Di Frank Chodorov
Un'indicazione del punto a cui è arrivata l'integrazione è la scomparsa di ogni dibattito sullo Stato qua Stato – un dibattito che ha impegnato le migliori menti del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. Le deficienze di un regime particolare, o dei suoi componenti, sono sottoposte ad attacchi costanti, ma i difetti dell'istituzione in sé non si individuano. Lo Stato va benissimo, per comune accordo, e funzionerebbe perfettamente se al suo timone ci fossero le persone “giuste.”
La maggior parte dei critici del New Deal non si accorgono che tutte le sue mancanze sono inerenti di qualsiasi Stato, sotto la guida di chiunque, o che quando l'istituzione politica raccoglie abbastanza potere spunta un demagogo. L'idea che questo apparato di potere sia effettivamente il nemico della Società, che gli interessi di queste istituzioni siano in contrasto, è semplicemente impensabile. Se viene suggerita, è scartata come “antiquata,” il che è vero; fino all'era moderna, era un assioma che lo Stato necessiti di costante sorveglianza, che delle propensioni perniciose ne sono parte integrante.
Vengono alla mente alcune immagini dello spirito del nostro tempo.
L'abusata affermazione che “siamo in debito con noi stessi,” riferita ai debiti contratti in nome dello Stato, è indicativa della tendenza a cancellare dalla nostra coscienza la linea di demarcazione fra governati e governanti. Non è solo una frase classica nei testi d'economia ma è anche tacitamente accettata nelle cerchie finanziarie come solida per principio. Per i banchieri moderni, un'obbligazione di Stato è solida almeno quanto l'obbligo di un cittadino privato, poiché il titolo è in effetti un obbligo del cittadino di pagare le tasse. Non viene fatta alcuna distinzione fra un debito coperto dalla produzione o dall'abilità produttiva e un debito garantito dal potere politico; nell'analisi finale un'obbligazione di Stato è un pegno sulla produzione, così qual è la differenza? Secondo tale ragionamento, gli interessi del pubblico, che sono sempre concentrati nella produzione di beni, sono identificati con gli interessi predatori dello Stato.
In molti testi di economia, il prestito preso dal governo ai cittadini, sia se fatto apertamente o con la pressione sulle banche perché prestino il risparmio dei loro depositanti, è spiegato come transazione equivalente a trasferire dei soldi da una tasca in un altra degli stessi pantaloni; il cittadino presta a sé stesso quel che presta al governo. La spiegazione razionale di questa assurdità è che l'effetto sull'economia della nazione è lo stesso sia che il cittadino spenda i suoi soldi, sia che lo faccia il governo per lui. Ha semplicemente rinunciato al suo trascurabile diritto di scegliere. Sul fatto che non desideri ciò per cui il governo spende i suoi soldi, che di sua libera volontà non contribuirebbe ad acquistarlo, si sorvola allegramente . Il concetto di “stessi pantaloni” si basa sull'identificazione dell'amorfa “economia nazionale” con il benessere dell'individuo; egli si fonde così nella massa e perde la sua personalità.
Tutt'uno con questo genere di pensiero è una frase d'accompagnamento, “il governo siamo noi.” Il suo uso e la sua accettazione illustrano al meglio la presa che il collettivismo ha fatto sulle menti americane in questo secolo, escludendo la tradizione americana di base. Quando fu fondata l'Unione, il principale timore degli americani era che il nuovo governo si trasformasse in una minaccia contro la loro libertà, e gli autori della costituzione furono messi a dura prova per acquietare questo timore. Ora è stabilito che la libertà è un dono del governo in cambio della sottomissione. L'inversione è stata compiuta con un abile trucco semantico.
