Sunday, June 22, 2008

La presunzione della conoscenza

Questo discorso di Hayek alla memoria di Alfred Nobel dell'11 dicembre 1974 è coperto dal copyright della Nobel Foundation, ma veramente non ho potuto fare a meno di tradurla (copiatevela quindi al più presto, non si sa mai) perché oltre ad essere una elegante e attualissima trattazione su inflazione e disoccupazione, i principali mali economici che ancor oggi ci affliggono, è una potente lezione sui limiti della conoscenza umana, sulla presunzione di chi, in nome della scienza e del progresso, pretende di superarli, e sui pericoli che questo atteggiamento comporta.

Una grande lezione di umanità e umiltà, da parte di una delle menti più luminose del nostro secolo e non solo. (Scarica il pdf.)
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Di Friedrich A. Hayek


L'occasione particolare di questa conferenza, insieme al principale problema pratico che gli economisti devono affrontare oggi, ha reso la scelta del suo soggetto quasi inevitabile. Da una parte l'ancora recente istituzione del premio Nobel per la Scienza Economica segna un punto significativo nel processo tramite cui, nell'opinione del grande pubblico, all'economia è stata concessa parte della dignità e del prestigio delle scienze fisiche. D'altra parte, gli economisti sono in questo momento chiamati a dire come districare il mondo libero dalla grave minaccia dell'inflazione sempre più veloce determinata, bisogna ammetterlo, dalle politiche che la maggior parte degli economisti hanno suggerito e perfino invitato i governi a perseguire. Abbiamo effettivamente al momento pochi motivi per essere orgogliosi: come professione noi abbiamo fatto un gran pasticcio.

Pare a me che questo fallimento degli economisti nel guidare positivamente la politica sia strettamente collegata con la loro tendenza ad imitare quanto più rigorosamente possibile le procedure delle scienze fisiche così di successo – un tentativo che nel nostro campo può condurre all'errore fatale. È un approccio che è stato descritto come attitudine “ scientistica” – un'attitudine che, come la definii circa trent'anni fa, “è decisamente non scientifico nel senso vero della parola, poiché prevede un'applicazione meccanica e non critica delle abitudini di pensiero a campi differenti da quelli in cui sono stati formati.” [1] Voglio oggi cominciare spiegando come alcuni degli errori più gravi della recente politica economica sono una conseguenza diretta di questo errore scientistico.

La teoria che sta guidando la politica monetaria e finanziaria negli ultimi trent'anni, e che io contesto, è in gran parte il prodotto di tale concezione erronea dell'adeguata procedura scientifica, consiste nell'asserzione che esista una semplice correlazione positiva fra la piena occupazione e la dimensione della domanda aggregata di beni e servizi; conduce alla convinzione che possiamo permanentemente assicurare la piena occupazione mantenendo la spesa totale di moneta ad un livello appropriato. Fra le varie teorie avanzate per spiegare l'ampia disoccupazione, questa è probabilmente l'unica a sostegno di cui una forte evidenza quantitativa possa essere addotta. Tuttavia io la considero fondamentalmente falsa, e l'agire sulla sua base, come sperimentiamo oggi, molto dannoso.

Questo ci porta alla questione cruciale. Diversamente della posizione che esiste nelle scienze fisiche, nell'economia ed in altre discipline che si occupano di fenomeni essenzialmente complessi, gli aspetti degli eventi da spiegare di cui possiamo ottenere dati quantitativi sono necessariamente limitati e possono non includere quelli importanti. Mentre nelle scienze fisiche si assume generalmente, probabilmente a buona ragione, che ogni fattore importante che determina gli eventi osservati può essere a sua volta direttamente osservabile e misurabile, nello studio di tali fenomeni complessi come il mercato, che dipendono dalle azioni di molti individui, tutte le circostanze che determineranno il risultato di un processo, per i motivi che spiegherò più avanti, difficilmente potranno mai essere completamente conosciute o misurabili. E mentre nelle scienze fisiche il ricercatore potrà misurare ciò che, sulla base di una teoria prima facie, considera importante, nelle scienze sociali spesso è trattato come importante ciò che è accessibile alla misurazione. Questo fatto a volte è portato al punto in cui si richiede che le nostre teorie debbano essere formulate in termini che fanno riferimento soltanto a grandezze misurabili.

