Al Mises Institute Supporter's Summit 2006, “Imperialism: Enemy of Freedom,” Hans-Hermann Hoppe è stato premiato con il Schlarbaum Award for Lifetime Achievement in the Study of Liberty. Questo articolo è stralciato dal discorso di accettazione del professor Hoppe, "The Origin and Nature of International Conflict," disponibile in audio MP3 su Mises Media.
Una lucida e spietata analisi della stretta correlazione tra democrazia e guerra totale, con critica finale alla dottrina neocon della “pace duratura da raggiungere con la guerra perpetua.” (Scarica il pdf.)
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Di Hans-Hermann Hoppe
Lo Stato
Convenzionalmente, lo stato è definito come un'agenzia con due caratteristiche uniche. In primo luogo, è un monopolista territoriale obbligatorio di ultima risoluzione (giurisdizione). Cioè è l'arbiter ultimo in ogni caso di conflitto, compresi i conflitti che lo coinvolgono. In secondo luogo, lo stato è un monopolista territoriale della tassazione. Cioè è un'agenzia che fissa unilateralmente il prezzo che i cittadini devono pagare per la sua provvigione di legge ed ordine.
Prevedibilmente, se ci si può appellare soltanto allo stato per la giustizia, la giustizia sarà pervertita in favore dello stato. Anziché risolvere i conflitti, un monopolista di ultima risoluzione li provocherà per trarne vantaggio. Peggio ancora, mentre la qualità della giustizia rientrerà negli auspici monopolistici, il suo prezzo aumenterà. Motivati come chiunque altro dall'interesse personale ma dotati del potere di tassare, l'obiettivo degli agenti di stato è sempre lo stesso: massimizzare le entrate e minimizzare lo sforzo produttivo.
Lo Stato, la guerra e l'imperialismo
Invece di concentrarmi sulle conseguenze interne dell'istituzione di uno stato, tuttavia, metterò a fuoco sulle sue conseguenze esterne, in altre parole sulla politica estera piuttosto che su quella interna.
Per cominciare, come agenzia che perverte la giustizia ed impone le tasse, ogni stato è minacciato dalla “fuga.” In particolare i suoi cittadini più produttivi possono fuggire per evitare le tasse e le perversioni della legge. Nessuno stato lo gradisce. Al contrario, piuttosto di vedere la base di imposta ed il controllo restringersi, gli agenti dello stato preferiscono espanderli. Ma questo li porta in conflitto con altri stati. Diversamente dalla concorrenza fra le persone e le istituzioni “naturali,” tuttavia, la concorrenza tra stati è eliminativa. Che significa che ci può essere soltanto un monopolista di ultima risoluzione e tassazione in una data zona. Di conseguenza, la concorrenza fra stati diversi promuove una tendenza verso la centralizzazione politica ed infine un singolo stato mondiale.
Ancora, come monopolisti di ultima risoluzione finanziati dalle tasse, gli stati sono istituzioni inerentemente aggressive. Mentre le persone e le istituzioni “naturali” devono sopportare in prima persona il costo di un comportamento aggressivo (cosa che può facilmente indurle ad astenersi da tale comportamento), gli stati possono esternalizzare questo costo sui loro contribuenti. Quindi, gli agenti dello stato sono inclini a diventare provocatori ed aggressori ed il processo di centralizzazione si può prevedere che proceda per mezzo di scontri violenti, ovvero le guerre tra stati.
Inoltre, dato che gli stati devono nascere piccoli e presupponendo come punto di partenza un mondo composto di un gran numero di unità territoriali indipendenti, possiamo affermare qualcosa di piuttosto specifico circa il requisito per il successo. La vittoria o la sconfitta nella guerra tra stati dipende da molti fattori, naturalmente, ma data una stessa misura in altre cose quale la dimensione della popolazione, a lungo termine il fattore decisivo è la relativa quantità di risorse economiche a disposizione dello stato. Tassando e regolando, gli stati non contribuiscono alla creazione di ricchezza economica. Al contrario, essi drenano parassiticamente la ricchezza esistente. In effetti, i governi degli stati possono influenzare negativamente la quantità di ricchezza attuale. Quando altri fattori sono uguali, minore è il peso della regolazione e delle tasse imposto all'economia interna, più la popolazione tenderà ad aumentare e maggiore sarà la quantità di ricchezza prodotta sul piano nazionale da cui lo stato può attingere nei suoi conflitti con i competitori vicini. Cioè gli stati che tassano e regolano le loro economie comparativamente di meno – gli stati liberali – tendono a sconfiggere quelli meno liberali e ad espandere i loro territori o il loro raggio di controllo egemonico a discapito di questi ultimi.
Ciò spiega, per esempio, perché l'Europa occidentale è riuscita a dominare il resto del mondo piuttosto che il contrario. Più specificamente, spiega perché sono stati prima gli olandesi, poi i Britannici e per concludere, nel ventesimo secolo, gli Stati Uniti, a trasformarsi nella potenza imperiale dominante e perchè gli Stati Uniti, internamente uno degli stati più liberali, ha condotto la politica estera più aggressiva, mentre l'ex Unione Sovietica, per esempio, con le sue politiche interne interamente illiberali (repressive) praticò una politica estera comparativamente più pacifica e prudente. Gli Stati Uniti sapevano che potevano battere militarmente qualsiasi altro stato; quindi, erano aggressivi. In opposizione, l'Unione Sovietica sapeva di essere destinata a perdere un confronto militare con qualunque stato di dimensioni notevoli a meno di riuscire a vincere in pochi giorni o settimane.
Dalla monarchia e le guerre di eserciti alla democrazia e le guerre totali
Storicamente, la maggior parte degli stati sono state monarchie, guidate da re o da principi assoluti o costituzionali. È interessante chiedersi il perché, ma qui devo lasciare questo problema da parte. Basti dire che gli stati democratici (comprese le cosiddette monarchie parlamentari), guidati da presidenti o da primi ministri, erano rari fino alla rivoluzione francese ed hanno assunto importanza storica solo dopo la prima guerra mondiale.
Mentre da tutti gli stati ci si deve attendere che abbiano inclinazioni aggressive, la struttura incentiva affrontata dai re tradizionali da una parte e dai presidenti moderni d'altra differisce abbastanza da essere responsabile di diverse tipologie di guerra. Mentre i re si consideravano come privati proprietari del territorio sotto il loro controllo, i presidenti si considerano come custodi provvisori. Il proprietario di una risorsa si preoccupa che il reddito corrente derivi dalla risorsa e dal valore capitale compreso in essa (come riflessione di un previsto reddito futuro). I suoi interessi sono di lunga durata, con una preoccupazione per la conservazione e l'aumento dei valori capitali compresi nel “suo” paese. In opposizione, il custode di una risorsa (vista come pubblica piuttosto che come proprietà privata) è interessato soprattutto al suo reddito corrente e presta poca o nessuna attenzione ai valori capitali.
