I grandi romanzi distopici del passato provarono ad avvertirci di come la rinuncia al primato dell'individuo a favore del collettivismo di stato avrebbe portato alla riduzione in semplici numeri degli esseri umani, numeri da calcolare per aggregati come nell'economia keynesiana. Ma quegli avvertimenti non sono stati ascoltati, e le nostre vite sono oggi solo un segno su qualche tabella negli istituti di statistica.
In questo articolo, publicato 50 anni fa (!) su The Quarterly Journal of Economics nel febbraio 1960, Rothbard spiega come il proliferare delle statistiche – oggi praticamente ubique – sia intimamente legato all'aumento del ruolo e dell'intervento del governo nell'economia.
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Di Murray Rothbard
Durante la sua interessante discussione su “la Politica degli Economisti Politici,” il professor Stigler sfida la presunta opinione del professor Mises per cui “la statistica economica, o più in generale l'economia quantitativa – generano una posizione politica radicale.” [1] Stigler afferma che lo studente empirico acquisisce una “vera sensibilità” per il funzionamento di un sistema economico e “ha le complessità dell'economia impresse a fuoco nella sua anima.” Senza entrare nel merito dell'opinione precisa di Mises sulla questione, penso sia importante notare come Stigler abbia trascurato diverse considerazioni fondamentali.
In primo luogo, le statistiche sono disperatamente necessarie per ogni tipo di pianificazione governativa del sistema economico. In un'economia di mercato, la singola azienda ha poco o nessun bisogno delle statistiche. Deve soltanto conoscere i suoi prezzi e costi. I costi vengono in gran parte scoperti internamente in seno alla ditta e non sono quei dati generali dell'economia che chiamiamo solitamente “statistica.”
Il mercato “automatico,” allora, non richiede virtualmente alcuna collezione di statistiche; l'intervento del governo, dall'altro lato, sia in parte che del tutto socialista, non potrebbe letteralmente far nulla senza una vasta raccolta di mucchi di statistiche. La statistica è l'unica forma di conoscenza dell'economia per il burocrate, e sostituisce la conoscenza intuitiva, “qualitativa” dell'imprenditore, guidato soltanto dal test quantitativo dei profitti e delle perdite. [2] Di conseguenza, la spinta per l'intervento governativo e quella per più statistica, sono andate di pari passo. [3]
L'enorme espansione dell'attività governativa nella raccolta e diffusione di statistiche durante gli ultimi 25 anni non è certo solo per coincidenza correlata alla simile espansione del ruolo del governo nella regolamentazione e nella manipolazione dell'economia. Uno delle principali autorità sulla crescita della spesa pubblica l'ha così descritta:
Né questa è solo una storia contemporanea. Un autorevole lavoro sul governo britannico descrive così il caso:
Sul continente ed in America alla fine del 19esimo secolo, è ben noto che i ribelli contro il laissez-faire e l'economia politica classica sollecitarono la loro sostituzione con l'induzione dalla storia economica e dalla statistica. Questo era l'obiettivo della Scuola Storica Tedesca e del suo Verein für Sozialpolitik e degli esponenti giovani e di formazione tedesca della “nuova economia politica” dell'intervento governativo negli anni 70 e 80 dell'ottocento. [6] Uno dei loro leader, Richard T. Ely, che chiamò il nuovo approccio metodo “guarda e vedi,” chiarì che lo scopo della raccolta di fatti era “modellare le forze al lavoro nella società e di migliorare le condizioni attuali”; essi credevano di avere come economisti la responsabilità di “modellare il carattere dell'economia nazionale.” [7]
E non trascuriamo l'eminente sociologo interventista Lester Frank Ward, la cui economia pianificata “scientifica” e “positiva,” sarebbe consistita di una “ingegneria sociale” basata su informazioni statistiche inserite da ogni parte del paese in un ufficio centrale di statistica. [8]
Né erano soltanto speculatori dell'astratto ad esprimere tali opinioni. Gli stessi statistici presero parte a questo movimento. Fin dal 1863, Samuel B. Ruggles, delegato americano al Congresso Statistico Internazionale a Berlino, dichiarava che “le statistiche sono gli occhi stessi dello statista, che gli permettono di esaminare ed esplorare con una visione libera e completa l'intere struttura ed economia del corpo politico.” Uno dei fondatori del Verein für Sozialpolitik era il famoso statistico Ernst Engel, capo dell'Ufficio Statistico Reale di Prussia. [9]
