione, e quindi è facile capire come l’economia europea ne guadagni complessivamente in maniera cospicua; quando invece l’interazione vede protagonisti un cinese produttore di biciclette e un europeo che ne acquista una, la ricchezza complessiva dell’Europa è incrementata solo sul lato dell’acquirente.
Ma siamo certi che la somma dei due benefici ottenuti entro un quadro autarchico sia superiore al beneficio ricavato dall’acquirente entro il quadro di un’economia aperta? Per nulla. Non abbiamo nessun solido argomento che possa essere usato a sostegno di tale ipotesi. Si può anzi ipotizzare che in taluni casi – e forse spesso – il beneficio ricavato dall’europeo che acquista la bicicletta cinese sia superiore alla somma dei benefici che, in passato, ottenevano i due europei che vendevano e compravano una bicicletta realizzata in Europa.
Abbiamo invece un’altra certezza: che il proprietario europeo che prima usava i propri soldi per comprare biciclette europee ora li utilizza per acquistare biciclette cinesi. Dispone della propria ricchezza liberamente, e questo è certamente più importante di tanti sofismi economici.
C’è comunque un’altra considerazione da farsi. Anche prescindendo dall’entità dei benefici dei due europei impegnati nella negoziazione entro un’economia europea autarchica e dall’entità degli utili divisi tra europeo e cinese entro un’economia aperta, nel momento in cui gli europei sanno che i cinesi sono sbarcati sul loro pianeta e producono biciclette convenienti, se una qualunque autorità inibisce agli europei (compresi quanti producono biciclette europee) di comprare biciclette cinesi, quanto avviene è puramente e semplicemente un trasferimento di risorse dai consumatori di biciclette ai produttori delle medesime.
In questo senso, anche quando non fa ricorso a dazi, il protezionismo è davvero nella sua essenza una forma di tassazione e redistribuzione delle risorse, a tutto vantaggio di produttori che non sono in grado di soddisfare al meglio il pubblico.
C’è poi un ulteriore aspetto che merita di essere sviluppato, a completamento di quanto detto in precedenza.
Prima si è sostenuto che alla base dell’avversione diffusa verso lo scambio internazionale si può ritrovare il dato elementare che mentre lo scambio tra due europei avvantaggia “due volte” l’economia europea, lo scambio tra un cinese e un europeo l’avvantaggia “una volta sola”. E in un’economia basata sul baratto le cose sono certamente così.
Ma si può dire lo stesso in un’economia monetaria?
Immaginiamo che all’interno dell’Europa vi siano cento persone molto abili nel produrre televisori. Fino a ieri avevano prodotto i loro televisori per il mercato interno, ma dopo l’arrivo della società cinese scoprono come in Cina vi sia molta gente disposta anche a pagare una cifra superiore per i loro prodotti. Iniziano quindi a orientare la loro produzione verso il mercato cinese, ricevendo renimimbi in cambio dei beni esportati.
Che faranno però di quella valuta?
Essi possono accantonarla, rinunciando a utilizzarla, e in questo caso hanno ceduto prodotti di qualità (i televisori) in cambio di semplici pezzi di carta. Oppure possono utilizzare quel denaro per comprare i prodotti disponibili sul mercato cinese. Ad esempio, possono acquistare biciclette.
Quanto intendo dire è davvero elementare. Magari non sempre nel brevissimo termine, ma certamente nel medio o lungo termine, le bilance commerciali tendono ad essere in pareggio perché nessuno è interessato a cedere beni e servizi in cambio di foglietti di carta colorati prodotti da questa o quella banca centrale.
Tale osservazione mi serve però a integrare ciò che ho detto in precedenza.