Il risultato empirico di questa diversa struttura incentiva è che le guerre monarchiche tendevano ad essere “moderate” e “conservatrici” rispetto alla guerra democratica.
Le guerre monarchiche sorgevano tipicamente da dispute di eredità provocate da una rete complessa di unioni inter-dinastiche. Erano caratterizzate da obiettivi territoriali definiti. Non erano scontri ideologicamente motivati. Il pubblico considerava la guerra un affare privato del re, finanziato ed eseguito con i suoi soldi e le sue forze militari. Inoltre, trattandosi di conflitti fra differenti famiglie governanti, i re si sentivano obbligati a riconoscere una chiara distinzione fra combattenti e non combattenti e ad indirizzare i loro sforzi di guerra esclusivamente uno contro l'altro e verso le loro proprietà di famiglia. Come lo storico militare Michael Howard notava sulle guerre monarchiche del diciottesimo secolo:
Nell'offuscamento della distinzione fra i governanti ed i governati (“tutti ci governiamo da soli”), la democrazia ha rinforzato l'identificazione del pubblico con un particolare stato. Invece di essere dispute dinastiche di proprietà che potrebbero essere risolte con la conquista e l'occupazione, le guerre democratiche si sono trasformate in in battaglie ideologiche: scontri di civiltà, che possono risolversi soltanto con la dominazione, la sottomissione e, se necessario, lo sterminio culturale, linguistico, o religioso. È diventato sempre più difficile per i membri del pubblico estromettersi dalla partecipazione personale alla guerra. La resistenza contro imposte più elevate per costituire un fondo bellico è considerata tradimento. Poiché gli stati democratici, diversamente da una monarchia, “sono posseduti” da tutti, la coscrizione è diventata la regola piuttosto che l'eccezione. E con enormi eserciti di coscritti a buon mercato e quindi facilmente disponibili che combattono per obiettivi ed ideali nazionali, sostenuti dalle risorse economiche di un'intera nazione, tutte le distinzioni fra combattenti e non combattenti sono cadute. I danni collaterali non sono più un effetto secondario non intenzionale ma si sono trasformati in in una parte integrante della guerra. "Una volta che lo stato ha cessato di esser visto come ‘proprietà’ di principi dinastici," notava Michael Howard,
Excursus: la dottrina della pace democratica
Ho spiegato come l'istituzione di uno stato conduce alla guerra; perché, in modo apparentemente paradossale, stati internamente liberali tendano ad essere potenze imperialiste; e come lo spirito della democrazia ha contribuito alla de-civilizzazione nella condotta di guerra.
Più specificatamente, ho spiegato l'ascesa degli Stati Uniti al rango di prima potenza imperiale del mondo; e, come conseguenza della sua successiva trasformazione dall'iniziale repubblica aristocratica in una democrazia di massa senza limiti che cominciò con la guerra di indipendenza del sud, il ruolo degli Stati Uniti come guerrafondaio sempre più arrogante, moralista e zelante.
Ciò che sembra ostacolare la pace e la civiltà è, quindi, soprattutto lo stato e la democrazia, e specificatamente la democrazia modello del mondo: gli Stati Uniti. Ironicamente se non sorprendentemente, tuttavia, sono precisamente gli Stati Uniti, a sostenere di essere la soluzione alla ricerca della pace.
Il motivo per questa asserzione è la dottrina della pace democratica, che risale ai giorni di Woodrow Wilson e della prima guerra mondiale, è stata fatta rivivere negli ultimi anni da George W. Bush e dai suoi consiglieri neo-conservatori ed è ormai diventata folclore intellettuale anche nei circoli liberal-libertari. La teoria afferma:
Primo: Le democrazie non si fanno la guerra? Poiché quasi nessuna democrazia è esistita prima del ventesimo secolo la risposta si presume dev'essere cercata negli ultimi cento anni circa. Infatti, il grosso della prova offerta per la tesi è l'osservazione che i paesi dell'Europa occidentale non si sono combattuti nell'era dopo la Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, nella regione del Pacifico, il Giappone e la Corea del sud non si sono combattuti durante lo stesso periodo. Questa evidenza dimostra il caso? I teorici della pace democratica pensano di sì. Come “scienziati” sono interessati nelle prove “statistiche” e come la vedono loro c'è abbondanza di “casi” sui quali costruire tale prova: la Germania non ha fatto la guerra contro la Francia, l'Italia, l'Inghilterra, ecc.; la Francia non ha fatto la guerra contro la Spagna, l'Italia, il Belgio, ecc… Inoltre, ci sono permutazioni: la Germania non ha attaccato la Francia, né la Francia ha attaccato la Germania, ecc… Quindi abbiamo apparentemente dozzine di conferme – e questo per circa 60 anni – e non un singolo contro-esempio. Ma davvero abbiamo tanti casi di conferma?
La risposta è no: non abbiamo realmente nient'altro che un singolo caso a disposizione. Con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, essenzialmente tutta – ormai: democratica – l'Europa occidentale (ed il Giappone democratico e la Corea del sud nella regione del Pacifico) è diventata parte dell'impero degli Stati Uniti, come indicato dalla presenza delle truppe degli Stati Uniti in praticamente tutti questi paesi. Quello che il periodo di pace dopo la Seconda Guerra Mondiale allora “dimostra” non è che le democrazie non si fanno la guerra ma che una potenza egemonica e imperialista quale gli Stati Uniti non ha permesso che le sue varie parti coloniali si combattessero tra loro (e, naturalmente, che l'egemone stesso non ha avuto alcuna necessità di andare a combattere contro i suoi satelliti – perché hanno obbedito - ed essi non hanno avuto bisogno o non hanno osato disobbedire al loro padrone).
