Questo saggio, in cui Rothbard esprime quale dev'essere la motivazione primaria per l'impegno a favore della libertà, è il capitolo 15 di Egalitarianism As a Revolt Against Nature.
Una pagina appassionata e forse un po' malinconica, se letta alla luce delle condizioni attuali della libertà nel nostro triste mondo.
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Di Murray N. Rothbard
Perché essere libertari, alla fine? Con questo intendiamo, qual é il punto dell'intera questione? Perché dedicare la propria vita al profondo impegno per il principio e l'obiettivo della libertà individuale? Perché un simile impegno, nel nostro mondo in gran parte non libero, significa inevitabilmente un disaccordo radicale con lo status quo e l'alienazione da esso, un'alienazione che inevitabilmente impone molti sacrifici sia in denaro che in prestigio. Quando la vita è breve e il momento della vittoria lontano nel futuro, perché passare tutto questo?
Incredibilmente, abbiamo trovato fra il numero crescente di libertari in questo paese molte persone che pervengono all'impegno libertario da qualche punto di vista estremamente ristretto e personale. Molti sono attirati irresistibilmente verso la libertà come sistema intellettuale o come obiettivo estetico, ma la libertà rimane per loro un gioco di società puramente intellettuale, completamente divorziato da quelle che considerano come attività “reali” delle loro vite quotidiane. Altri sono motivati a rimanere libertari solo dalla loro anticipazione del proprio profitto finanziario personale. Avendo realizzato che un mercato libero offrirebbe agli uomini abili e indipendenti ben maggiori occasioni di raccogliere profitti imprenditoriali, diventano e rimangono libertari soltanto per trovare più grandi occasioni di profitto. Mentre è vero che le occasioni di profitto saranno ben maggiori e più diffuse in un mercato ed in una società liberi, porre l'enfasi primaria su questa motivazione per essere libertari può essere considerata semplicemente grottesca. Perché nel cammino spesso tortuoso, difficile e faticoso che deve essere percorso prima che la libertà possa essere raggiunta, le occasioni di profitto personale per il libertario saranno molto più spesso negative che abbondanti.
La conseguenza della visione ristretta e miope sia dei giocatori che dei potenziali creatori di profitto è che né l'uno né l'altro gruppo hanno il minimo interesse nel lavoro di sviluppo del movimento libertario. Ma è soltanto sviluppando un tale movimento che la libertà potrà infine essere realizzata. Le idee e particolarmente le idee radicali, non progrediscono nel mondo per conto loro, come se fossero nel vuoto; possono progredire soltanto tramite le persone e, pertanto, lo sviluppo ed il progresso di tali persone – e quindi di un “movimento” – diventa un compito primario per un libertario che sia realmente serio circa il raggiungimento dei suoi obiettivi.
Lasciando da parte questi uomini dalla visione ristretta, dobbiamo inoltre osservare come l'utilitarismo – il terreno comune degli economisti del libero mercato – è insoddisfacente per sviluppare un fiorente movimento libertario. Mentre è vero ed è utile sapere che un mercato libero porterebbe a tutti, sia ricchi che poveri, ben maggiore abbondanza ed un'economia più sana, un problema critico è se questa conoscenza sia sufficiente per convincere molti a dedicare la vita alla libertà.
In breve, quanti prenderanno posto sulle barricate e resisteranno ai molti sacrifici che una devozione costante alla libertà richiede, solo per fare in modo che una maggior numero di persone abbia vasche da bagno migliori? Non si cercheranno piuttosto una vita facile e non dimenticheranno il numero delle vasche da bagno? Infine, allora, l'economia utilitarista, anche se indispensabile nella sviluppata struttura di pensiero e di azione del libertario, è insoddisfacente come lavoro di base per il movimento quasi quanto quegli opportunisti che cercano semplicemente un profitto a breve termine.