Difficilmente si può negare che una tale richiesta limita del tutto arbitrariamente i fatti che devono essere ammessi come cause possibili degli eventi che si presentano nel mondo reale. Questa visione, accettata spesso abbastanza ingenuamente come richiesta dalle esigenze della procedura scientifica, ha alcune conseguenze piuttosto paradossali. Sappiamo, naturalmente, riguardo al mercato ed a simili strutture sociali, una grande quantità di fatti che non possiamo misurare e sui quali in effetti abbiamo soltanto alcune informazioni generali e molto imprecise. E poiché gli effetti di questi fatti in nessun caso particolare possono essere confermati dalla prova quantitativa, sono semplicemente trascurati da chi è votato ad ammettere soltanto ciò che considera prova scientifica: subito dopo procedono felicemente fingendo che i fattori che possono misurare siano gli unici rilevanti.

La correlazione fra la domanda aggregata e la piena occupazione, per esempio, può solo essere approssimativa, ma poiché è l'unica su cui abbiamo dati quantitativi, è accettata come l'unico collegamento causale che conta. Su questo standard può quindi ben esistere una migliore prova “scientifica” per una falsa teoria, che sarà accettata perché è più “scientifica,” che per una spiegazione valida, rifiutata perché non c'è prova quantitativa sufficiente per essa.

Lasciate che ve lo illustri con un breve abbozzo di ciò che considero la principale causa reale della vasta disoccupazione – un'esposizione che inoltre spiegherà perché tale disoccupazione non può essere curata durevolmente dalle politiche inflazionistiche suggerite dalla teoria oggi alla moda. Questa corretta spiegazione mi sembra che sia l'esistenza delle discrepanze fra la distribuzione della domanda fra i diversi beni e servizi e la ripartizione della forza lavoro e di altre risorse fra queste produzioni. Possediamo una conoscenza “qualitativa” ragionevolmente buona delle forze da cui è determinata una corrispondenza fra l'offerta e domanda nei diversi settori del sistema economico, delle circostanze sotto cui sarà realizzata, e dei probabili fattori che impediranno una tale sistemazione. I passi separati nella spiegazione di questo processo poggiano su fatti di esperienza quotidiana, e pochi tra quelli che si prenderanno il disturbo di seguire la discussione metteranno in discussione la validità degli assunti fattuali, o la correttezza logica delle conclusioni da essi ricavate. Abbiamo effettivamente buona ragione di credere che la disoccupazione indichi che la struttura dei prezzi e degli stipendi relativi è stata distorta (solitamente dal controllo dei prezzi monopolistico o governativo) e che per ristabilire uguaglianza fra la domanda e l'offerta di forza lavoro in tutti i settori siano necessari un cambiamento dei prezzi relativi ed alcuni trasferimenti di forza lavoro.

Ma quando ci viene richiesta una prova quantitativa per la particolare struttura dei prezzi e degli stipendi che sarebbero richiesti per assicurare una vendita continua e regolare dei prodotti e dei servizi offerti, dobbiamo ammettere che non abbiamo tali informazioni. Sappiamo, in altre parole, le condizioni generali in cui ciò che chiamiamo, per certi versi ingannevolmente, un equilibrio, verrà ristabilito; ma non sappiamo mai quali sarebbero i particolari prezzi o stipendi che esisterebbero se nel mercato si verificasse un tale equilibrio. Possiamo soltanto dire quali sono le circostanze nelle quali possiamo attenderci che il mercato stabilisca prezzi e stipendi con cui la domanda uguaglierà l'offerta. Ma non potremo mai produrre informazioni statistiche che mostrino quanto i prezzi e gli stipendi prevalenti deviano da quelli che assicurerebbero una vendita continua dell'attuale offerta di forza lavoro. Benché questa spiegazione delle cause della disoccupazione sia una teoria empirica – nel senso che non potrebbe essere provata falsa, per esempio se, con una massa monetaria costante, un aumento generale degli stipendi non conducesse a disoccupazione – non è certamente il genere di teoria che potremmo usare per ottenere previsioni numeriche specifiche riguardo ai tassi salariali, o la distribuzione del lavoro, che ci si aspettano.