E Carrol D. Wright, uno dei primi commissari del lavoro negli Stati Uniti e uomo notevolmente influenzato da Engel, sollecitò la raccolta delle statistiche sulla disoccupazione perché voleva trovare un rimedio (presumibilmente per mezzo dell'azione governativa). Wright acclamò la nuova scuola tedesca per il suo includere uomini di ogni terra “che cercano, con mezzi legittimi e senza rivoluzioni, di migliorare rapporti industriali e sociali disagiati.” Henry Carter Adams, un allievo di Engel, che istituì l'Ufficio Statistico della Commissione di Commercio Interstatale, credeva che “una sempre crescente attività statistica da parte del governo sia essenziale non solo per il controllo delle industrie naturalmente monopolistiche, ma anche per il funzionamento efficiente della concorrenza ove possibile.” [10] E certamente uno di grandi stimoli verso la costruzione degli indici dei prezzi all'ingrosso e di altro tipo era il desiderio che il governo stabilizzasse il livello dei prezzi. [11]
Uno dei principali fondatori della moderna inchiesta statistica in economia fu sicuramente Wesley C. Mitchell. Non c'è dubbio che Mitchell aspirava a porre le basi per la pianificazione “scientifica” del governo. Così:
Ogni nuova tecnica statistica, che sia flusso di fondi, economia interindustriale, o analisi di attività, in breve acquisterà la propria posizione ed applicazione nel governo. Un esempio particolare è l'analisi input-output, che ebbe inizio come tentativo puramente teorico di fornire contenuto empirico al sistema walrasiano dell'equilibrio generale. È ora arrivata al punto in cui i suoi campioni la acclamano perché fornisce
Non so se, come afferma Stigler, “l'ala più radicale dei sostenitori del New Deal non si era distinta per la propria conoscenza empirica dell'economia americana.” Ma certamente i Tugwell e gli Stuart Chase e i vebleniani proclamarono il loro empirismo abbastanza spesso. E gli storici del New Deal, in genere, lo elogiano molto per il suo metodo elastico e pragmatico.
Un'altra ragione per la quale la statistica ed il pragmatismo politico sono reciprocamente congeniali è che lo stesso marchio di riconoscimento del metodo pragmatico è di cominciare cercando i problemi o i “settori problematici” nella società. Il pragmatista cerca le zone dove l'economia e la società non sono esattamente un giardino dell'Eden e queste, naturalmente, abbondano. Povertà, disoccupazione, anziani con scorbuto, giovani con denti cariati – la lista è effettivamente infinita. E mentre ogni problema si moltiplica sotto le cure della sua volenterosa ricerca, il pragmatista esige in maniera sempre più stridula che il governo faccia qualcosa – rapidamente – per risolvere il problema. Soltanto una severa e deduttiva teoria economica aprioristica può insegnargli qualcosa su mezzi e fini, sulla destinazione delle risorse, sul costo di opportunità e sulle altre rigidità della disciplina economica.
Tenendo conto degli argomenti di cui sopra, non meraviglia che i membri conservatori del Congresso, prima che venissero indottrinati nelle moderne delicatezze economiche dal Comitato Misto sul Rapporto Economico, sospettavano molto dell'espansione apparentemente inoffensiva delle attività statistiche federali. Quindi, nel 1945, il rappresentante Frank Keefe, membro repubblicano conservatore del Congresso dal Wisconsin, procedeva all'interrogazione del dott. A. Ford Hinrichs, capo dell'Ufficio delle Statistiche del Lavoro, sulla richiesta di quest'ultimo di un aumento di stanziamenti. Nel corso dell'interrogazione, i dubbi di Keefe circa le statistiche di governo emersero come un grido dal suo cuore – non sofisticato forse, ma almeno di sano istinto conservatore:
Eppure, alla fine, è probabilmente vero che persino la percentuale di chi crede nel laissez-faire è molto maggiore fra gli economisti che in altre discipline accademiche, e che il punto “medio” sulla scala ideologica in economia è considerevolmente “sulla destra” della media in altri campi di studio. Sembra che la disciplina economica, di per sé, imponga una variazione verso destra nella fede ideologica. E questa, dopo tutto, è la questione principale dell'articolo di Stigler.