La parola “democrazia” è la chiave di questo trucco. Quando cercate una definizione di questa parola, trovate che non è una forma di governo ma piuttosto la regola degli “atteggiamenti sociali.” Ma che cosa è un “atteggiamento sociale”? Mettendo da parte le verbose spiegazioni di questo sdrucciolevole concetto, risulta essere in pratica il buon vecchio maggioritarismo; ciò che il 51 per cento delle persone ritiene sia giusto è giusto, e la minoranza ha torto per forza. È la finzione della Volontà Generale sotto nuovo nome. Non c'è posto in questo concetto per la dottrina dei diritti inerenti; l'unico diritto che resta alla minoranza, in particolar modo alla minoranza di uno, è la conformità con “l'atteggiamento sociale” dominante.
Se “il governo siamo noi,” segue che l'uomo che si trovasse in prigione dovrebbe darsi la colpa per essersi rinchiuso lì dentro, e che l'uomo che sfruttasse tutte le detrazioni fiscali che la legge concede starebbe in realtà truffando sé stesso. Seppur questo possa apparire un'esagerata reductio ad absurdum, è un fatto che molti coscritti delle forze armate si consolino con quel tipo di logica. Questo paese è stato in gran parte popolato da renitenti alla leva – chiamata “zarismo” una generazione o due fa e ritenuta la forma più bassa di servitù involontaria.
Oggi un esercito di militari di leva passa in effetti per un esercito “democratico,” composto di uomini che si sono adeguati all'“atteggiamento sociale” del tempo. Questo fa lo stesso comune coscritto una volta obbligato ad interrompere i suoi sogni di carriera. L'accettazione del servizio militare obbligatorio ha raggiunto il punto di un'incoscia rinuncia alla personalità. L'individuo, come individuo, semplicemente non esiste più; è parte della massa.
Questo è il compimento dello statalismo. È una condizione dello spirito che non riconosce altro ego che quello della collettività. Per un'analogia, bisogna risalire alla pratica pagana del sacrificio umano: quando gli dei lo richiedevano, quando lo sciamano insisteva così tanto, come condizione per la prosperità del clan, gettarsi nel fuoco sacrificale era un dovere dell'individuo. In realtà, lo statalismo è una forma di paganesimo, dato che è il culto di un idolo, di qualcosa fatto dall'uomo. La sua base è puro dogma. Come tutti i dogmi esso è soggetto a interpretazioni e spiegazioni razionali, ciascuna con la sua corte di devoti. Ma, sia che ci si definisca un comunista, un socialista, un sostenitore del New Deal, o solo un semplice “democratico,” la premessa è che l'individuo esista solo come servo dell'idolo delle masse. Sia fatta la sua volontà.
È una strana circostanza della storia che lo spirito indagatore non sia mai cancellato o sepolto completamente. Le pressioni sociali e politiche possono costringere il curioso intellettuale ad adottare un'apparenza di conformità – dal momento che bisogna vivere nel proprio ambiente – ma la conformità reale è impossibile per una mente di quel genere. Deve chiedere “perché,” anche a sé stesso. E a volte è abbastanza difficile suggerire una deficienza nel modello prevalente di pensiero e parlare apertamente contro di esso.
Anche in questo ventesimo secolo ci sono coloro che sostengono, forse soltanto nel segreto della loro personalità, che il collettivismo è sbagliato e maligno e che non finirà bene. Ci sono nonconformisti che rifiutano il concetto hegeliano secondo cui “lo Stato incarna l'idea divina sulla terra.”
Ci sono alcuni che sostengono saldamente che soltanto l'uomo è fatto ad immagine di Dio, che lo Stato è un falso idolo. Sono in minoranza, siatene sicuri, come lo sono stati in tutta la storia; sono il “restanti” ai quali Isaia è incaricato di consegnare il messaggio. Forse costoro troveranno questa inchiesta nell'economia della Società, del Governo e dello Stato di un certo interesse; è stato scritto per loro.