Perché dovremmo, tuttavia, in economia, invocare l'ignoranza del genere di fatti su cui, nel caso di una teoria fisica, ci si aspetterebbe certamente che uno scienziato fornisca informazioni precise? Probabilmente non sorprende che chi sia impressionato dall'esempio delle scienze fisiche troverebbe questa posizione molto insoddisfacente e insisterebbe sugli standard di prova che trovano in esse. Il motivo per questa situazione è il fatto, a cui già ho fatto un breve riferimento, che le scienze sociali, come molta della biologia ma diversamente della maggior parte dei campi delle scienze fisiche, devono occuparsi di strutture di complessità essenziale, vale a dire, con strutture le cui proprietà caratteristiche possono essere esibite soltanto da modelli composti di un numero di variabili relativamente ampio. La concorrenza, per esempio, è un processo che porterà determinati risultati soltanto se procede in un numero ragionevolmente grande di agenti.

In alcuni campi, specialmente dove problemi di tipo simile si presentano nelle scienze fisiche, le difficoltà possono essere superate usando, anziché informazioni specifiche sui diversi elementi, dati sulla frequenza relativa, o la probabilità, dell'occorrenza di varie proprietà distintive degli elementi. Ma questo è vero soltanto dove dobbiamo occuparci di quelli che il dott. Warren Weaver (in precedenza della Fondazione Rockefeller) ha chiamato, con una distinzione che dovrebbe essere molto meglio compresa, “fenomeni di complessità disorganizzata,” in contrasto a quei “fenomeni di complessità organizzata” con i quali ci dobbiamo confrontare nelle scienze sociali. [2]

La complessità organizzata qui significa che il carattere delle strutture che la espongono dipende non solo dalle proprietà di diversi elementi di cui sono composte e dalla frequenza relativa con cui si presentano, ma anche dal modo in cui i diversi elementi sono collegati tra loro. Nella spiegazione del funzionamento di tali strutture non possiamo per questo motivo sostituire le informazioni sui diversi elementi con informazioni statistiche, ma necessitiamo delle informazioni complete su ogni elemento se dalla nostra teoria dobbiamo derivare previsioni specifiche su eventi separati. Senza tali informazioni specifiche sui diversi elementi saremo limitati a ciò che in un'altra occasione ho chiamato semplici previsioni della struttura – previsioni di alcuni degli attributi generali delle strutture che si formeranno, ma non contenenti specifiche dichiarazioni circa i diversi elementi di cui le strutture si comporranno. [3]

Ciò è particolarmente vero per le nostre teorie che spiegano la determinazione dei sistemi dei prezzi e degli stipendi relativi che si formeranno in un mercato ben funzionante. Nella determinazione di questi prezzi e stipendi entreranno gli effetti di informazioni particolari possedute da ciascuno dei partecipanti nel processo di mercato – una somma di fatti che nella loro totalità non possono essere conosciuti all'osservatore scientifico, o a qualunque altro singolo cervello. È in effetti la fonte della superiorità dell'ordine del mercato, e la ragione per cui, quando non è soppresso dai poteri del governo, rimuove regolarmente altri tipi di ordine, che nella risultante allocazione delle risorse sarà utilizzata la maggiore conoscenza dei fatti particolari che esiste soltanto dispersa fra innumerevoli persone, di quella che una sola persona può possedere. Ma poiché noi, gli scienziati che osservano, non potremo quindi mai conoscere tutti i fattori determinanti di un tale ordine, e di conseguenza neanche possiamo sapere a quale particolare struttura di prezzi e stipendi la domanda eguaglierebbe ovunque l'offerta, nemmeno possiamo misurare le deviazioni da quell'ordine; né possiamo verificare statisticamente la nostra teoria che sono le deviazioni da quel sistema di “equilibrio” di prezzi e stipendi che rende impossible vendere alcuni dei prodotti e dei servizi ai prezzi a cui sono offerti.