Inoltre, se la questione è così percepita – basata su una comprensione della storia piuttosto che sulla credenza naïf che poiché un'entità ha un nome diverso da un altro il loro comportamento deve essere indipendente l'uno dall'altro – diventa evidente che la prova presentata non ha niente a che fare con la democrazia e tutto con l'egemonia. Per esempio, nessuna guerra è scoppiata fra la conclusione della Seconda Guerra Mondiale e la conclusione degli anni '80, cioè durante il regno egemonico dell'Unione Sovietica, fra la Germania Orientale, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Romania, la Bulgaria, la Lituania, l'Estonia, l'Ungheria, ecc. Questo perché erano dittature comuniste e le dittature comuniste non si combattono tra loro? Questa dovrebbe essere la conclusione degli “scienziati” del calibro dei teorici della pace democratica! Ma certamente questa conclusione è errata. Non è scoppiata nessuna guerra perché l'Unione Sovietica non ha permesso che accadesse – proprio come non è scoppiata nessuna guerra fra le democrazie occidentali perché gli Stati Uniti non hanno permesso che accadesse nel suo dominio. Per essere sicura, l'Unione Sovietica è intervenuta in Ungheria ed in Cecoslovacchia, ma così hanno fatto gli Stati Uniti in varie occasioni in Centro-America come in Guatemala, ad esempio. (Per inciso: e le guerre fra Israele e la Palestina e il Libano? Non sono queste tutte democrazie? O i paesi arabi sono per definizione non-democratici?)
Secondo: Che dire sulla democrazia come soluzione a qualsiasi cosa, e tanto meno la pace? Qui il caso dei teorici della pace democratica sembra ancora peggiore. Effettivamente, la mancanza di comprensione storica da loro mostrata è davvero spaventosa. Ecco soltanto alcune imperfezioni fondamentali:
Primo, la teoria presuppone una convergenza concettuale di democrazia e libertà che si può soltanto definire scandalosa, in particolar modo quando proviene da sedicenti libertari. Il fondamento e la pietra angolare della libertà è l'istituzione della proprietà privata; e la proprietà privata – esclusiva – è logicamente incompatibile con la democrazia – legge della maggioranza. La democrazia non ha niente a che fare con la libertà. La democrazia è una variante morbida del comunismo e nella storia delle idee raramente è stata presa per qualcos'altro. Per inciso, prima dello scoppio dell'era democratica, cioè fino all'inizio del ventesimo secolo, la tassa di spesa (unendo tutti i livelli del governo) del governo (stato) nei paesi dell'Europa occidentale costituiva qualcosa fra il 7 ed il 15% del prodotto nazionale e nei giovani Stati Uniti ancora di meno. Meno di cento anni di dittatura della maggioranza hanno aumentato questa percentuale a circa il 50% in Europa e il 40% negli Stati Uniti.
Secondo, la teoria della pace democratica distingue essenzialmente soltanto fra democrazia e non-democrazia, sommariamente identificata con la dittatura. Così non solo spariscono tutti i regimi aristocratico-repubblicani dalla vista, ma più importante per i miei scopi del momento, anche tutte le monarchie tradizionali. Sono equiparate con le dittature à la Lenin, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao. In realtà, tuttavia, le monarchie tradizionali hanno poco in comune con le dittature (mentre democrazia e dittatura sono intimamente legate).
Le monarchie sono la conseguenza semi-organica di ordini sociali naturali – senza stato – gerarchicamente strutturati. I re sono i capi di famiglie estese, di clan, tribù, e nazioni. A loro fa capo una gran quantità di autorità naturale e volontariamente riconosciuta, ereditata ed accumulata in molte generazioni. È nel quadro di tali ordini (e delle repubbliche aristocratiche) che il liberalismo si è sviluppato ed ha fiorito in primo luogo. In contrasto, le democrazie sono di stampo egalitario e redistribuzionista; da cui lo sviluppo sopra menzionato del potere dello stato nel ventesimo secolo. Tipicamente, la transizione dall'era monarchica a quella democratica, cominciata nella seconda metà del diciannovesimo secolo, ha visto un declino continuo nella resistenza dei partiti liberali ed un rinforzo corrispondente dei socialisti di ogni tipo.
Terzo, ne consegue che l'opinione che i teorici della pace democratica hanno delle conflagrazioni come la Prima Guerra Mondiale dev'essere considerata grottesca, almeno dal punto di vista di qualcuno che si presume stimi la libertà. Per loro, questa guerra era essenzialmente una guerra della democrazia contro la dittatura; quindi, poiché aumentò il numero delle democrazie, fu una guerra progressiva, pacificatrice, e quindi giustificata.
In realtà, la questione è molto diversa. Certamente, la Germania e l'Austria prebelliche potevano non qualificarsi al tempo democratiche quanto l'Inghilterra, la Francia, o gli Stati Uniti. Ma la Germania e l'Austria definitivamente non erano dittature. Erano monarchie (sempre più fiacche) e come tali indiscutibilmente liberali come – se non di più – delle loro controparti. Per esempio, negli Stati Uniti, i pacifisti furono imprigionati, la lingua tedesca essenzialmente messa fuorilegge, ed i cittadini di discendenza tedesca aggrediti apertamente e spesso costretti a cambiare i loro nomi. Niente di paragonabile accadde in Austria ed in Germania.
In ogni caso, tuttavia, il risultato della crociata per rendere il mondo sicuro per la democrazia fu meno liberale di ciò che era esistito prima (ed il trattato di pace di Versailles lo fece precipitare nella Seconda Guerra Mondiale). Non solo il potere dello stato si sviluppò più velocemente dopo la guerra rispetto a prima. In particolare, il trattamento delle minoranze si è deteriorato nel periodo democratizzato del dopoguerra. Nella Cecoslovacchia recentemente fondata, per esempio, i tedeschi vennero maltrattati sistematicamente (fino ad essere espulsi a milioni e macellati a decine di migliaia dopo la Seconda Guerra Mondiale) dalla maggioranza di Cechi. Niente di nemmeno lontanamente paragonabile era accaduto ai Cechi durante il precedente regno degli Asburgo. La situazione per quanto riguarda i rapporti fra i tedeschi e gli slavi del sud nell'Austria prebellica rispetto alla Yugoslavia del dopoguerra fu simile.
Né si trattò di un caso. Come sotto la monarchia asburgica in Austria, per esempio, le minoranze erano state trattate ragionevolmente bene anche sotto gli ottomani. Tuttavia, quando l'impero ottomano multi-culturale si disintegrò nel corso del diciannovesimo secolo e fu sostituito da stati-nazione semi-democratici quali la Grecia, la Bulgaria, ecc., i musulmani ottomani presenti vennero espulsi o sterminati. Similmente, dopo che la democrazia ebbe trionfato negli Stati Uniti con la conquista militare della Confederazione del Sud, il governo dell'Unione procedette rapidamente allo sterminio degli indiani dei Plains. Come Mises aveva riconosciuto, la democrazia non funziona nelle società multi-etniche. Non genera la pace ma promuove il conflitto ed ha tende potenzialmente al genocidio.