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Note
[1] George Stigler, “The Politics of Political Economists,” Quarterly Journal of Economics 73 (novembre 1959): p. 529.
[2] Sul tipo di conoscenza richiesto per un imprenditore nell'economia di mercato, vedi F.A. Hayek, Individualism and the Economic Order (Chicago: University of Chicago Press, 1948), chaps. 4 and 2.
[3] A questo proposito, possiamo notare la distinzione del professor Hutchison fra l'accento di Carl Menger sui fenomeni della società benefici, non pianificati, “non riflettuti” (che, naturalmente, comprendono il mercato libero) e sulla crescita della “auto-coscienza sociale” e della pianificazione di governo. Per Hutchison, una componente prominente della “auto-coscienza sociale” è la statistica sociale ed economica. Terence W. Hutchison, A Review of Economic Doctrines, 1870–1929 (Oxford: Clarendon Press, 1953), pp. 150–51, 427.
[4] Solomon Fabricant, The Trend of Government Activity in the United States since 1900 (Princeton, N.J.: National Bureau of Economic Research, 1952), p. 143.
[5] Moses Abramovitz e Vera F. Eliasberg, The Growth of Public Employment in Great Britain (Princeton, N.J.: National Bureau of Economic Research, 1957), pp. 22–23, 30.
[6] Quindi, la nuova scuola “trovò inadeguato per i suoi scopi il metodo di ragionamento deduttivo. Sostenne il metodo induttivo…. Rifiutato tutti i principi a priori e si rivolse alla storia ed alle statistiche per fornire i fatti di vita economica. Con le informazioni così ottenute, i giovani economisti si avvicinarono ai problemi economici con uno spirito pragmatico, giudicando ogni caso nei suoi diversi meriti. In questo modo, cercarono di impedire alla scienza economica di degenerare in alcune formule astratte, divorziate dalle realtà del tempo.” Sidney Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1956), p. 204. Vedi inoltre i principi della nuova scuola presentati da Joseph Dorfman in “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” American Economic Review, Papers and Proceedings 45 (May 1955): p. 21.
[7] Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State, p. 207. Potremmo aggiungere che l'economista francese del laissez-faire Maurice Block attaccò la scuola storica tedesca ed i suoi seguaci come “empirici” che cercavano di sostituire il principio con il sentimento e che sostenevano che “lo stato… dovrebbe condurre tutto, dirigere tutto, decidere tutto.” Dorfman, “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 20. E recentemente il professor Hildebrand ha commentato, sull'enfasi induttiva della scuola tedesca, che “forse c'è, allora, un certo collegamento fra questo genere di insegnamento e la popolarità delle idee grezze della pianificazione territoriale nei periodi più recenti.” George H. Hildebrand, "International Flow of Economic Ideas — Discussion," American Economic Review, Papers and Proceedings 45 (May 1955): p. 37. Vedi inoltre di F.A. Hayek, “History and Politics,” in Capitalism and the Historians, F.A. Hayek, ed. (Chicago: University of Chicago Press, 1954), p. 23.
[8] Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State, p. 258.
[9] “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 18.
[10] Joseph Dorfman, The Economic Mind in American Civilization (New York: Viking Press, 1949), 3, pp. 172, 123. Dorfman nota che il sistema contabile dell'Ufficio inventato da Adams “è servito da modello per la regolamentazione delle utilità pubbliche qui e nel mondo intero.” Dorfman, “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 23. Potremmo anche aggiungere che il primo professore di statistica negli Stati Uniti, Roland P. Falkner, era un allievo devoto di Engel e un traduttore dei testi dell'assistente di Engel, August Meitzen.
[11] “Uno di più grandi ostacoli che allora ostacolavano la stabilizzazione era l'idea prevalente che gli indici numerici non fossero affidabili. Finché questa difficoltà non avesse potuto essere superata, difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare che la stabilizzazione si trasformasse in una realtà. Per fare la mia parte nella soluzione di questo problema, ho scritto The Making of Index Numbers.” Irving Fisher, Stabilized Money (London: George Allen and Unwin, 1935), p. 383.
[12] Joseph Dorfman, The Economic Mind in American Civilization (New York: Viking Press, 1949), 4, pp. 376, 361.
[13] Lucy Sprague Mitchell, Two Lives (New York: Simon e Schuster, 1953), p. 363. Corsivo mio.