Un'indicazione del punto a cui è arrivata l'integrazione è la scomparsa di ogni dibattito sullo Stato qua Stato – un dibattito che ha impegnato le migliori menti del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. Le deficienze di un regime particolare, o dei suoi componenti, sono sottoposte ad attacchi costanti, ma i difetti dell'istituzione in sé non si individuano. Lo Stato va benissimo, per comune accordo, e funzionerebbe perfettamente se al suo timone ci fossero le persone “giuste.”
La maggior parte dei critici del New Deal non si accorgono che tutte le sue mancanze sono inerenti di qualsiasi Stato, sotto la guida di chiunque, o che quando l'istituzione politica raccoglie abbastanza potere spunta un demagogo. L'idea che questo apparato di potere sia effettivamente il nemico della Società, che gli interessi di queste istituzioni siano in contrasto, è semplicemente impensabile. Se viene suggerita, è scartata come “antiquata,” il che è vero; fino all'era moderna, era un assioma che lo Stato necessiti di costante sorveglianza, che delle propensioni perniciose ne sono parte integrante.
Vengono alla mente alcune immagini dello spirito del nostro tempo.
L'abusata affermazione che “siamo in debito con noi stessi,” riferita ai debiti contratti in nome dello Stato, è indicativa della tendenza a cancellare dalla nostra coscienza la linea di demarcazione fra governati e governanti. Non è solo una frase classica nei testi d'economia ma è anche tacitamente accettata nelle cerchie finanziarie come solida per principio. Per i banchieri moderni, un'obbligazione di Stato è solida almeno quanto l'obbligo di un cittadino privato, poiché il titolo è in effetti un obbligo del cittadino di pagare le tasse. Non viene fatta alcuna distinzione fra un debito coperto dalla produzione o dall'abilità produttiva e un debito garantito dal potere politico; nell'analisi finale un'obbligazione di Stato è un pegno sulla produzione, così qual è la differenza? Secondo tale ragionamento, gli interessi del pubblico, che sono sempre concentrati nella produzione di beni, sono identificati con gli interessi predatori dello Stato.
In molti testi di economia, il prestito preso dal governo ai cittadini, sia se fatto apertamente o con la pressione sulle banche perché prestino il risparmio dei loro depositanti, è spiegato come transazione equivalente a trasferire dei soldi da una tasca in un altra degli stessi pantaloni; il cittadino presta a sé stesso quel che presta al governo. La spiegazione razionale di questa assurdità è che l'effetto sull'economia della nazione è lo stesso sia che il cittadino spenda i suoi soldi, sia che lo faccia il governo per lui. Ha semplicemente rinunciato al suo trascurabile diritto di scegliere. Sul fatto che non desideri ciò per cui il governo spende i suoi soldi, che di sua libera volontà non contribuirebbe ad acquistarlo, si sorvola allegramente . Il concetto di “stessi pantaloni” si basa sull'identificazione dell'amorfa “economia nazionale” con il benessere dell'individuo; egli si fonde così nella massa e perde la sua personalità.
Tutt'uno con questo genere di pensiero è una frase d'accompagnamento, “il governo siamo noi.” Il suo uso e la sua accettazione illustrano al meglio la presa che il collettivismo ha fatto sulle menti americane in questo secolo, escludendo la tradizione americana di base. Quando fu fondata l'Unione, il principale timore degli americani era che il nuovo governo si trasformasse in una minaccia contro la loro libertà, e gli autori della costituzione furono messi a dura prova per acquietare questo timore. Ora è stabilito che la libertà è un dono del governo in cambio della sottomissione. L'inversione è stata compiuta con un abile trucco semantico.
La parola “democrazia” è la chiave di questo trucco. Quando cercate una definizione di questa parola, trovate che non è una forma di governo ma piuttosto la regola degli “atteggiamenti sociali.” Ma che cosa è un “atteggiamento sociale”? Mettendo da parte le verbose spiegazioni di questo sdrucciolevole concetto, risulta essere in pratica il buon vecchio maggioritarismo; ciò che il 51 per cento delle persone ritiene sia giusto è giusto, e la minoranza ha torto per forza. È la finzione della Volontà Generale sotto nuovo nome. Non c'è posto in questo concetto per la dottrina dei diritti inerenti; l'unico diritto che resta alla minoranza, in particolar modo alla minoranza di uno, è la conformità con “l'atteggiamento sociale” dominante.