Quarto e intimamente correlato, i teorici della pace democratica sostengono che la democrazia rappresenti un “equilibrio stabile.” Questo è stato espresso chiaramente da Francis Fukuyama, che ha identificato il nuovo ordine democratico del mondo come la “fine della storia.” Tuttavia, esiste una prova schiacciante che questa pretesa è palesemente errata.
Su un piano teorico: come può la democrazia essere un equilibrio stabile se è possibile che si trasformi democraticamente in una dittatura, e quindi in un sistema considerato non stabile? Risposta: non ha senso!
Inoltre, empiricamente, le democrazie sono tutto meno che stabili. Come indicato, in società multi-culturali la democrazia conduce regolarmente alla discriminazione, all'oppressione, o persino all'espulsione e lo sterminio delle minoranze – difficilmente un pacifico equilibrio. E nelle società etnicamente omogenee, la democrazia conduce regolarmente alla lotta di classe, che conduce alla crisi economica, che conduce alla dittatura. Pensate, ad esempio, alla Russia post-zarista, all'Italia dopo la Prima Guerra Mondiale, alla Germania di Weimar, alla Spagna, al Portogallo e in periodi più recenti Grecia, Turchia, Guatemala, Argentina, Cile e Pakistan.
Non solo questa correlazione fra la democrazia e la dittatura è seccante per i teorici della pace democratica; peggio ancora, devono cimentarsi con il fatto che le dittature che emergono dalle crisi della democrazia non sono affatto sempre peggiori, da un punto di vista liberale classico o libertario, di ciò che sarebbe risultato diversamente. I casi dove le dittature furono preferibili ed un miglioramento possono essere citati facilmente. Pensate all'Italia e a Mussolini o alla Spagna e a Franco. In più, come si può far quadrare per gli stralunati difensori della democrazia il fatto che i dittatori, piuttosto diversamente dai re che devono il loro grado ad un incidente di nascita, sono spesso favoriti delle masse ed in questo senso altamente democratici? Pensate soltanto a Lenin o a Stalin, che erano certamente più democratici dello zar Nicola II; o pensate a Hitler, che era definitivamente più democratico e “un uomo del popolo” del Kaiser Guglielmo II o del Kaiser Francesco Giuseppe.
Secondo i teorici della pace democratica, allora, sembrerebbe che si debba fare la guerra contro i dittatori stranieri, siano re o demagoghi, per installare le democrazie, che quindi si trasformano in dittature (moderne), fino a che, si suppone, gli Stati Uniti stessi non si saranno trasformati in una dittatura, a causa dello sviluppo del potere interno dello stato che deriva dalle infinite “emergenze” generate dalle guerre all'estero.
Meglio, oso dire, fare attenzione al consiglio di Erik von Kuehnelt-Leddihn e, invece di mirare a rendere il mondo sicuro per la democrazia, provare a renderlo sicuro dalla democrazia – dappertutto, ma soprattutto negli Stati Uniti.
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Hans-Hermann Hoppe è professore di economia all'Università del Nevada a Las Vegas. È autore di The Economics and Ethics of Private Property. Mandagli una mail. Leggi i suoi articoli. Commenta sul blog.
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Una lucida e spietata analisi della stretta correlazione tra democrazia e guerra totale, con critica finale alla dottrina neocon della “pace duratura da raggiungere con la guerra perpetua.” (Scarica il pdf.)
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Di Hans-Hermann Hoppe
Lo Stato
Convenzionalmente, lo stato è definito come un'agenzia con due caratteristiche uniche. In primo luogo, è un monopolista territoriale obbligatorio di ultima risoluzione (giurisdizione). Cioè è l'arbiter ultimo in ogni caso di conflitto, compresi i conflitti che lo coinvolgono. In secondo luogo, lo stato è un monopolista territoriale della tassazione. Cioè è un'agenzia che fissa unilateralmente il prezzo che i cittadini devono pagare per la sua provvigione di legge ed ordine.
Prevedibilmente, se ci si può appellare soltanto allo stato per la giustizia, la giustizia sarà pervertita in favore dello stato. Anziché risolvere i conflitti, un monopolista di ultima risoluzione li provocherà per trarne vantaggio. Peggio ancora, mentre la qualità della giustizia rientrerà negli auspici monopolistici, il suo prezzo aumenterà. Motivati come chiunque altro dall'interesse personale ma dotati del potere di tassare, l'obiettivo degli agenti di stato è sempre lo stesso: massimizzare le entrate e minimizzare lo sforzo produttivo.
Lo Stato, la guerra e l'imperialismo
Invece di concentrarmi sulle conseguenze interne dell'istituzione di uno stato, tuttavia, metterò a fuoco sulle sue conseguenze esterne, in altre parole sulla politica estera piuttosto che su quella interna.
Per cominciare, come agenzia che perverte la giustizia ed impone le tasse, ogni stato è minacciato dalla “fuga.” In particolare i suoi cittadini più produttivi possono fuggire per evitare le tasse e le perversioni della legge. Nessuno stato lo gradisce. Al contrario, piuttosto di vedere la base di imposta ed il controllo restringersi, gli agenti dello stato preferiscono espanderli. Ma questo li porta in conflitto con altri stati. Diversamente dalla concorrenza fra le persone e le istituzioni “naturali,” tuttavia, la concorrenza tra stati è eliminativa. Che significa che ci può essere soltanto un monopolista di ultima risoluzione e tassazione in una data zona. Di conseguenza, la concorrenza fra stati diversi promuove una tendenza verso la centralizzazione politica ed infine un singolo stato mondiale.
Ancora, come monopolisti di ultima risoluzione finanziati dalle tasse, gli stati sono istituzioni inerentemente aggressive. Mentre le persone e le istituzioni “naturali” devono sopportare in prima persona il costo di un comportamento aggressivo (cosa che può facilmente indurle ad astenersi da tale comportamento), gli stati possono esternalizzare questo costo sui loro contribuenti. Quindi, gli agenti dello stato sono inclini a diventare provocatori ed aggressori ed il processo di centralizzazione si può prevedere che proceda per mezzo di scontri violenti, ovvero le guerre tra stati.