È il nostro punto di vista che un fiorente movimento libertario, un impegno vitalizio per la libertà, possa essere fondato soltanto su una passione per la giustizia. Qui deve stare la molla principale del nostro ingranaggio, l'armatura che ci proteggerà in ogni futura tempesta, non la ricerca di un dollaro facile, i giochi intellettuali o il calcolo freddo dei guadagni economici in generale. E, per avere una passione per la giustizia, bisogna avere una teoria su ciò che la giustizia e l'ingiustizia sono – in breve, un insieme di principi etici della giustizia e dell'ingiustizia, che non possono essere forniti dall'economia utilitarista.
È perché vediamo il mondo trasudare ingiustizie accatastate una sull'altra fino al più alto dei cieli che siamo costretti a fare tutto quel che possiamo per cercare un mondo in cui queste ed altre ingiustizie saranno sradicate. Altri obiettivi radicali tradizionali – come “l'abolizione della povertà” – sono, contrariamente a questo, davvero utopici, perché l'uomo, semplicemente esercitando la sua volontà, non può abolire la povertà. La povertà può essere abolita soltanto con il funzionamento di determinati fattori economici – in particolar modo l'investimento del risparmio nel capitale – che possono operare soltanto trasformando la natura su un lungo periodo di tempo. In breve, la volontà umana è qui severamente limitata dal funzionamento – per usare un termine antiquato ma ancora valido – della legge naturale. Ma le ingiustizie sono atti inflitti da un insieme di uomini su un altro; sono precisamente azioni di uomini e, quindi, la loro eliminazione è soggetta all'istantanea volontà umana.
Facciamo un esempio: la secolare occupazione e l'oppressione brutale della gente irlandese da parte dell'Inghilterra. Ora, se nel 1900 avessimo esaminato la condizione dell'Irlanda ed avessimo considerato la povertà della gente irlandese, avremmo dovuto dire: la povertà potrebbe diminuire con l'allontanamento degli inglesi e la rimozione dei loro monopoli terrieri, ma la definitiva eliminazione della povertà in Irlanda, pur nelle migliori circostanze, richiederebbe tempo e sarebbe soggetta al funzionamento della legge economica. Ma l'obiettivo della conclusione dell'oppressione inglese potrebbe essere raggiunto mediante l'azione istantanea della volontà umana: degli inglesi che decidessero semplicemente di lasciare il paese.
Il fatto che naturalmente tali decisioni non avvengono istantaneamente non è il punto; il punto è che il vero fallimento è un'ingiustizia che è stata stabilita ed imposta dai perpetratori di ingiustizie: in questo caso, il governo inglese. Nel campo della giustizia, la volontà umana è tutto; gli uomini possono spostare le montagne, se solo lo decidono. Una passione per una giustizia istantanea – in breve, una passione radicale – è quindi non utopista, come può esserlo un desiderio per l'eliminazione istantanea della povertà o la trasformazione all'istante di ciascuno in un pianista da concerto. Perché una giustizia istantanea potrebbe venir realizzata se abbastanza persone lo volessero.
Una vera passione per la giustizia, allora, deve essere radicale – in breve, deve almeno desiderare di raggiungere radicalmente ed istantaneamente i propri obiettivi. Leonard E. Read, presidente e fondatore della Fondazione per l'Educazione Economica, ha espresso questo spirito radicale molto a proposito quando ha scritto l'opuscolo I'd Push the Button. Il problema era che fare con la rete di controlli di prezzi e salari allora imposti all'economia dall'Ufficio della Gestione dei Prezzi. La maggior parte dei liberali economici sostenevano timidamente o “realisticamente” l'una o l'altra forma di graduale o scaglionata abolizione dei controlli; a quel punto, il sig. Read ha preso una posizione inequivocabile e radicale sul principio: “se ci fosse un pulsante su questo palco, ” ha detto all'inizio del suo discorso, “premendo il quale si eliminerebbero istantaneamente tutti i controlli di prezzi e salari, ci poggerei il dito e lo premerei! ” [1]
La vera prova, allora, dello spirito radicale, è la prova del pulsante: se potessimo premerlo per l'abolizione istantanea delle invasioni ingiuste della libertà, lo faremmo? Se non lo facciamo, potremmo a malapena denominarci libertari, e la maggior parte di noi lo farebbe soltanto se guidata soprattutto dalla passione per la giustizia.