[14] Dichiarazione dell'Ufficio del Budget, in Economic Statistics, Udienze di Fronte al Sottocomitato sulle Statistiche Economiche del Comitato Misto per il Rapporto Economico, ottantatreesimo Cong., 2d sess., 12 luglio 1954 (Washington, DC: Ufficio per la Stampa degli Stati Uniti, 1954), pp. 10-12.
[15] Ibid.
[16] Raymond W. Goldsmith, “Introduction,” in Input–Output Analysis, An Appraisal (Princeton, NJ.: National Bureau of Economic Research, 1955), p. 5. Come affermano Hoffenberg ed Evans: “È a causa della necessità di fare un lavoro migliore nell'analisi della mobilizzazione industriale… che sono in corso la maggior parte degli attuali sviluppi nel campo dell'economia interindustriale.” W. Duane Evans e Marvin Hoffenberg, "The Nature and Uses of Interindustry-Relations: Data and Methods," ibid., p. 102. Inoltre vedi ibid., pp. 116ff e le critiche dell'analisi input/output di Clark Warburton e Milton Friedman, ibid., pp. 127, 174.
Un altro esempio dell'analisi input/output come stimolo per la raccolta di statistiche e la pianificazione di governo: “mentre ci può essere un pensiero sistematico fra gli economisti sull'analisi economica applicata a regioni, essi possono offrire pochi consigli ai politici a meno che gli ultimi siano preparati a rendere più facile l'ottenere la materia prima statistica” A.T. Peacock e D.G.M. Dosser, "Regional Input–Output Analysis and Government Spending," Scottish Journal of Political Economy (novembre 1959): p. 236.
[17] Ministero del Lavoro - Legge di Stanziamento FSA per il 1945. Udienze di fronte al Sottocomitato del Comitato della Camera sugli Stanziamenti. settantottesimo Cong., 2d sess., pt. 1 (Washington, DC: Ufficio per la Stampa degli Stati Uniti, 1945), pp. 258ff, 276ff.
[18] Ci sono inoltre profondi motivi epistemologici per l'empirismo nelle “scienze sociali” che tendono verso lo statalismo. Questo coinvolge l'intero problema del positivismo e dello “scientismo.” Su questo, vedi F.A. Hayek, The Counter-Revolution of Science (Glencoe, ifi.: The Free Press, 1952).
In questo articolo, publicato 50 anni fa (!) su The Quarterly Journal of Economics nel febbraio 1960, Rothbard spiega come il proliferare delle statistiche – oggi praticamente ubique – sia intimamente legato all'aumento del ruolo e dell'intervento del governo nell'economia.
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Di Murray Rothbard
Durante la sua interessante discussione su “la Politica degli Economisti Politici,” il professor Stigler sfida la presunta opinione del professor Mises per cui “la statistica economica, o più in generale l'economia quantitativa – generano una posizione politica radicale.” [1] Stigler afferma che lo studente empirico acquisisce una “vera sensibilità” per il funzionamento di un sistema economico e “ha le complessità dell'economia impresse a fuoco nella sua anima.” Senza entrare nel merito dell'opinione precisa di Mises sulla questione, penso sia importante notare come Stigler abbia trascurato diverse considerazioni fondamentali.
In primo luogo, le statistiche sono disperatamente necessarie per ogni tipo di pianificazione governativa del sistema economico. In un'economia di mercato, la singola azienda ha poco o nessun bisogno delle statistiche. Deve soltanto conoscere i suoi prezzi e costi. I costi vengono in gran parte scoperti internamente in seno alla ditta e non sono quei dati generali dell'economia che chiamiamo solitamente “statistica.”