La constatazione che lo svilupparsi del commercio delle biciclette cinesi in Europa farebbe perdere all’economia europea un lato del beneficio delle interazioni commerciali (il beneficio della transazione si ripartirebbe tra cinesi ed europei, e non solo tra europei) va corretta con la considerazione che bisogna però attendersi che verrà presto un giorno in cui gli euro incassati dal venditore cinese di biciclette verranno utilizzati per acquistare, ad esempio, televisori europei. A questo punto è l’economia della Cina che perde un lato dei due benefici, poiché mentre in passato il mercato tutto interno dei televisori fatti dai cinesi per i cinesi avvantaggiava acquirenti e venditori cinesi, con l’apertura verso l’Europa l’acquirente cinese che si orienta verso un televisore europeo certamente ne trae un beneficio, ma viene meno il beneficio del venditore cinese.
Ancora una volta è utile ricordare la saggezza delle analisi di Frédéric Bastiat su ciò che si vede e ciò che non si vede, e insomma il fatto che non bisogna farsi ingannare da ciò che appare a prima vista, finendo per trascurare altri (e non meno importanti) elementi.
I critici del commercio internazionale ci lasciano intendere che mentre negli scambi interni si traggono due benefici (quello di chi vende e quello di chi acquista), nel commercio internazionale il beneficio è solo uno. Ma in realtà il venditore cinese di biciclette si appresta a minare il tradizionale commercio dei televisori tutto interno alla Cina: userà gli euro che ha ottenuto producendo e vendendo biciclette per acquistare apparecchi televisivi prodotti nell’altra parte del mondo.
È poi ugualmente da sottolineare quanto sia curioso che l’argomento del “breve termine” sia talora usato per scongiurare l’apertura dei mercati ricchi come pure di quelli poveri. Il neo-colbertismo protezionista dice oggi che bisogna – almeno in una prima fase – tutelare le economie ricche dall’arrivo di beni a basso prezzo prodotti nel Terzo Mondo, mentre nei decenni scorsi era moneta corrente la retorica di quanti dicevano che un’economia fragile dell’Africa o dell’America latina non poteva subito competere con quelle più dinamiche e quindi deve conoscere una fase di “incubazione”. (Tale argomento fu usato anche a fine Ottocento, in Italia, per “proteggere” la nostra industria nascente.) Ma non è chiaro, né può esserlo, se l’apertura dei mercati giovi ai più poveri a danno dei più ricchi, oppure non avvenga l’opposto.
In conclusione, anche accettando la prospettiva anti-liberale di chi ragiona in termini di entità collettive (la popolazione chiamata Europa e quella chiamata Cina) e quindi anche accantonando i principi morali che devono spingerci a riconoscere il diritto di ogni singolo proprietario a interagire con chi vuole (quale che sia il colore della pelle o la nazionalità), pure restando su quel piano e limitando per giunta la riflessione a considerazioni strettamente economiche, pare legittimo sostenere che le antiche tesi della scienza economica sui benefici del libero commercio e i danni del protezionismo mostrino ancora oggi, e del tutto intatta, la loro validità.
26 comments:
ok.. allora magari ci si sente x il weekend del 1 maggio ke sono lì.. e sentiamo anke gli altri 2 x Bassano (ke sarebbe il weekend dopo) e proviamo a combinare una sana bevuta e mangiata.. così contribuiamo al riscaldamento globale.. nel ns piccolo è giusto ke facciamo la ns. parte.. io x esempio sto facendo la differenziata al quadrato.. prima divido tutto x bene.. e poi butto le lattine nella carta, la carta nell'umido ecc. ecc. il mondo rompe i coglioni a me, e io li rompo al mondo!!!
Sì, ma qui si presuppone che le due realtà produttive siano una più abile dell'altra nel produrre cose diverse. La Cina le biciclette, l'Europa i televisori. Ossia, fuor di metafora: la Cina beni con basso e l'Europa beni con alto valore aggiunto.
Secondo Lottieri cominceranno gli Europei coll'importare di beni dal basso valore aggiunto, e i Cinesi risponderanno con l'acquisto in Europa di beni dotati di uno alto.