Prima di continuare con la mia preoccupazione immediata, gli effetti di tutto questo sulle politiche occupazionali attualmente perseguite, mi permettono di definire più specificamente le inerenti limitazioni della nostra conoscenza numerica così spesso trascurate. Voglio far questo per evitare di dare l'impressione di rifiutare generalmente il metodo matematico nell'economia. Considero in effetti come il grande vantaggio della tecnica matematica il fatto che ci permetta di descrivere, per mezzo di equazioni algebriche, il carattere generale di una struttura di cui siamo ignari persino dei valori numerici che determineranno la sua particolare manifestazione. Potremmo a malapena aver ottenuto quella completa immagine delle interdipendenza reciproche dei diversi eventi in un mercato senza questa tecnica algebrica. Ha condotto all'illusione, tuttavia, che possiamo usare questa tecnica per la determinazione e la previsione dei valori numerici di quelle grandezze; e questo ha condotto ad un'inutile ricerca delle costanti quantitative o numeriche. Questo è accaduto malgrado il fatto che i moderni fondatori dell'economia matematica non avessero tali illusioni. È vero che i loro sistemi di equazioni che descrivono la struttura di un equilibrio del mercato sono tali che, se potessimo riempire tutti gli spazi vuoti delle formule astratte, ovvero, se conoscessimo tutti i parametri di queste equazioni, potremmo calcolare i prezzi e le quantità di tutti i prodotti e servizi venduti. Ma come Vilfredo Pareto, uno dei fondatori di questa teoria, dichiarò chiaramente, il suo scopo non può essere di “arrivare ad un calcolo numerico dei prezzi,” perché, disse, sarebbe “irragionevole” supporre che potremmo accertare tutti i dati. [4] Effettivamente, il punto principale era già stato visto da quei notevoli precursori dell'economia moderna, gli scolastici spagnoli del XVI secolo, che enfatizzarono ciò che denominarono pretium mathematicum, il prezzo matematico, dipendente da tante circostanze particolari da non poter mai essere conosciuto dall'uomo ma solo da Dio. [5] Talvolta vorrei che i nostri economisti matematici l'avessero tenuto in giusta considerazione. Devo confessare che ancora dubito che la loro ricerca delle grandezze misurabili abbia portato contributi significativi alla nostra comprensione teorica dei fenomeni economici – a differenza del loro valore come descrizione di situazioni particolari. Né sono preparato ad accettare la giustificazione che questo ramo della ricerca sia ancora molto giovane: sir William Petty, il fondatore dell'econometria, era dopo tutto in qualche modo un collega anziano di sir Isaac Newton nella Royal Society!

Ci possono essere pochi casi in cui la superstizione che soltanto le grandezze misurabili possano essere importanti ha arrecato danni positivi nel campo economico: ma i problemi attuali dell'occupazione e dell'inflazione sono molto gravi. Il loro effetto è stato che quella che probabilmente è la vera causa della vasta disoccupazione è stata trascurata dalla maggior parte degli economisti scientisticamente orientati, perché le sue operazioni non possono essere confermate da rapporti direttamente osservabili fra grandezze misurabili, e che una concentrazione quasi esclusiva su fenomeni superficiali quantitativamente misurabili ha prodotto una politica che ha peggiorato il problema.

Bisogna, è naturale, ammettere prontamente che il genere di teoria che considero come la vera spiegazione della disoccupazione è una teoria dal contenuto piuttosto limitato perché ci permette di fare solo previsioni molto generali del tipo di eventi che ci dobbiamo attendere in una situazione data. Ma gli effetti sulla politica delle costruzioni più ambiziose non sono stati molto fortunati e confesso che preferisco la conoscenza vera ma imperfetta, anche se lascia molte cose indeterminate ed imprevedibili, ad una pretesa di conoscenza esatta che è probabile che sia falsa. Il credito che la conformità apparente con gli standard scientifici riconosciuti può ottenere per teorie apparentemente semplici ma false può avere, come il caso attuale mostra, gravi conseguenze.

Infatti, nel caso discusso, le stesse misure che la teoria “macroeconomica” dominante ha suggerito come rimedio per la disoccupazione – vale a dire, l'aumento della domanda aggregata – sono diventate la causa di una vastissima cattiva allocazione delle risorse che è probabile che renda inevitabile una successiva disoccupazione su grande scala. L'iniezione continua di somme di denaro supplementari in punti del sistema economico in cui genera una domanda provvisoria che dovrà cessare quando l'aumento della quantità di moneta si arresta o rallenta, insieme all'aspettativa di un continuo aumento dei prezzi, attira forza lavoro ed altre risorse in occupazioni che possono durare soltanto a condizione che l'aumento della quantità di moneta continui allo stesso tasso – o forse persino solo a condizione che continui ad accelerare ad un tasso dato. Quello che questa politica ha prodotto non è tanto un livello di occupazione che non avrebbe potuto essere determinato in altri modi, quanto una distribuzione dell'occupazione che non può essere mantenuta indefinitamente e che dopo un certo lasso di tempo può essere mantenuta soltanto da un tasso di inflazione che condurrebbe velocemente alla disorganizzazione di ogni attività economica. Il fatto è che per un'errata visione teorica siamo stati condotti in una posizione rischiosa in cui non possiamo impedire ad una sostanziale disoccupazione di riapparire; non perché, come è talvolta fraintesa questa visione, questa disoccupazione è determinata deliberatamente come mezzo per combattere l'inflazione, ma perché ora è destinata ad accadere come conseguenza profondamente spiacevole ma inevitabile delle politiche erronee del passato non appena l'inflazione cessa di accelerare.