Il mercato “automatico,” allora, non richiede virtualmente alcuna collezione di statistiche; l'intervento del governo, dall'altro lato, sia in parte che del tutto socialista, non potrebbe letteralmente far nulla senza una vasta raccolta di mucchi di statistiche. La statistica è l'unica forma di conoscenza dell'economia per il burocrate, e sostituisce la conoscenza intuitiva, “qualitativa” dell'imprenditore, guidato soltanto dal test quantitativo dei profitti e delle perdite. [2] Di conseguenza, la spinta per l'intervento governativo e quella per più statistica, sono andate di pari passo. [3]
L'enorme espansione dell'attività governativa nella raccolta e diffusione di statistiche durante gli ultimi 25 anni non è certo solo per coincidenza correlata alla simile espansione del ruolo del governo nella regolamentazione e nella manipolazione dell'economia. Uno delle principali autorità sulla crescita della spesa pubblica l'ha così descritta:
Il progresso nella scienza economica e statistica ha migliorato la nostra conoscenza delle differenze nei bisogni e nelle potenzialità all'interno degli stati e da uno stato all'altro, e può contribuire a stimolare il sistema delle sovvenzioni statali e federali. Ha rinforzato la fiducia nelle possibilità di occuparsi dei problemi sociali tramite l'azione collettiva. Ha portato ad un aumento nelle attività statistiche e di indagine del governo. [4]Non dobbiamo qui entrare nel dettaglio del vasto uso che è stato fatto delle statistiche sul reddito nazionale e sul prodotto interno lordo, così come di altre misure statistiche, nei tentativi del governo federale di lottare contro i cicli economici o la disoccupazione.
Né questa è solo una storia contemporanea. Un autorevole lavoro sul governo britannico descrive così il caso:
il ruolo minore del governo durante il diciannovesimo secolo non riflette solo l'assenza di una disgregazione economica violenta; riflette anche l'infanzia delle scienze economiche e sociali. Rispetto agli ultimi decenni, il volume di informazione sistematica sulle condizioni sociali era molto piccolo, il che significava che era difficile stabilire in modo persuasivo l'esistenza di problemi…. Se il volume della disoccupazione è sconosciuto, la gravità del problema è in dubbio.Certamente il ruolo degli assidui studi empirici della Fabian Society nella promozione della causa del socialismo in Gran Bretagna è fin troppo nota per approfondirla in questa sede.
L'accumulazione di informazioni effettive sulle condizioni sociali e lo sviluppo dell'economia e delle scienze sociali hanno aumentato la pressione per l'intervento del governo…. Inchieste come Life and Labor of the People in London di Charles Booth rivelarono condizioni che scossero l'opinione pubblica verso la fine degli anni 80 e degli anni 90. Con il miglioramento delle statistiche ed il moltiplicarsi degli studenti delle condizioni sociali, la continua esistenza di tali condizioni rimase visibile al pubblico. La crescente conoscenza di esse ridestò cerchie influenti e fornì ai movimenti della classe operaia delle armi efficaci. [5]
Sul continente ed in America alla fine del 19esimo secolo, è ben noto che i ribelli contro il laissez-faire e l'economia politica classica sollecitarono la loro sostituzione con l'induzione dalla storia economica e dalla statistica. Questo era l'obiettivo della Scuola Storica Tedesca e del suo Verein für Sozialpolitik e degli esponenti giovani e di formazione tedesca della “nuova economia politica” dell'intervento governativo negli anni 70 e 80 dell'ottocento. [6] Uno dei loro leader, Richard T. Ely, che chiamò il nuovo approccio metodo “guarda e vedi,” chiarì che lo scopo della raccolta di fatti era “modellare le forze al lavoro nella società e di migliorare le condizioni attuali”; essi credevano di avere come economisti la responsabilità di “modellare il carattere dell'economia nazionale.” [7]
E non trascuriamo l'eminente sociologo interventista Lester Frank Ward, la cui economia pianificata “scientifica” e “positiva,” sarebbe consistita di una “ingegneria sociale” basata su informazioni statistiche inserite da ogni parte del paese in un ufficio centrale di statistica. [8]
Né erano soltanto speculatori dell'astratto ad esprimere tali opinioni. Gli stessi statistici presero parte a questo movimento. Fin dal 1863, Samuel B. Ruggles, delegato americano al Congresso Statistico Internazionale a Berlino, dichiarava che “le statistiche sono gli occhi stessi dello statista, che gli permettono di esaminare ed esplorare con una visione libera e completa l'intere struttura ed economia del corpo politico.” Uno dei fondatori del Verein für Sozialpolitik era il famoso statistico Ernst Engel, capo dell'Ufficio Statistico Reale di Prussia. [9]