Il genuino libertario è quindi, in ogni senso, un “abolizionista”; se potesse, abolirebbe istantaneamente tutte le invasioni della libertà, sia che si tratti, nel significato originale del termine, di schiavitù, sia che si tratti dei molteplici altri casi di oppressione dello Stato. Si procurerebbe, con le parole di un altro libertario in una simile situazione, “delle vesciche sul pollice premendo quel pulsante!”
Il libertario deve per forza essere un “premi-pulsante” e un “abolizionista.” Animato dalla giustizia, egli non può essere spostato dalle amorali richieste utilitariste che la giustizia non venga stabilita finché i criminali saranno “indennizzati.” Di conseguenza, quando nacque il grande movimento abolizionista all'inizio del diciannovesimo secolo, subito si levarono voci di moderazione consigliando che sarebbe stato giusto abolire la schiavitù solo se i padroni degli schiavi fossero stati compensati finanziariamente per la loro perdita. In breve, dopo secoli di oppressione e sfruttamento, i padroni degli schiavi sarebbero stati ulteriormente ricompensati con una bella somma sottratta con la forza dalla massa di contribuenti innocenti! L'osservazione più adatta su questa proposta venne formulata dal filosofo inglese radicale Benjamin Pearson, che rilevò di aver “pensato che fossero gli schiavi che a dover essere indennizzati” ; chiaramente, tale indennizzo avrebbe potuto venire soltanto dai padroni degli schiavi stessi. [2]
Gli antilibertari e gli antiradicali in genere, sostengono tipicamente che tale “abolizionismo” sia “non realistico;” presentando una tale accusa confondono disperatamente l'obiettivo desiderato con una stima strategica del risultato probabile.
Inquadrando il principio, è della massima importanza non mischiare le stime strategiche con la definizione degli obiettivi voluti. In primo luogo, gli obiettivi devono essere formulati, che, in questo caso, sarebbe l'abolizione istantanea della schiavitù o di qualunque altra oppressione statuale vogliamo considerare. E dobbiamo in primo luogo inquadrare questi obiettivi senza considerare la probabilità del loro raggiungimento. Gli obiettivi del libertario sono “realistici” nel senso che potrebbero essere realizzati se abbastanza persone si accordassero sulla loro opportunità e che, se realizzati, determinerebbero un mondo di gran lunga migliore. Il “realismo” dell'obiettivo può essere sfidato soltanto da una valutazione dell'obiettivo in sé, non nel problema di come raggiungerlo. Allora, dopo aver deciso l'obiettivo, affronteremo la domanda strategica del tutto separata di come raggiungere quell'obiettivo al più presto possibile, come costruire un movimento per raggiungerlo, ecc.
Quindi, William Lloyd Garrison non era “non realista” quando, nei 30, alzò il glorioso vessillo dell'immediata emancipazione degli schiavi. Il suo obiettivo era quello adeguato ed il suo realismo strategico stava nel fatto che non si aspettava che il suo obiettivo venisse raggiunto rapidamente. O, come Garrison stesso sottolineò:
Ma sopra ed oltre i requisiti della strategia stanno gli imperativi della giustizia. In un suo famoso editoriale lanciato da The Liberator all'inizio del 1831, William Lloyd Garrison si pentì della sua precedente approvazione della dottrina dell'abolizione graduale:
È questo lo spirito che deve contrassegnare l'uomo sinceramente dedicato alla causa della libertà. [5]
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Note
[1] Leonard E. Read, I'd Push the Button (New York: Joseph D. McGuire, 1946), p. 3.