Solo che nella realtà non è così, visto che di fatto non esistono tipologie di beni che i Cinesi non siano in grado di produrre (e che non producano!), in parte grazie anche al know-how che gli stessi Europei hanno fornito loro andando ad investire in quei posti (e questo è un altro aspetto non preso in considerazione dal modello fornito dall'articolo).
L'unica soluzione sarebbe quella prospettata praticamente da chiunque, ossia "batterli sul tempo" a livello tecnologico, ma ci vorrebbe una ricerca ben più sviluppata di quella che abbiamo qui in Italia. Probabilmente in Cina stanno già più avanti di noi da questo punto di vista.
Carlo
Solo che nella realtà non è così, visto che di fatto non esistono tipologie di beni che i Cinesi non siano in grado di produrre (e che non producano!),
Ma così facendo andrebbero contro il loro stesso interesse, visto che l'essenza del mercato è quella di permettere a ciascuno di specializzarsi nel bene che è in grado di produrre meglio. Ad esempio, Carlo Lucarelli potrebbe, per quanto ne sappiamo, essere un bravissimo giornalista sportivo, magari migliore di un Sandro Piccinini, però è ancora più bravo a scrivere gialli. Questo permette a Lucarelli di concentrare le proprie risorse dove più gli conviene, e permette anche al mediocre Sandro Piccinini di collocarsi sul mercato. Quindi entrambi traggono giovamento dalla specializzazione e dallo scambio (Piccinini leggerà i gialli di Lucarelli e Lucarelli ascolterà i commenti sportivi di Piccinini).
Giustissimo, se presupponiamo che Lucarelli non abbia tempo ed energie sufficienti per scrivere articoli sportivi e insieme libri gialli.
In caso contrario, il discorso non sta in piedi.
Carlo
Ammettiamo pure che i cinesi arrivino a produrre tutto meglio di tutti gli altri e ad un costo minore.
Dove starebbe il problema?
Ah boh!
Lottieri penso ti risponderebbe così:
Quanti ritengono che commerciare con l’esterno impoverisca un Paese muovono in fondo da un’osservazione elementare e non infondata: quando il negozio riguardante una bicicletta concerne due europei (chi vende e chi compra), sono due europei a migliorare la loro condizione, e quindi è facile capire come l’economia europea ne guadagni complessivamente in maniera cospicua; quando invece l’interazione vede protagonisti un cinese produttore di biciclette e un europeo che ne acquista una, la ricchezza complessiva dell’Europa è incrementata solo sul lato dell’acquirente.
Comunque questo è un altro discorso, io commentavo il discorso di Lottieri sulla tendenza ad equilibrarsi degli scambi commerciali tra Paesi.
Carlo
Ora stai a vedere che sul mio blog non posso cambiare discorso quando cazzo mi pare!
Comunque, per me non esiste nessun problema se i cinesi dovessero produrre tutto, ma proprio tutto.
Ho lavorato per gli italiani, ho lavorato per i greci, ho lavorato per i francesi e per gli americani: vorrà dire che lavorerò per i cinesi.
Ora stai a vedere che sul mio blog non posso cambiare discorso quando cazzo mi pare!
Per carità, non sarò certo io a dirti che cosa "cazzo" devi dire o fare sul tuo blog.
Però, oltre alla tua irascibilità, diverte pure il notare che nella discussione a un articolo che tu stesso hai postato e il cui senso di fondo è "se i Cinesi si mettono a produrre tutto sottocosto ci mandano sul lastrico, ma questo non accadrà", poi te ne esca con "che male c'è se i Cinesi producono tutto sottocosto?". Che ci mandano sul lastrico, è la risposta. Non mia, di Lottieri.
Carlo
Io credo che tu non abbia capito né il senso dell'articolo di Lottieri né il mio commento, visto che tra i due non c'è contraddizione.
Ma forse non hai nessuna voglia di capire, e trovi più divertente cercare la polemica ad ogni costo. Beh, ognuno si diverte come può, mi dispiace che tu non abbia di meglio al momento.