E Carrol D. Wright, uno dei primi commissari del lavoro negli Stati Uniti e uomo notevolmente influenzato da Engel, sollecitò la raccolta delle statistiche sulla disoccupazione perché voleva trovare un rimedio (presumibilmente per mezzo dell'azione governativa). Wright acclamò la nuova scuola tedesca per il suo includere uomini di ogni terra “che cercano, con mezzi legittimi e senza rivoluzioni, di migliorare rapporti industriali e sociali disagiati.” Henry Carter Adams, un allievo di Engel, che istituì l'Ufficio Statistico della Commissione di Commercio Interstatale, credeva che “una sempre crescente attività statistica da parte del governo sia essenziale non solo per il controllo delle industrie naturalmente monopolistiche, ma anche per il funzionamento efficiente della concorrenza ove possibile.” [10] E certamente uno di grandi stimoli verso la costruzione degli indici dei prezzi all'ingrosso e di altro tipo era il desiderio che il governo stabilizzasse il livello dei prezzi. [11]
Uno dei principali fondatori della moderna inchiesta statistica in economia fu sicuramente Wesley C. Mitchell. Non c'è dubbio che Mitchell aspirava a porre le basi per la pianificazione “scientifica” del governo. Così:
[Citando da Mitchell] “il tipo di invenzione sociale più necessario oggi è chiaramente quello che offre tecniche definite con cui il sistema sociale possa essere controllato e manovrato per il vantaggio ottimale dei suoi membri.” A questo scopo [Mitchell] cercò costantemente di estendere, migliorare e raffinare la raccolta e la compilazione dei dati…. Mitchell credeva che l'analisi del ciclo economico… avrebbe potuto indicare il mezzo per il successo dell'ordinato controllo sociale dell'attività economica. [12]E:
[Mitchell] vedeva il grande contributo che il governo avrebbe potuto dare alla comprensione dei problemi economici e sociali se i dati statistici raccolti indipendentemente da vari enti federali fossero stati sistematizzati e pianificati in modo che le correlazioni fra essi potessero essere studiate. L'idea di sviluppare la statistica sociale, non soltanto come registro ma come base per la pianificazione, emerse presto nel suo lavoro. [13]Il resoconto dell'aumento degli enti statistici del governo federale differisce poco dagli esempi di cui sopra. L'Ufficio del Budget, durante l'amministrazione non rabbiosamente socialista del presidente Eisenhower, spiegava il continuo aumento delle statistiche federali come segue:
La crescita e la prosperità della nazione hanno richiesto un comportamento illuminato degli affari pubblici con l'aiuto di informazioni fattuali. La responsabilità ultima del governo federale nell'assicurare la salute dell'economia nazionale è stata sempre implicita nel sistema americano. [14]Quindi, parlando dell'era del New Deal dopo il 1933, l'ufficio aggiunse:
Si cominciò a comprendere nel congresso e nelle alte cerchie dell'amministrazione che proposte sane e positive per combattere la depressione avevano richiesto un'analisi basata su informazioni certe. Di conseguenza… l'espansione statistica venne ripresa ad un passo accelerato. [15]È sufficiente allora dire che una causa principale della proliferazione delle statistiche governative è il bisogno di dati statistici nella pianificazione economica di governo. Ma il rapporto funziona anche al contrario: lo sviluppo delle statistiche, spesso aumentate in origine nel loro stesso interesse, finisce per moltiplicare le vie di intervento del governo e della pianificazione. In breve, le statistiche non hanno bisogno di essere elaborate originariamente per fini politico-economici; il loro stesso sviluppo autonomo, direttamente o indirettamente, apre nuovi campi da sfruttare per gli interventisti.
Ogni nuova tecnica statistica, che sia flusso di fondi, economia interindustriale, o analisi di attività, in breve acquisterà la propria posizione ed applicazione nel governo. Un esempio particolare è l'analisi input-output, che ebbe inizio come tentativo puramente teorico di fornire contenuto empirico al sistema walrasiano dell'equilibrio generale. È ora arrivata al punto in cui i suoi campioni la acclamano perché fornisce
un'immagine integrata del meccanismo industriale. Credono che possa misurare con buona esattezza i cambiamenti nei rapporti interindustriali che seguirebbero a presupposte variazioni “nel conto finale delle merci…” In pratica, la variazione più importante nel conto delle merci è quello richiesto dal riarmo su grande scala. Non provoca molto stupore, quindi, che la maggior parte dello sviluppo e dell'applicazione degli studi dell'input-output è stata collegata con la mobilizzazione industriale. [16]Ci sono altre ragioni per le quali l'orientato statisticamente tenderà a diventare interventista. Per prima cosa, lo statistico economico tenderà ad essere insofferente verso ogni teoria considerandole “speculazioni da poltrona,” e quindi tenderà a sostenere il tipo di pianificazione governativa graduale, pragmatica, decidi-ogni-caso-nel-“merito.” È forse vero, come dichiara Stigler, che pochi economisti empirici sono diventati autentici socialisti o comunisti; un tale percorso sarebbe troppo teorico per loro. Ma nemmeno sono diventati aderenti del laissez-faire; invece, il metodo caso-per-caso e ad hoc li guida lungo il percorso di un confuso interventismo governativo.