[2] William D. Grampp, The Manchester School of Economics (Stanford, Calif.: Stanford University Press, 1960), p. 59.
[3] Citato da William H. e Jane H. Pease, The Antislavery Argument (Indianapolis: Robbs-Merrill, 1965), p. xxxv.
[4] Alla conclusione di una brillante valutazione filosofica dell'accusa di “non-realismo” e la sua confusione tra il bene e l'attuale probabile, il professor Philbrook dichiara:
[5] Per le citazioni di Garrison, vedi Louis Ruchames, ed., The Abolitionists (New York: Capricorn Books, 1964), p. 31, e Fawn M. Brodie, “Who Defends the Abolitionist?” in The Antislavery Vanguard, Martin Duberman, ed. (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1965), p. 67. Il lavoro di Duberman è un importante deposito di materiale, comprendente le confutazioni degli sforzi comuni dei facenti parte lo status quo nella diffamazione psicologica dei radicali in genere e degli abolizionisti in particolare. Vedi particolarmente Martin Duberman, “The Northern Response to Slavery,” in Ibid., pp. 406-13.
Link all'articolo originale.
Una pagina appassionata e forse un po' malinconica, se letta alla luce delle condizioni attuali della libertà nel nostro triste mondo.
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Di Murray N. Rothbard
Perché essere libertari, alla fine? Con questo intendiamo, qual é il punto dell'intera questione? Perché dedicare la propria vita al profondo impegno per il principio e l'obiettivo della libertà individuale? Perché un simile impegno, nel nostro mondo in gran parte non libero, significa inevitabilmente un disaccordo radicale con lo status quo e l'alienazione da esso, un'alienazione che inevitabilmente impone molti sacrifici sia in denaro che in prestigio. Quando la vita è breve e il momento della vittoria lontano nel futuro, perché passare tutto questo?
Incredibilmente, abbiamo trovato fra il numero crescente di libertari in questo paese molte persone che pervengono all'impegno libertario da qualche punto di vista estremamente ristretto e personale. Molti sono attirati irresistibilmente verso la libertà come sistema intellettuale o come obiettivo estetico, ma la libertà rimane per loro un gioco di società puramente intellettuale, completamente divorziato da quelle che considerano come attività “reali” delle loro vite quotidiane. Altri sono motivati a rimanere libertari solo dalla loro anticipazione del proprio profitto finanziario personale. Avendo realizzato che un mercato libero offrirebbe agli uomini abili e indipendenti ben maggiori occasioni di raccogliere profitti imprenditoriali, diventano e rimangono libertari soltanto per trovare più grandi occasioni di profitto. Mentre è vero che le occasioni di profitto saranno ben maggiori e più diffuse in un mercato ed in una società liberi, porre l'enfasi primaria su questa motivazione per essere libertari può essere considerata semplicemente grottesca. Perché nel cammino spesso tortuoso, difficile e faticoso che deve essere percorso prima che la libertà possa essere raggiunta, le occasioni di profitto personale per il libertario saranno molto più spesso negative che abbondanti.
La conseguenza della visione ristretta e miope sia dei giocatori che dei potenziali creatori di profitto è che né l'uno né l'altro gruppo hanno il minimo interesse nel lavoro di sviluppo del movimento libertario. Ma è soltanto sviluppando un tale movimento che la libertà potrà infine essere realizzata. Le idee e particolarmente le idee radicali, non progrediscono nel mondo per conto loro, come se fossero nel vuoto; possono progredire soltanto tramite le persone e, pertanto, lo sviluppo ed il progresso di tali persone – e quindi di un “movimento” – diventa un compito primario per un libertario che sia realmente serio circa il raggiungimento dei suoi obiettivi.