1) Sono commosso da Lottieri.
2) Vi prego vi prego vi prego. Finiamola con le baggianate che i Cinesi sanno fare tutto meglio di noi.
Ho la ragazza cinese.Non comprerebbe MAI un abito cinese, mentre spende un puttanaio (pardonnez-moi le francais) in abiti di marca italiani. In borse di pregio etc. E lo fa da immigrata.
Adesso vuole comprarsi un portatile. E mi ha pregato di trovare un negozio Italiano.
Per non parlare della cucina italiana, che molti cinesi apprezzano. Mi spiace carloooooooooooo ma sono banalità le tue, generalizzazioni senza alcun senso.
In via filosofica comunque, ti rispondo.
Se non fossimo capaci di fare nulla, ma proprio nulla in maniera decente, (non ottimale), da essere almeno marginali in un mercato, se non fossimo in grado di far altro che campare succhiando soldi agli altri, con che faccia potremmo reclamare il diritto ad occupare spazio su questa terra, quando al posto nostro starebbe meglio un cinese, che invece è in grado di fare qualcosa?
Il commento precedente (l) è il mio.
Ho scazzato con la tastiera.
Che maniata di mistificatori in questo blog!
"Ora stai a vedere che sul mio blog non posso cambiare discorso quando cazzo mi pare!"
Certo che puoi cambiare discorso quando vuoi! Questo, però, fa di te un mistificatore, uno che gioca con le tre carte, uno che prima cerca di avere consenso carpendo la buona fede altrui e poi ti infetta offrendo la sua merce putrerfatta!
"Ho la ragazza cinese.Non comprerebbe MAI un abito cinese, mentre spende un puttanaio in abiti di marca italiani. In borse di pregio etc. ..."
Siiii, come no!... se tu hai la ragazza cinese, Lottieri ha la mamma giapponese!
Possibbile che tu non sappia ancora che molti capi di marca italiani ed europei vengono oramai fabbricati in Cina?
Dagli tempo e i cinesi ti filetteranno il culo, persino meglio di un qualsiasi supercazzuto africano!
Solo una cosa non produrrano mai i cinesi: le vostre ariose elucubrazioni!
Non sapevo che Lottieri avesse la mamma giapponese.
Ma probabilmente è così, visto che la mia ragazza è cinese.
Che i prodotti italiani vengono fabbricati in Cina, può essere. Ma se Armani o Versace hanno la proprietà italiana, i profitti li fanno anche gli italiani, senza contare i profitti generati dalle boutique gestite da italiani in Italia che vendono questi prodotti.
Inoltre, se sei solito sparare cazzate sui blog, non pensare che sia così per tutti.
Se ti dico che la mia ragazza è cinese, vuol dire che la mia ragazza è cinese. Altrimenti non lo avrei detto. Non ho bisogno di inventare stupidaggini per confutare le tue cazzate.
Si dia il caso che i Cinesi li conosco molto meglio di te, visto che vivo nella Chinatown romana e mi trovo spessissimo a mangiare nei loro ristoranti e nei loro bar.
Oltre ad averli nel palazzo, ad uscire insieme ad amici della mia ragazza e a cominciare a conoscere qualche parola di cinese.
Il problema vero, come dice Paul Krugman sul Nyt,
http://www.nytimes.com/2007/12/28/opinion/28krugman.html?_r=1&oref=slogin
è un'altro.
Ovvero, nell'apertura dei mercati, pur se il beneficio globale è positivo, ci sono sempre vincitori e perdenti. Ma se prima i perdenti erano pochi, mentre i benefici ricadevano su un'ampia fetta di popolazione, con la globalizzazione questo rischia di non essere più vero. Ci potrebbe cioè essere una ridistribuzione di ricchezza, dovuta all'abbassamento dei salari della manodopera non qualificata, della quale sarebbero in molti a soffrire, e questo non può non provocare anche conflitti e tensioni sociali anche gravi (e infine spingere verso il protezionismo tremontiano).