Inoltre, dato che gli stati devono nascere piccoli e presupponendo come punto di partenza un mondo composto di un gran numero di unità territoriali indipendenti, possiamo affermare qualcosa di piuttosto specifico circa il requisito per il successo. La vittoria o la sconfitta nella guerra tra stati dipende da molti fattori, naturalmente, ma data una stessa misura in altre cose quale la dimensione della popolazione, a lungo termine il fattore decisivo è la relativa quantità di risorse economiche a disposizione dello stato. Tassando e regolando, gli stati non contribuiscono alla creazione di ricchezza economica. Al contrario, essi drenano parassiticamente la ricchezza esistente. In effetti, i governi degli stati possono influenzare negativamente la quantità di ricchezza attuale. Quando altri fattori sono uguali, minore è il peso della regolazione e delle tasse imposto all'economia interna, più la popolazione tenderà ad aumentare e maggiore sarà la quantità di ricchezza prodotta sul piano nazionale da cui lo stato può attingere nei suoi conflitti con i competitori vicini. Cioè gli stati che tassano e regolano le loro economie comparativamente di meno – gli stati liberali – tendono a sconfiggere quelli meno liberali e ad espandere i loro territori o il loro raggio di controllo egemonico a discapito di questi ultimi.
Ciò spiega, per esempio, perché l'Europa occidentale è riuscita a dominare il resto del mondo piuttosto che il contrario. Più specificamente, spiega perché sono stati prima gli olandesi, poi i Britannici e per concludere, nel ventesimo secolo, gli Stati Uniti, a trasformarsi nella potenza imperiale dominante e perchè gli Stati Uniti, internamente uno degli stati più liberali, ha condotto la politica estera più aggressiva, mentre l'ex Unione Sovietica, per esempio, con le sue politiche interne interamente illiberali (repressive) praticò una politica estera comparativamente più pacifica e prudente. Gli Stati Uniti sapevano che potevano battere militarmente qualsiasi altro stato; quindi, erano aggressivi. In opposizione, l'Unione Sovietica sapeva di essere destinata a perdere un confronto militare con qualunque stato di dimensioni notevoli a meno di riuscire a vincere in pochi giorni o settimane.
Dalla monarchia e le guerre di eserciti alla democrazia e le guerre totali
Storicamente, la maggior parte degli stati sono state monarchie, guidate da re o da principi assoluti o costituzionali. È interessante chiedersi il perché, ma qui devo lasciare questo problema da parte. Basti dire che gli stati democratici (comprese le cosiddette monarchie parlamentari), guidati da presidenti o da primi ministri, erano rari fino alla rivoluzione francese ed hanno assunto importanza storica solo dopo la prima guerra mondiale.
Mentre da tutti gli stati ci si deve attendere che abbiano inclinazioni aggressive, la struttura incentiva affrontata dai re tradizionali da una parte e dai presidenti moderni d'altra differisce abbastanza da essere responsabile di diverse tipologie di guerra. Mentre i re si consideravano come privati proprietari del territorio sotto il loro controllo, i presidenti si considerano come custodi provvisori. Il proprietario di una risorsa si preoccupa che il reddito corrente derivi dalla risorsa e dal valore capitale compreso in essa (come riflessione di un previsto reddito futuro). I suoi interessi sono di lunga durata, con una preoccupazione per la conservazione e l'aumento dei valori capitali compresi nel “suo” paese. In opposizione, il custode di una risorsa (vista come pubblica piuttosto che come proprietà privata) è interessato soprattutto al suo reddito corrente e presta poca o nessuna attenzione ai valori capitali.
Il risultato empirico di questa diversa struttura incentiva è che le guerre monarchiche tendevano ad essere “moderate” e “conservatrici” rispetto alla guerra democratica.
Le guerre monarchiche sorgevano tipicamente da dispute di eredità provocate da una rete complessa di unioni inter-dinastiche. Erano caratterizzate da obiettivi territoriali definiti. Non erano scontri ideologicamente motivati. Il pubblico considerava la guerra un affare privato del re, finanziato ed eseguito con i suoi soldi e le sue forze militari. Inoltre, trattandosi di conflitti fra differenti famiglie governanti, i re si sentivano obbligati a riconoscere una chiara distinzione fra combattenti e non combattenti e ad indirizzare i loro sforzi di guerra esclusivamente uno contro l'altro e verso le loro proprietà di famiglia. Come lo storico militare Michael Howard notava sulle guerre monarchiche del diciottesimo secolo:
Sul continente [europeo], il commercio e gli interscambi culturali continuarono in tempo di guerra quasi indisturbati. Le guerre erano guerre del re. Il ruolo di buon cittadino era di pagare le sue tasse e la solida economia politica dettava che doveva essere lasciato in pace per guadagnare i soldi con cui pagare quelle tasse. Non era richiesto che partecipasse né alle decisioni da cui prendevano inizio le guerre né a parteciparvi una volta scoppiate, a meno che richiamato da uno spirito giovanile avventuroso. Queste materie erano arcane regni, preoccupazione del solo sovrano. [War in European History, 73]Similmente Ludwig von Mises osservava circa le guerre di eserciti:
Nelle guerre di eserciti, l'esercito combatte mentre i cittadini che non sono membri dell'esercito proseguono le loro vite normali. I cittadini pagano i costi della guerra; pagano la manutenzione e le attrezzature dell'esercito, ma in ogni caso rimangono fuori dagli eventi bellici. Può accadere che azioni di guerra radano al suolo le loro case, devastino la loro terra e distruggano le alte loro proprietà; ma anche questo fa parte dei costi di guerra che devono sopportare. Può anche accadere che siano saccheggiati ed incidentalmente siano uccisi dai guerrieri – anche da quelli del loro “proprio” esercito. Ma questi sono eventi non inerenti alla guerra come tale; ostacolano piuttosto che aiutare le operazioni dei comandanti dell'esercito e non sono tollerati se quelli al comando hanno il completo controllo sulle loro truppe. Lo stato in guerra che ha formato, equipaggiato e mantenuto l'esercito considera il saccheggio da parte dei soldati un'offesa; sono stati assunti per combattere, non per saccheggiare. Lo stato vuole mantenere la consuetudine della vita civile perché desidera conservare la capacità di pagare dei propri cittadini; i territori conquistati sono considerati come proprio dominio. Il sistema dell'economia di mercato deve essere mantenuto durante la guerra per servire i requisiti della di guerra. [Nationalökonomie, 725–26]Contrariamente alla guerra limitata dell'ancien regime, l'era della guerra democratica – che è cominciata con la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, continuata durante il diciannovesimo secolo con la guerra civile americana ed ha raggiunto il suo apice durante il ventesimo secolo con la prima e la seconda guerra mondiale – è stata l'era della guerra totale.