Lasciando da parte questi uomini dalla visione ristretta, dobbiamo inoltre osservare come l'utilitarismo – il terreno comune degli economisti del libero mercato – è insoddisfacente per sviluppare un fiorente movimento libertario. Mentre è vero ed è utile sapere che un mercato libero porterebbe a tutti, sia ricchi che poveri, ben maggiore abbondanza ed un'economia più sana, un problema critico è se questa conoscenza sia sufficiente per convincere molti a dedicare la vita alla libertà.
In breve, quanti prenderanno posto sulle barricate e resisteranno ai molti sacrifici che una devozione costante alla libertà richiede, solo per fare in modo che una maggior numero di persone abbia vasche da bagno migliori? Non si cercheranno piuttosto una vita facile e non dimenticheranno il numero delle vasche da bagno? Infine, allora, l'economia utilitarista, anche se indispensabile nella sviluppata struttura di pensiero e di azione del libertario, è insoddisfacente come lavoro di base per il movimento quasi quanto quegli opportunisti che cercano semplicemente un profitto a breve termine.
È il nostro punto di vista che un fiorente movimento libertario, un impegno vitalizio per la libertà, possa essere fondato soltanto su una passione per la giustizia. Qui deve stare la molla principale del nostro ingranaggio, l'armatura che ci proteggerà in ogni futura tempesta, non la ricerca di un dollaro facile, i giochi intellettuali o il calcolo freddo dei guadagni economici in generale. E, per avere una passione per la giustizia, bisogna avere una teoria su ciò che la giustizia e l'ingiustizia sono – in breve, un insieme di principi etici della giustizia e dell'ingiustizia, che non possono essere forniti dall'economia utilitarista.
È perché vediamo il mondo trasudare ingiustizie accatastate una sull'altra fino al più alto dei cieli che siamo costretti a fare tutto quel che possiamo per cercare un mondo in cui queste ed altre ingiustizie saranno sradicate. Altri obiettivi radicali tradizionali – come “l'abolizione della povertà” – sono, contrariamente a questo, davvero utopici, perché l'uomo, semplicemente esercitando la sua volontà, non può abolire la povertà. La povertà può essere abolita soltanto con il funzionamento di determinati fattori economici – in particolar modo l'investimento del risparmio nel capitale – che possono operare soltanto trasformando la natura su un lungo periodo di tempo. In breve, la volontà umana è qui severamente limitata dal funzionamento – per usare un termine antiquato ma ancora valido – della legge naturale. Ma le ingiustizie sono atti inflitti da un insieme di uomini su un altro; sono precisamente azioni di uomini e, quindi, la loro eliminazione è soggetta all'istantanea volontà umana.
Facciamo un esempio: la secolare occupazione e l'oppressione brutale della gente irlandese da parte dell'Inghilterra. Ora, se nel 1900 avessimo esaminato la condizione dell'Irlanda ed avessimo considerato la povertà della gente irlandese, avremmo dovuto dire: la povertà potrebbe diminuire con l'allontanamento degli inglesi e la rimozione dei loro monopoli terrieri, ma la definitiva eliminazione della povertà in Irlanda, pur nelle migliori circostanze, richiederebbe tempo e sarebbe soggetta al funzionamento della legge economica. Ma l'obiettivo della conclusione dell'oppressione inglese potrebbe essere raggiunto mediante l'azione istantanea della volontà umana: degli inglesi che decidessero semplicemente di lasciare il paese.
Il fatto che naturalmente tali decisioni non avvengono istantaneamente non è il punto; il punto è che il vero fallimento è un'ingiustizia che è stata stabilita ed imposta dai perpetratori di ingiustizie: in questo caso, il governo inglese. Nel campo della giustizia, la volontà umana è tutto; gli uomini possono spostare le montagne, se solo lo decidono. Una passione per una giustizia istantanea – in breve, una passione radicale – è quindi non utopista, come può esserlo un desiderio per l'eliminazione istantanea della povertà o la trasformazione all'istante di ciascuno in un pianista da concerto. Perché una giustizia istantanea potrebbe venir realizzata se abbastanza persone lo volessero.