Quindi, propio se non vogliamo il protezionismo, questo sarebbe un problema da prendere in considerazione. Giusto, Pax?
Certo che puoi cambiare discorso quando vuoi! Questo, però, fa di te un mistificatore, uno che gioca con le tre carte, uno che prima cerca di avere consenso carpendo la buona fede altrui e poi ti infetta offrendo la sua merce putrerfatta!
Guarda il lato positivo: almeno io, a differenza di tutto ciò che lo stato comporta, sono gratuito e facoltativo, proprio come i tuoi insulti.
Creare la polemica ad ogni costo? E quale polemica avrei creato? Farti notare che secondo me la tua posizione e quella di Lottieri sono contraddittorie è "fare polemica"? Se vuoi che commenti sul tuo blog solo per farti i complimenti, ok, basta dirlo chiaro e tondo. Quando te li meritavi già te li ho fatti, non ho problemi a continuare.
La contraddizione che tu non vedi, io la leggo chiara e tonda:
Quanti ritengono che commerciare con l’esterno impoverisca un Paese muovono in fondo da un’osservazione elementare e non infondata.
Cioè dice: nel momento in cui il bilancio l'import/export è in negativo, il Paese si impoverisce. Nel prosieguo dell'articolo spiega che questo però non accadrà, ed è solo e soltanto per questo che secondo Lottieri lasciare liberi gli scambi non è dannoso per l'Italia. Ma ammette apertis verbis che una bilancia commerciale in passivo è dannosa per il benessere di un Paese.
@ libertyfighter.
Non intendevo che i Cinesi sappiano fare tutto meglio di noi. Se l'ho detto ho esagerato sicuramente. Ci saranno sempre delle cose che noi sapremo fare meglio di loro. Però ci sarebbe da vedere quante e quali sono le cose che ci rimarrebbero da esportare. Se ci rimane, per fare un esempio, l'alta moda, quante persone può occupare un settore del genere? E quanti la ristorazione di qualità? Credi veramente a sta menata del made in Italy che può risollevare le sorti del Belpaese?
In via filosofica comunque, ti rispondo. Se non fossimo capaci di fare nulla, ma proprio nulla in maniera decente, (non ottimale), da essere almeno marginali in un mercato, se non fossimo in grado di far altro che campare succhiando soldi agli altri, con che faccia potremmo reclamare il diritto ad occupare spazio su questa terra, quando al posto nostro starebbe meglio un cinese, che invece è in grado di fare qualcosa?
Sempre in via "filosfica" ti chiedo: mi stai forse dicendo che il diritto a esistere di un popolo è direttamente proporzionale alla sua capacità di inserirsi concorrenzialmente nel mercato?
Ma se Armani o Versace hanno la proprietà italiana, i profitti li fanno anche gli italiani, senza contare i profitti generati dalle boutique gestite da italiani in Italia che vendono questi prodotti.
Non ho capito. Se si produce in Cina i profitti non li fanno "gli Italiani", ma Armani e Versace (oltre ovviamente ai Cinesi che lavorano per Armani e Versace).
Carlo
Tu insisti ma la contraddizione continui a vederla solo tu.
La mia considerazione sull'ipotesi estrema di una Cina che produce tutto e meglio di tutti – da te introdotta, tra l'altro – in che modo contraddice il discorso di Lottieri?
Non dovremmo forse lavorare per i cinesi a quel punto? E i cinesi non dovrebbero pagare il nostro lavoro (anche perché altrimenti non potremmo comprare i loro prodotti), così come hanno fatto i cinesi per anni lavorando per le nostre imprese?
Se non hai di meglio da scambiare, scambi il lavoro.