Nell'offuscamento della distinzione fra i governanti ed i governati (“tutti ci governiamo da soli”), la democrazia ha rinforzato l'identificazione del pubblico con un particolare stato. Invece di essere dispute dinastiche di proprietà che potrebbero essere risolte con la conquista e l'occupazione, le guerre democratiche si sono trasformate in in battaglie ideologiche: scontri di civiltà, che possono risolversi soltanto con la dominazione, la sottomissione e, se necessario, lo sterminio culturale, linguistico, o religioso. È diventato sempre più difficile per i membri del pubblico estromettersi dalla partecipazione personale alla guerra. La resistenza contro imposte più elevate per costituire un fondo bellico è considerata tradimento. Poiché gli stati democratici, diversamente da una monarchia, “sono posseduti” da tutti, la coscrizione è diventata la regola piuttosto che l'eccezione. E con enormi eserciti di coscritti a buon mercato e quindi facilmente disponibili che combattono per obiettivi ed ideali nazionali, sostenuti dalle risorse economiche di un'intera nazione, tutte le distinzioni fra combattenti e non combattenti sono cadute. I danni collaterali non sono più un effetto secondario non intenzionale ma si sono trasformati in in una parte integrante della guerra. "Una volta che lo stato ha cessato di esser visto come ‘proprietà’ di principi dinastici," notava Michael Howard,
ed è diventato invece lo strumento di potenti forze dedicate a concetti astratti come la Libertà, o la Nazionalità, o la Rivoluzione, che ha permesso ad una vasta parte della popolazione di vedere in quello stato l'incarnazione di un certo bene assoluto per il quale non c'era nessun prezzo troppo elevato, nessun sacrificio troppo grande da pagare; allora i ‘conflitti temperati e non decisivi’ dell'era del rococò sono apparsi come irragionevoli anacronismi. [ibid. 75-76]Osservazioni simili sono state fatte dallo storico militare e general-maggiore J.F.C. Fuller:
L'influenza dello spirito della nazionalità, che è della democrazia, sulla guerra è stata profonda, … [esso] ha emozionalizzato la guerra e l'ha, conseguentemente, brutalizzata; …. Gli eserciti nazionali combattono le nazioni, gli eserciti reali combattono i loro simili, i primi obbediscono ad un branco – sempre demente, i secondi ad un re, in genere sensato. … Tutto questo si è sviluppato dalla rivoluzione francese, che inoltre ha donato al mondo la leva – la guerra del branco e l'unione del branco con la finanza ed il commercio ha prodotto nuovi regni della guerra. Perché quando la nazione intera combatte, allora tutto il credito nazionale è disponibile per lo scopo della guerra. [War and Western Civilization, 26-27]E William A. Orton ha così ricapitolato la questione:
Le guerre del diciannovesimo secolo furono mantenute all'interno di limiti dalla tradizione, ben riconosciuta nel diritto internazionale, che la proprietà ed il commercio civili fossero fuori dalla sfera del combattimento. I beni civili non erano esposti a pignoramento arbitrario o a sequestro permanente e a parte condizioni territoriali e finanziarie che uno stato poteva imporre un altro, alla vita economica e culturale dei belligeranti generalmente si permetteva di continuare generalmente come al solito. La pratica del ventesimo secolo ha cambiato tutto questo. Durante entrambe le guerre mondiali liste illimitate di contrabbando accoppiate con dichiarazioni unilaterali di legge marittima misero ogni tipo di commercio in pericolo e fecero carta straccia di tutti i precedenti. La fine della prima guerra fu contrassegnata da uno sforzo risoluto e riuscito di impedire il miglioramento della situazione economica dei principali perdenti, e di mantenere determinate proprietà civili. La seconda guerra vide l'estensione di quella politica ad un punto in cui il diritto internazionale in guerra ha cessato di esistere. Per anni il governo della Germania, fin dove le proprie armi potevano arrivare, aveva basato una politica di confisca su una teoria razziale che non ha aveva posto nella legge civile, nel diritto internazionale, né nell'etica cristiana; e quando la guerra cominciò, quella violazione del comitato delle nazioni si dimostrò contagiosa. Il comando anglo-americano, sia nelle parole che nell'azione, lanciò una crociata che non ammetteva limiti né legali né territoriali all'esercizio della coercizione. Il concetto di neutralità venne infranto sia nella teoria che nella pratica. Non solo i beni e gli interessi nemici, ma i beni e gli interessi di qualunque parte, anche in paesi neutri, furono esposti ad ogni vincolo che le potenze belliche potevano mettere in atto; ed i beni e gli interessi degli stati neutrali, ed i loro civili, situati in territori in guerra o sotto controllo bellico, furono praticamente sottoposti alla stessa specie di coercizione di quelli delle nazioni nemiche. Così la “guerra totale” è diventata una specie di guerra a cui nessuna comunità civile potrebbe sperare di sfuggire; e le “nazioni amanti della pace” ne trarranno le ovvie deduzioni. [The Liberal Tradition: A Study of the Social and Spiritual Conditions of Freedom, 251–52]
Excursus: la dottrina della pace democratica
Ho spiegato come l'istituzione di uno stato conduce alla guerra; perché, in modo apparentemente paradossale, stati internamente liberali tendano ad essere potenze imperialiste; e come lo spirito della democrazia ha contribuito alla de-civilizzazione nella condotta di guerra.
Più specificatamente, ho spiegato l'ascesa degli Stati Uniti al rango di prima potenza imperiale del mondo; e, come conseguenza della sua successiva trasformazione dall'iniziale repubblica aristocratica in una democrazia di massa senza limiti che cominciò con la guerra di indipendenza del sud, il ruolo degli Stati Uniti come guerrafondaio sempre più arrogante, moralista e zelante.
Ciò che sembra ostacolare la pace e la civiltà è, quindi, soprattutto lo stato e la democrazia, e specificatamente la democrazia modello del mondo: gli Stati Uniti. Ironicamente se non sorprendentemente, tuttavia, sono precisamente gli Stati Uniti, a sostenere di essere la soluzione alla ricerca della pace.
Il motivo per questa asserzione è la dottrina della pace democratica, che risale ai giorni di Woodrow Wilson e della prima guerra mondiale, è stata fatta rivivere negli ultimi anni da George W. Bush e dai suoi consiglieri neo-conservatori ed è ormai diventata folclore intellettuale anche nei circoli liberal-libertari. La teoria afferma:
• Le democrazie non si fanno la guerra.E come corollario – in gran parte non specificato:
• Quindi, per creare una pace duratura, l'intero mondo deve essere reso democratico.