Devo, tuttavia, lasciare ora questi problemi di importanza pratica immediata che ho introdotto principalmente a titolo illustrativo delle conseguenze di grande rilievo che possono seguire dagli errori riguardanti problemi astratti della filosofia della scienza. Ci sono altrettanti motivi per essere consci dei pericoli di lungo termine generati in un campo molto più largo dall'accettazione acritica di asserzioni che hanno l'apparenza di essere scientifiche di quanti ce ne siano riguardo ai problemi che ho appena discusso. Ciò che principalmente ho voluto mettere in evidenza tramite l'illustrazione dell'attualità è che certamente nel mio campo, ma credo anche generalmente nelle scienze umane, quella che appare superficialmente come la procedura più scientifica è spesso la meno scientifica e, oltre questo, che in questi campi ci sono dei limiti definiti a ciò che possiamo attenderci che la scienza realizzi. Questo significa che affidare alla scienza – o al controllo intenzionale secondo i principi scientifici – qualcosa di più di ciò che il metodo scientifico può realizzare può avere effetti deplorevoli. Il progresso delle scienze naturali nei tempi moderni naturalmente ha talmente superato tutte le aspettative che qualsiasi suggerimento che possa avere dei limiti è destinato a destare il sospetto. Resisteranno ad una tale idea specialmente tutti quelli che hanno sperato che il nostro crescente potere di previsione e controllo, generalmente considerato il risultato caratteristico del progresso scientifico, applicato ai processi della società, ci avrebbe presto permesso di modellare l'intera società a nostro piacere. È effettivamente vero che, contrariamente all'entusiasmo che le scoperte delle scienze fisiche tendono a produrre, la comprensione che otteniamo dallo studio della società ha più spesso l'effetto di smorzare le nostre aspirazioni; ed è forse non sorprendente che i più giovani e più impetuosi membri della nostra professione non sono sempre preparati accettarlo. Tuttavia la fiducia nel potere illimitato della scienza è solo basata troppo spesso sulla falsa credenza che il metodo scientifico consista nell'applicazione di una tecnica pronta, o nell'imitazione della forma piuttosto che della sostanza della procedura scientifica, come se bastasse soltanto seguire alcune ricette di cucina per risolvere tutti i problemi sociali. A volte sembra quasi che le tecniche della scienza siano state imparate più facilmente del pensiero che ci mostra quali sono i problemi e come affrontarli.

Il conflitto fra ciò che il pubblico nel suo umore attuale si aspetta che la scienza realizzi per soddisfare delle speranze popolari e ciò che è realmente in suo potere è una questione seria perché, anche se i veri scienziati riconoscessero tutti le limitazioni di quel che possono fare nel campo degli affari umani, finché il pubblico si aspetterà di più ci sarà sempre qualcuno che fingerà, e forse onestamente crederà, di poter fare di più per rispondere alle esigenze popolari di quanto sia realmente in suo potere. È spesso abbastanza difficile per l'esperto, e certamente in molti casi impossibile per il profano, distinguere fra pretese legittime ed illegittime avanzate nel nome della scienza. L'enorme pubblicità recentemente fatta dai media ad un rapporto che si pronuncia in nome della scienza su I limiti alla crescita ed il silenzio degli stessi media sulla critica devastante che questo rapporto ha ricevuto dagli esperti competenti, [6] deve renderci in qualche modo prudenti circa l'uso che può esser fatto del prestigio della scienza. Ma non è affatto soltanto nel campo dell'economia che sono stati lanciati proclami esagerati a nome di una direzione più scientifica di tutte le attività umane e dell'opportunità di sostituire dei processi spontanei con il “controllo umano cosciente.” Se non mi sbaglio, la psicologia, la psichiatria ed alcuni rami della sociologia, per non parlare della cosiddetta filosofia della storia, sono ancor più influenzate da quello che ho chiamato il pregiudizio scientistico e dai proclami speciosi di ciò che la scienza può realizzare. [7]