"Abbiamo invece un’altra certezza: che il proprietario europeo che prima usava i propri soldi per comprare biciclette europee ora li utilizza per acquistare biciclette cinesi. Dispone della propria ricchezza liberamente, e questo è certamente più importante di tanti sofismi economici."
e successive parabole...
QUESTA FA PROPRIO RIDERE!
LOTTIERI PARLA DI SOFISMI E NON SI ACCORGE DI AVERNE SPARATI A RAFFICA: I SOLDI DI UNA POPOLAZIONE, CARO LOTTIERI, SE NON SONO SORRETTI DAI BENI DA ESSA PRODOTTI NON VALGONO UN EMERITO CAZZO!
PUOI RAGGIRALI PER UN PO' I CINESI, MA POI TI MANDANO AFFANCULO, TE E LA TUA CARTASTRACCIA!
COME DEL RESTO HANNO COMINCIATO A FARE CON IL DOLLARO!
VOGLIO PROPRIO VEDERE SE NON SI AFFLOSCERA' COME UN PALLONE GONFIATO ANCHE IL SUPER-EURO, A QUELLE CONDIZIONI!
I CINESI, CON I NOSTRI SOLDI, POTRANNO FARE (FORSE) LA CARTA PER INCARTARE LE LORO BICICLETTE.
I "RAGIONAMENTI" ALLA LOTTIERI SONO SOLO I RAGGIRI DI CHI E' ABITUATO A IMBROGLIARE LE CARTE!
alla prossima
"Non dovremmo forse lavorare per i cinesi a quel punto? E i cinesi non dovrebbero pagare il nostro lavoro (anche perché altrimenti non potremmo comprare i loro prodotti), così come hanno fatto i cinesi per anni lavorando per le nostre imprese?
Se non hai di meglio da scambiare, scambi il lavoro."
SI, COME NO! LAVORARE PER I CINESI...MAGARI QUI A CASA NOSTRA, SENZA DOVERCI SPOSTARE IN ORIENTE, E POSSIBILMENTE PAGATI CON LE PAGHE EUROPEE, VERO? SE NO COME LI AQUISTI A BUON PREZZO I LORO PRODOTTI?
GUARDA CHE I CINESI SONO PICCOLI, SONO GIALLI, HANNO GLI OCCHI A MANDORLA, MA NON SONO SCEMI!
Ancora una conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l'uso delle maiuscole è inversamente proporzionale alla forza delle idee espresse.
Avrai diritto a stare su questa terra. Ma non hai diritto a farti sovvenzionare il cibo.
Andremo a fare le colf per i cinesi. E vabbé, è capitato a loro e capiterà a noi. Ma non puoi dirmi che non sarebbe "normale".
E comunque, non filosoficamente, quello che avviene è che il benessere dei cinesi aumenta e il nostro diminuisce. Quando sono alla pari, Cina ed Europa sono indifferenti e nessuno starà peggio degli altri. E' un problema di vasi comunicanti....
Per quanto riguarda ciò che ci rimane (alta moda, ristorazione, turismo più tutto l'indotto locale) se non sarà sufficiente a mantenere tutta la popolazione ci sarà una normalissima emigrazione. Oppure si troveranno nuovi campi nei quali siamo più bravi e con i quali manterremo la popolazione.
Andremo a fare le colf per i cinesi. E vabbé, è capitato a loro e capiterà a noi. Ma non puoi dirmi che non sarebbe "normale"...
...Per quanto riguarda ciò che ci rimane (alta moda, ristorazione, turismo più tutto l'indotto locale) se non sarà sufficiente a mantenere tutta la popolazione ci sarà una normalissima emigrazione.
Ma non si era detto che il liberismo capitalista era il migliore dei sistemi?
Ma non si era detto che il liberismo capitalista era il migliore dei sistemi?
Dipende da cosa intendi per migliore.
@ Pax e Lybertyfighter
Ho capito le posizioni. Non avevo capito che era prevista e accettata come eventualità quella della riduzione del nostro tenore di vita medio.
Carlo
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