• Oggi, molti stati non sono democratici e resistono alla riforma – democratica – interna.Non ho la pazienza per una critica completa di questa teoria. Fornirò soltanto una breve critica delle sue premesse iniziali e della sua conclusione finale.
• Quindi, la guerra deve essere intrapresa con quegli stati per convertirli alla democrazia e creare così una pace duratura.
Primo: Le democrazie non si fanno la guerra? Poiché quasi nessuna democrazia è esistita prima del ventesimo secolo la risposta si presume dev'essere cercata negli ultimi cento anni circa. Infatti, il grosso della prova offerta per la tesi è l'osservazione che i paesi dell'Europa occidentale non si sono combattuti nell'era dopo la Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, nella regione del Pacifico, il Giappone e la Corea del sud non si sono combattuti durante lo stesso periodo. Questa evidenza dimostra il caso? I teorici della pace democratica pensano di sì. Come “scienziati” sono interessati nelle prove “statistiche” e come la vedono loro c'è abbondanza di “casi” sui quali costruire tale prova: la Germania non ha fatto la guerra contro la Francia, l'Italia, l'Inghilterra, ecc.; la Francia non ha fatto la guerra contro la Spagna, l'Italia, il Belgio, ecc… Inoltre, ci sono permutazioni: la Germania non ha attaccato la Francia, né la Francia ha attaccato la Germania, ecc… Quindi abbiamo apparentemente dozzine di conferme – e questo per circa 60 anni – e non un singolo contro-esempio. Ma davvero abbiamo tanti casi di conferma?
La risposta è no: non abbiamo realmente nient'altro che un singolo caso a disposizione. Con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, essenzialmente tutta – ormai: democratica – l'Europa occidentale (ed il Giappone democratico e la Corea del sud nella regione del Pacifico) è diventata parte dell'impero degli Stati Uniti, come indicato dalla presenza delle truppe degli Stati Uniti in praticamente tutti questi paesi. Quello che il periodo di pace dopo la Seconda Guerra Mondiale allora “dimostra” non è che le democrazie non si fanno la guerra ma che una potenza egemonica e imperialista quale gli Stati Uniti non ha permesso che le sue varie parti coloniali si combattessero tra loro (e, naturalmente, che l'egemone stesso non ha avuto alcuna necessità di andare a combattere contro i suoi satelliti – perché hanno obbedito - ed essi non hanno avuto bisogno o non hanno osato disobbedire al loro padrone).
Inoltre, se la questione è così percepita – basata su una comprensione della storia piuttosto che sulla credenza naïf che poiché un'entità ha un nome diverso da un altro il loro comportamento deve essere indipendente l'uno dall'altro – diventa evidente che la prova presentata non ha niente a che fare con la democrazia e tutto con l'egemonia. Per esempio, nessuna guerra è scoppiata fra la conclusione della Seconda Guerra Mondiale e la conclusione degli anni '80, cioè durante il regno egemonico dell'Unione Sovietica, fra la Germania Orientale, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Romania, la Bulgaria, la Lituania, l'Estonia, l'Ungheria, ecc. Questo perché erano dittature comuniste e le dittature comuniste non si combattono tra loro? Questa dovrebbe essere la conclusione degli “scienziati” del calibro dei teorici della pace democratica! Ma certamente questa conclusione è errata. Non è scoppiata nessuna guerra perché l'Unione Sovietica non ha permesso che accadesse – proprio come non è scoppiata nessuna guerra fra le democrazie occidentali perché gli Stati Uniti non hanno permesso che accadesse nel suo dominio. Per essere sicura, l'Unione Sovietica è intervenuta in Ungheria ed in Cecoslovacchia, ma così hanno fatto gli Stati Uniti in varie occasioni in Centro-America come in Guatemala, ad esempio. (Per inciso: e le guerre fra Israele e la Palestina e il Libano? Non sono queste tutte democrazie? O i paesi arabi sono per definizione non-democratici?)
Secondo: Che dire sulla democrazia come soluzione a qualsiasi cosa, e tanto meno la pace? Qui il caso dei teorici della pace democratica sembra ancora peggiore. Effettivamente, la mancanza di comprensione storica da loro mostrata è davvero spaventosa. Ecco soltanto alcune imperfezioni fondamentali:
Primo, la teoria presuppone una convergenza concettuale di democrazia e libertà che si può soltanto definire scandalosa, in particolar modo quando proviene da sedicenti libertari. Il fondamento e la pietra angolare della libertà è l'istituzione della proprietà privata; e la proprietà privata – esclusiva – è logicamente incompatibile con la democrazia – legge della maggioranza. La democrazia non ha niente a che fare con la libertà. La democrazia è una variante morbida del comunismo e nella storia delle idee raramente è stata presa per qualcos'altro. Per inciso, prima dello scoppio dell'era democratica, cioè fino all'inizio del ventesimo secolo, la tassa di spesa (unendo tutti i livelli del governo) del governo (stato) nei paesi dell'Europa occidentale costituiva qualcosa fra il 7 ed il 15% del prodotto nazionale e nei giovani Stati Uniti ancora di meno. Meno di cento anni di dittatura della maggioranza hanno aumentato questa percentuale a circa il 50% in Europa e il 40% negli Stati Uniti.
Secondo, la teoria della pace democratica distingue essenzialmente soltanto fra democrazia e non-democrazia, sommariamente identificata con la dittatura. Così non solo spariscono tutti i regimi aristocratico-repubblicani dalla vista, ma più importante per i miei scopi del momento, anche tutte le monarchie tradizionali. Sono equiparate con le dittature à la Lenin, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao. In realtà, tuttavia, le monarchie tradizionali hanno poco in comune con le dittature (mentre democrazia e dittatura sono intimamente legate).
Le monarchie sono la conseguenza semi-organica di ordini sociali naturali – senza stato – gerarchicamente strutturati. I re sono i capi di famiglie estese, di clan, tribù, e nazioni. A loro fa capo una gran quantità di autorità naturale e volontariamente riconosciuta, ereditata ed accumulata in molte generazioni. È nel quadro di tali ordini (e delle repubbliche aristocratiche) che il liberalismo si è sviluppato ed ha fiorito in primo luogo. In contrasto, le democrazie sono di stampo egalitario e redistribuzionista; da cui lo sviluppo sopra menzionato del potere dello stato nel ventesimo secolo. Tipicamente, la transizione dall'era monarchica a quella democratica, cominciata nella seconda metà del diciannovesimo secolo, ha visto un declino continuo nella resistenza dei partiti liberali ed un rinforzo corrispondente dei socialisti di ogni tipo.