Una vera passione per la giustizia, allora, deve essere radicale – in breve, deve almeno desiderare di raggiungere radicalmente ed istantaneamente i propri obiettivi. Leonard E. Read, presidente e fondatore della Fondazione per l'Educazione Economica, ha espresso questo spirito radicale molto a proposito quando ha scritto l'opuscolo I'd Push the Button. Il problema era che fare con la rete di controlli di prezzi e salari allora imposti all'economia dall'Ufficio della Gestione dei Prezzi. La maggior parte dei liberali economici sostenevano timidamente o “realisticamente” l'una o l'altra forma di graduale o scaglionata abolizione dei controlli; a quel punto, il sig. Read ha preso una posizione inequivocabile e radicale sul principio: “se ci fosse un pulsante su questo palco, ” ha detto all'inizio del suo discorso, “premendo il quale si eliminerebbero istantaneamente tutti i controlli di prezzi e salari, ci poggerei il dito e lo premerei! ” [1]
La vera prova, allora, dello spirito radicale, è la prova del pulsante: se potessimo premerlo per l'abolizione istantanea delle invasioni ingiuste della libertà, lo faremmo? Se non lo facciamo, potremmo a malapena denominarci libertari, e la maggior parte di noi lo farebbe soltanto se guidata soprattutto dalla passione per la giustizia.
Il genuino libertario è quindi, in ogni senso, un “abolizionista”; se potesse, abolirebbe istantaneamente tutte le invasioni della libertà, sia che si tratti, nel significato originale del termine, di schiavitù, sia che si tratti dei molteplici altri casi di oppressione dello Stato. Si procurerebbe, con le parole di un altro libertario in una simile situazione, “delle vesciche sul pollice premendo quel pulsante!”
Il libertario deve per forza essere un “premi-pulsante” e un “abolizionista.” Animato dalla giustizia, egli non può essere spostato dalle amorali richieste utilitariste che la giustizia non venga stabilita finché i criminali saranno “indennizzati.” Di conseguenza, quando nacque il grande movimento abolizionista all'inizio del diciannovesimo secolo, subito si levarono voci di moderazione consigliando che sarebbe stato giusto abolire la schiavitù solo se i padroni degli schiavi fossero stati compensati finanziariamente per la loro perdita. In breve, dopo secoli di oppressione e sfruttamento, i padroni degli schiavi sarebbero stati ulteriormente ricompensati con una bella somma sottratta con la forza dalla massa di contribuenti innocenti! L'osservazione più adatta su questa proposta venne formulata dal filosofo inglese radicale Benjamin Pearson, che rilevò di aver “pensato che fossero gli schiavi che a dover essere indennizzati” ; chiaramente, tale indennizzo avrebbe potuto venire soltanto dai padroni degli schiavi stessi. [2]
Gli antilibertari e gli antiradicali in genere, sostengono tipicamente che tale “abolizionismo” sia “non realistico;” presentando una tale accusa confondono disperatamente l'obiettivo desiderato con una stima strategica del risultato probabile.
Inquadrando il principio, è della massima importanza non mischiare le stime strategiche con la definizione degli obiettivi voluti. In primo luogo, gli obiettivi devono essere formulati, che, in questo caso, sarebbe l'abolizione istantanea della schiavitù o di qualunque altra oppressione statuale vogliamo considerare. E dobbiamo in primo luogo inquadrare questi obiettivi senza considerare la probabilità del loro raggiungimento. Gli obiettivi del libertario sono “realistici” nel senso che potrebbero essere realizzati se abbastanza persone si accordassero sulla loro opportunità e che, se realizzati, determinerebbero un mondo di gran lunga migliore. Il “realismo” dell'obiettivo può essere sfidato soltanto da una valutazione dell'obiettivo in sé, non nel problema di come raggiungerlo. Allora, dopo aver deciso l'obiettivo, affronteremo la domanda strategica del tutto separata di come raggiungere quell'obiettivo al più presto possibile, come costruire un movimento per raggiungerlo, ecc.