Se dobbiamo salvaguardare la reputazione della scienza ed impedire l'arrogarsi di conoscenza basata su una somiglianza superficiale della procedura con quella delle scienze fisiche, un grande sforzo dovrà essere orientato verso la confutazione di tali pretese, alcune delle quali sono ormai diventate interessi acquisiti di sezioni di università riconosciute. Non possiamo essere abbastanza riconoscenti a moderni filosofi della scienza come sir Karl Popper per darci un test con cui possiamo distinguere fra cosa possiamo accettare come scientifico e cosa no – un test che sono sicuro alcune dottrine ora ampiamente accettate come scientifiche non passerebbero. Ci sono alcuni particolari problemi, tuttavia, in relazione a quei fenomeni essenzialmente complessi di cui le strutture sociali sono un caso così importante, che mi fanno desiderare di riaffermare in conclusione in termini più generali le ragioni per le quali in questi campi non soltanto ci sono solo ostacoli assoluti per la previsione di eventi specifici, ma perché comportarsi come se possedessimo la conoscenza scientifica che ci permetterebbe di oltrepassarli può in sé diventare un serio ostacolo al progresso dell'intelletto umano.

Il punto principale che dobbiamo ricordare è che il grande e rapido progresso delle scienze fisiche è avvenuto in campi in cui ha dimostrato che la spiegazione e la previsione possono basarsi su leggi che spiegano i fenomeni osservati come funzioni di comparativamente poche variabili – sia fatti particolari che frequenze relative degli eventi. Questa può persino essere l'ultima ragione per la quale scegliamo questi regni come “fisici” in contrasto con quelle strutture più altamente organizzate che qui ho denominato fenomeni essenzialmente complessi. Non c'è ragione per la quale la posizione deve essere la stessa in questi ultimi come nei primi campi. Le difficoltà che incontriamo negli ultimi non sono, come uno potrebbe inizialmente sospettare, difficoltà di formulare teorie per la spiegazione degli eventi osservati – anche se questi causano anche speciali difficoltà nel verificare le spiegazioni proposte e quindi nell'eliminazione delle teorie difettose. Sono dovuto al problema principale che si presenta quando applichiamo le nostre teorie a qualsiasi situazione particolare nel mondo reale.

Una teoria dei fenomeni essenzialmente complessi deve riferirsi ad un largo numero di fatti particolari; e per derivarne una previsione, o per verificarla, dobbiamo accertare tutti questi fatti particolari. Una volta che riuscissimo a far questo non ci dovrebbero essere particolari difficoltà per derivare delle previsioni verificabili – per mezzo dei calcolatori moderni dovrebbe essere abbastanza facile inserire questi dati negli appropriati spazi vuoti delle formule teoriche e derivarne una previsione. La difficoltà reale, alla soluzione di cui la scienza ha poco da contribuire, e che talvolta è effettivamente insolubile, consiste nella constatazione dei fatti particolari.

Un semplice esempio mostrerà la natura di questa difficoltà. Considerate un certo gioco di pallone giocato da poche persone di abilità approssimativamente uguale. Se conoscessimo alcuni fatti particolari oltre alla nostra generale conoscenza dell'abilità di diversi giocatori, come la loro condizione di attenzione, le loro percezioni e la condizione dei loro cuori, polmoni, muscoli, ecc. ad ogni momento del gioco, potremmo probabilmente predire il risultato. Effettivamente, se fossimo familiari sia con il gioco che con le squadre dovremmo probabilmente avere un'idea ragionevolmente sagace su cosa dipenderà il risultato. Ma naturalmente non potremo accertare quei fatti e di conseguenza il risultato del gioco sarà fuori della gamma scientifica del prevedibile, per quanto bene possiamo sapere che effetti avrebbero sul risultato del gioco gli eventi particolari. Ciò non significa che non possiamo fare alcuna previsione sul corso di un simile gioco. Se conosciamo le regole dei giochi differenti potremmo molto presto sapere, guardandone uno, quale gioco si sta giocando e che tipo di azioni possiamo prevedere e che tipo no. Ma la nostra capacità di predire sarà limitata a tali caratteristiche generali degli eventi da prevedere e non comprende la capacità di predire singoli eventi particolari.