Terzo, ne consegue che l'opinione che i teorici della pace democratica hanno delle conflagrazioni come la Prima Guerra Mondiale dev'essere considerata grottesca, almeno dal punto di vista di qualcuno che si presume stimi la libertà. Per loro, questa guerra era essenzialmente una guerra della democrazia contro la dittatura; quindi, poiché aumentò il numero delle democrazie, fu una guerra progressiva, pacificatrice, e quindi giustificata.
In realtà, la questione è molto diversa. Certamente, la Germania e l'Austria prebelliche potevano non qualificarsi al tempo democratiche quanto l'Inghilterra, la Francia, o gli Stati Uniti. Ma la Germania e l'Austria definitivamente non erano dittature. Erano monarchie (sempre più fiacche) e come tali indiscutibilmente liberali come – se non di più – delle loro controparti. Per esempio, negli Stati Uniti, i pacifisti furono imprigionati, la lingua tedesca essenzialmente messa fuorilegge, ed i cittadini di discendenza tedesca aggrediti apertamente e spesso costretti a cambiare i loro nomi. Niente di paragonabile accadde in Austria ed in Germania.
In ogni caso, tuttavia, il risultato della crociata per rendere il mondo sicuro per la democrazia fu meno liberale di ciò che era esistito prima (ed il trattato di pace di Versailles lo fece precipitare nella Seconda Guerra Mondiale). Non solo il potere dello stato si sviluppò più velocemente dopo la guerra rispetto a prima. In particolare, il trattamento delle minoranze si è deteriorato nel periodo democratizzato del dopoguerra. Nella Cecoslovacchia recentemente fondata, per esempio, i tedeschi vennero maltrattati sistematicamente (fino ad essere espulsi a milioni e macellati a decine di migliaia dopo la Seconda Guerra Mondiale) dalla maggioranza di Cechi. Niente di nemmeno lontanamente paragonabile era accaduto ai Cechi durante il precedente regno degli Asburgo. La situazione per quanto riguarda i rapporti fra i tedeschi e gli slavi del sud nell'Austria prebellica rispetto alla Yugoslavia del dopoguerra fu simile.
Né si trattò di un caso. Come sotto la monarchia asburgica in Austria, per esempio, le minoranze erano state trattate ragionevolmente bene anche sotto gli ottomani. Tuttavia, quando l'impero ottomano multi-culturale si disintegrò nel corso del diciannovesimo secolo e fu sostituito da stati-nazione semi-democratici quali la Grecia, la Bulgaria, ecc., i musulmani ottomani presenti vennero espulsi o sterminati. Similmente, dopo che la democrazia ebbe trionfato negli Stati Uniti con la conquista militare della Confederazione del Sud, il governo dell'Unione procedette rapidamente allo sterminio degli indiani dei Plains. Come Mises aveva riconosciuto, la democrazia non funziona nelle società multi-etniche. Non genera la pace ma promuove il conflitto ed ha tende potenzialmente al genocidio.
Quarto e intimamente correlato, i teorici della pace democratica sostengono che la democrazia rappresenti un “equilibrio stabile.” Questo è stato espresso chiaramente da Francis Fukuyama, che ha identificato il nuovo ordine democratico del mondo come la “fine della storia.” Tuttavia, esiste una prova schiacciante che questa pretesa è palesemente errata.
Su un piano teorico: come può la democrazia essere un equilibrio stabile se è possibile che si trasformi democraticamente in una dittatura, e quindi in un sistema considerato non stabile? Risposta: non ha senso!
Inoltre, empiricamente, le democrazie sono tutto meno che stabili. Come indicato, in società multi-culturali la democrazia conduce regolarmente alla discriminazione, all'oppressione, o persino all'espulsione e lo sterminio delle minoranze – difficilmente un pacifico equilibrio. E nelle società etnicamente omogenee, la democrazia conduce regolarmente alla lotta di classe, che conduce alla crisi economica, che conduce alla dittatura. Pensate, ad esempio, alla Russia post-zarista, all'Italia dopo la Prima Guerra Mondiale, alla Germania di Weimar, alla Spagna, al Portogallo e in periodi più recenti Grecia, Turchia, Guatemala, Argentina, Cile e Pakistan.
Non solo questa correlazione fra la democrazia e la dittatura è seccante per i teorici della pace democratica; peggio ancora, devono cimentarsi con il fatto che le dittature che emergono dalle crisi della democrazia non sono affatto sempre peggiori, da un punto di vista liberale classico o libertario, di ciò che sarebbe risultato diversamente. I casi dove le dittature furono preferibili ed un miglioramento possono essere citati facilmente. Pensate all'Italia e a Mussolini o alla Spagna e a Franco. In più, come si può far quadrare per gli stralunati difensori della democrazia il fatto che i dittatori, piuttosto diversamente dai re che devono il loro grado ad un incidente di nascita, sono spesso favoriti delle masse ed in questo senso altamente democratici? Pensate soltanto a Lenin o a Stalin, che erano certamente più democratici dello zar Nicola II; o pensate a Hitler, che era definitivamente più democratico e “un uomo del popolo” del Kaiser Guglielmo II o del Kaiser Francesco Giuseppe.
Secondo i teorici della pace democratica, allora, sembrerebbe che si debba fare la guerra contro i dittatori stranieri, siano re o demagoghi, per installare le democrazie, che quindi si trasformano in dittature (moderne), fino a che, si suppone, gli Stati Uniti stessi non si saranno trasformati in una dittatura, a causa dello sviluppo del potere interno dello stato che deriva dalle infinite “emergenze” generate dalle guerre all'estero.
Meglio, oso dire, fare attenzione al consiglio di Erik von Kuehnelt-Leddihn e, invece di mirare a rendere il mondo sicuro per la democrazia, provare a renderlo sicuro dalla democrazia – dappertutto, ma soprattutto negli Stati Uniti.
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Hans-Hermann Hoppe è professore di economia all'Università del Nevada a Las Vegas. È autore di The Economics and Ethics of Private Property. Mandagli una mail. Leggi i suoi articoli. Commenta sul blog.
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Brano eccellente.
ReplyDeleteCiao Pax, si ricomincia :-)
Blessed be