Quindi, William Lloyd Garrison non era “non realista” quando, nei 30, alzò il glorioso vessillo dell'immediata emancipazione degli schiavi. Il suo obiettivo era quello adeguato ed il suo realismo strategico stava nel fatto che non si aspettava che il suo obiettivo venisse raggiunto rapidamente. O, come Garrison stesso sottolineò:
Per quanto sinceramente sollecitiamo l'abolizione immediata, alla fine, ahimè! avremo l'abolizione graduale. Non abbiamo mai detto che la schiavitù sarebbe stata rovesciata con un singolo colpo; che così dovrebbe essere, noi lo sosterremo sempre. [3]In effetti, nel regno della strategia, alzare la bandiera del principio puro e radicale è generalmente il modo più veloce di arrivare ad obiettivi radicali. Perché se l'obiettivo puro non è mai portato avanti, non ci sarà mai alcuno slancio per muoversi verso di esso. La schiavitù non sarebbe mai stata abolita se gli abolizionisti non avessero alzato i toni e gridato trent'anni prima; e, come le cose si svilupparono, l'abolizione fu virtualmente un singolo colpo piuttosto che graduale o compensativa. [4]
Ma sopra ed oltre i requisiti della strategia stanno gli imperativi della giustizia. In un suo famoso editoriale lanciato da The Liberator all'inizio del 1831, William Lloyd Garrison si pentì della sua precedente approvazione della dottrina dell'abolizione graduale:
Uso questa opportunità per fare una ritrattazione completa ed inequivocabile e chiedere così pubblicamente il perdono del mio Dio, del mio paese, e dei miei fratelli, i poveri schiavi, per aver espresso un sentimento così pieno di timidezza, ingiustizia ed assurdità.Biasimato per la severità ed il calore abituali del suo linguaggio, Garrison replicò: “ho bisogno di essere in fiamme, perché ho in me montagne di ghiaccio da sciogliere.”
È questo lo spirito che deve contrassegnare l'uomo sinceramente dedicato alla causa della libertà. [5]
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Note
[1] Leonard E. Read, I'd Push the Button (New York: Joseph D. McGuire, 1946), p. 3.
[2] William D. Grampp, The Manchester School of Economics (Stanford, Calif.: Stanford University Press, 1960), p. 59.
[3] Citato da William H. e Jane H. Pease, The Antislavery Argument (Indianapolis: Robbs-Merrill, 1965), p. xxxv.
[4] Alla conclusione di una brillante valutazione filosofica dell'accusa di “non-realismo” e la sua confusione tra il bene e l'attuale probabile, il professor Philbrook dichiara:
Solo un tipo di difesa seria di una politica è aperto ad un economista o a chiunque altro: deve sostenere che la politica è buona. Il vero ‘realismo' è la stessa cosa che gli uomini hanno da sempre inteso con la saggezza: decidere l'immediato alla luce del definitivo.Clarence Philbrook, “'Realism' in Policy Espousal,” American Economic Review (dicembre 1953): 859.
[5] Per le citazioni di Garrison, vedi Louis Ruchames, ed., The Abolitionists (New York: Capricorn Books, 1964), p. 31, e Fawn M. Brodie, “Who Defends the Abolitionist?” in The Antislavery Vanguard, Martin Duberman, ed. (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1965), p. 67. Il lavoro di Duberman è un importante deposito di materiale, comprendente le confutazioni degli sforzi comuni dei facenti parte lo status quo nella diffamazione psicologica dei radicali in genere e degli abolizionisti in particolare. Vedi particolarmente Martin Duberman, “The Northern Response to Slavery,” in Ibid., pp. 406-13.
Link all'articolo originale.
Grazie per la traduzione, questo articolo mi aiuta a capire ancora di più il mio essere.
ReplyDelete"Infettato" sempre di +