Questo corrisponde a ciò che ho denominato prima semplici previsioni strutturali a cui sempre più siamo limitati nel passare dal regno in cui leggi relativamente semplici prevalgono alla gamma dei fenomeni dove regna la complessità organizzata. Mentre avanziamo, troviamo sempre più frequentemente che possiamo in effetti accertare soltanto alcune ma non tutte le circostanze particolari che determinano il risultato di un processo dato; e di conseguenza possiamo predire soltanto qualcuna ma non tutte le proprietà del risultato che dobbiamo prevedere. Spesso tutto ciò che potremo predire sarà qualche caratteristica astratta della struttura che apparirà – rapporti fra generi di elementi di cui conosciamo singolarmente pochissimo. Tuttavia, poiché sono ansioso di ripetermi, potremo ancora realizzare previsioni che possono essere falsificate e che quindi sono di importanza empirica.

Naturalmente, rispetto alle previsioni precise che abbiamo imparato ad aspettarci nelle scienze fisiche, questo tipo di semplici previsioni strutturali è una seconda scelta di cui non è piacevole accontentarsi. Tuttavia il pericolo di cui voglio avvertire è precisamente la credenza che per avere un'affermazione da accettare come scientifica è necessario realizzare di più. Questo è ciarlatanismo o peggio. Agire sulla convinzione di avere la conoscenza ed il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, è probabile che ci porti ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni alla ricerca di fare l'impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso perché i suoi esperimenti possono dopo tutto produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata che esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli è probabile conduca ad un nuovo potere di costringere altri uomini una volta ottenuta una certa autorità. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d'ordine spontaneo da cui, senza capirle, l'uomo è in effetti così grandemente aiutato nell'inseguimento dei suoi obiettivi. Stiamo soltanto cominciando a capire quanto sottile sia il sistema di comunicazione su cui è basato il funzionamento di una società industriale avanzata – un sistema di comunicazione che chiamiamo mercato e che risulta essere un meccanismo più efficiente per elaborare l'informazione dispersa di qualsiasi deliberatamente progettato dall'uomo.

Se l'uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l'ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permetterebbe la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l'artigiano modella i suoi oggetti, ma piuttosto per coltivare una crescita fornendo l'ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C'è un pericolo nell'esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l'uomo a provare, “ubriaco di successo,” per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a soggiogare non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano al controllo della volontà umana. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve effettivamente insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà che dovrebbe impedirgli di diventare stare un complice nel fatale tentativo degli uomini di controllare la società – un tentativo che lo rende non solo un tiranno dei suoi compagni, ma che può renderlo il distruttore di una civiltà che nessun cervello ha progettato ma che è nata dagli sforzi liberi di milioni di individui.

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Note


[1] “Scientism and the Study of Society,” Economica, vol. IX, no. 35, Agosto 1942, ristampato in The Counter-Revolution of Science, Glencoe, Ill., 1952, p. 15 di questo ristampa.

[2] Warren Weaver, "A Quarter Century in the Natural Sciences," The Rockefeller Foundation Annual Report 1958, capitolo I, “Science and Complexity.”

[3] Vedi il mio saggio “The Theory of Complex Phenomena” in The Critical Approach to Science and Philosophy: Essays in Honor of K.R. Popper, ed. M. Bunge, New York 1964, e ristampato (con le aggiunte) nel mio Studies in Philosophy, Politics and Economics, London and Chicago 1967.

[4] V. Pareto, Manuel d'économie politique, 2nd. ed., Paris 1927, pp. 223–4.

[5] Vedi, per esempio, Luis Molina, De iustitia et iure, Cologne 1596–1600, tom. II, disp. 347, no. 3, e specialmente Johannes de Lugo, Disputationum de iustitia et iure tomus secundus, Lyon 1642, disp. 26, sect. 4, no. 40.

[6] Vedi The Limits to Growth: A Report of the Club of Rome's Project on the Predicament of Mankind, New York 1972; per un esame sistematico di questo da un economista competente, cf. Wilfred Beckerman, In Defence of Economic Growth, London 1974, e, per una lista delle prime critiche degli esperti, Gottfried Haberler, Economic Growth and Stability, Los Angeles 1974, che chiama giustamente il loro effetto “devastante.”

[7] Ho dato alcune illustrazioni di queste tendenze in altri campi nella mia conferenza inaugurale come professore in visita all'università di Salisburgo, Die Irrtümer des Konstruktivismus und die Grundlagen legitimer Kritik gesellschaftlicher Gebilde, Munich 1970, ora ristampata per il Walter Eucken Institute, a Freiburg i.Brg. by J.C.B. Mohr, Tübingen 1975.

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