Se “il governo siamo noi,” segue che l'uomo che si trovasse in prigione dovrebbe darsi la colpa per essersi rinchiuso lì dentro, e che l'uomo che sfruttasse tutte le detrazioni fiscali che la legge concede starebbe in realtà truffando sé stesso. Seppur questo possa apparire un'esagerata reductio ad absurdum, è un fatto che molti coscritti delle forze armate si consolino con quel tipo di logica. Questo paese è stato in gran parte popolato da renitenti alla leva – chiamata “zarismo” una generazione o due fa e ritenuta la forma più bassa di servitù involontaria.
Oggi un esercito di militari di leva passa in effetti per un esercito “democratico,” composto di uomini che si sono adeguati all'“atteggiamento sociale” del tempo. Questo fa lo stesso comune coscritto una volta obbligato ad interrompere i suoi sogni di carriera. L'accettazione del servizio militare obbligatorio ha raggiunto il punto di un'incoscia rinuncia alla personalità. L'individuo, come individuo, semplicemente non esiste più; è parte della massa.
Questo è il compimento dello statalismo. È una condizione dello spirito che non riconosce altro ego che quello della collettività. Per un'analogia, bisogna risalire alla pratica pagana del sacrificio umano: quando gli dei lo richiedevano, quando lo sciamano insisteva così tanto, come condizione per la prosperità del clan, gettarsi nel fuoco sacrificale era un dovere dell'individuo. In realtà, lo statalismo è una forma di paganesimo, dato che è il culto di un idolo, di qualcosa fatto dall'uomo. La sua base è puro dogma. Come tutti i dogmi esso è soggetto a interpretazioni e spiegazioni razionali, ciascuna con la sua corte di devoti. Ma, sia che ci si definisca un comunista, un socialista, un sostenitore del New Deal, o solo un semplice “democratico,” la premessa è che l'individuo esista solo come servo dell'idolo delle masse. Sia fatta la sua volontà.
È una strana circostanza della storia che lo spirito indagatore non sia mai cancellato o sepolto completamente. Le pressioni sociali e politiche possono costringere il curioso intellettuale ad adottare un'apparenza di conformità – dal momento che bisogna vivere nel proprio ambiente – ma la conformità reale è impossibile per una mente di quel genere. Deve chiedere “perché,” anche a sé stesso. E a volte è abbastanza difficile suggerire una deficienza nel modello prevalente di pensiero e parlare apertamente contro di esso.
Anche in questo ventesimo secolo ci sono coloro che sostengono, forse soltanto nel segreto della loro personalità, che il collettivismo è sbagliato e maligno e che non finirà bene. Ci sono nonconformisti che rifiutano il concetto hegeliano secondo cui “lo Stato incarna l'idea divina sulla terra.”
Ci sono alcuni che sostengono saldamente che soltanto l'uomo è fatto ad immagine di Dio, che lo Stato è un falso idolo. Sono in minoranza, siatene sicuri, come lo sono stati in tutta la storia; sono il “restanti” ai quali Isaia è incaricato di consegnare il messaggio. Forse costoro troveranno questa inchiesta nell'economia della Società, del Governo e dello Stato di un certo interesse; è stato scritto per loro.
Grazie Pax per l'ennesima traduzione! Una domanda: perché non 'attaccare' a fianco degli articoli anche dei pdf delle stesse rendendole consultabili più velocemente?
ReplyDeleteSarebbe molto fico, ma davvero non mi avanza il tempo...
ReplyDeleteOk, allora ci penserò io! Un po' alla volta si intende! :)
ReplyDeleteAppena ce li ho pronti mi faccio sentire per mail!
Ottimo, grazie!
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