Non so se, come afferma Stigler, “l'ala più radicale dei sostenitori del New Deal non si era distinta per la propria conoscenza empirica dell'economia americana.” Ma certamente i Tugwell e gli Stuart Chase e i vebleniani proclamarono il loro empirismo abbastanza spesso. E gli storici del New Deal, in genere, lo elogiano molto per il suo metodo elastico e pragmatico.
Un'altra ragione per la quale la statistica ed il pragmatismo politico sono reciprocamente congeniali è che lo stesso marchio di riconoscimento del metodo pragmatico è di cominciare cercando i problemi o i “settori problematici” nella società. Il pragmatista cerca le zone dove l'economia e la società non sono esattamente un giardino dell'Eden e queste, naturalmente, abbondano. Povertà, disoccupazione, anziani con scorbuto, giovani con denti cariati – la lista è effettivamente infinita. E mentre ogni problema si moltiplica sotto le cure della sua volenterosa ricerca, il pragmatista esige in maniera sempre più stridula che il governo faccia qualcosa – rapidamente – per risolvere il problema. Soltanto una severa e deduttiva teoria economica aprioristica può insegnargli qualcosa su mezzi e fini, sulla destinazione delle risorse, sul costo di opportunità e sulle altre rigidità della disciplina economica.
Tenendo conto degli argomenti di cui sopra, non meraviglia che i membri conservatori del Congresso, prima che venissero indottrinati nelle moderne delicatezze economiche dal Comitato Misto sul Rapporto Economico, sospettavano molto dell'espansione apparentemente inoffensiva delle attività statistiche federali. Quindi, nel 1945, il rappresentante Frank Keefe, membro repubblicano conservatore del Congresso dal Wisconsin, procedeva all'interrogazione del dott. A. Ford Hinrichs, capo dell'Ufficio delle Statistiche del Lavoro, sulla richiesta di quest'ultimo di un aumento di stanziamenti. Nel corso dell'interrogazione, i dubbi di Keefe circa le statistiche di governo emersero come un grido dal suo cuore – non sofisticato forse, ma almeno di sano istinto conservatore:
Non c'è dubbio che sarebbe bello avere un sacco di statistiche…. Mi sto solo chiedendo se non ci stiamo imbarcando in un programma pericoloso continuando ad aggiungere ed aggiungere ed aggiungere a questa cosa.Penso che possiamo concludere che la principale differenza fra Stigler e me è questa: per lui un radicale o un non conservatore è essenzialmente un socialista o un comunista. Per me, un non conservatore è qualcuno che predica l'intervento piuttosto che il laissez-faire. La differenza è sostanziale. Se definiamo il conservatorismo come Stigler, allora è vero che la maggior parte degli economisti sono conservatori; se lo definiamo come credere nel laissez-faire, allora la conclusione dev'essere molto diversa. Perché la chiave allora diventa non tanto l'economia e la non economia quanto teoria contro empirismo. Gli empirici tenderanno meno ad essere socialisti completi, ma anch'essi seguiranno generalmente una deriva verso l'intervento. [18]
Stiamo pianificando e raccogliendo statistiche fin dal 1932 per provare ad affrontare una situazione di carattere interno, ma non siamo mai stati in grado nemmeno di affrontare quella questione…. Ora siamo coinvolti in una questione internazionale…. A me pare che stiamo passando una quantità tremenda di tempo con i grafici e le tabelle e le statistiche e la pianificazione. Quello che interessa alla mia gente è, cos'è tutto ciò? Dove stiamo andando e dove state andando? [17]
Eppure, alla fine, è probabilmente vero che persino la percentuale di chi crede nel laissez-faire è molto maggiore fra gli economisti che in altre discipline accademiche, e che il punto “medio” sulla scala ideologica in economia è considerevolmente “sulla destra” della media in altri campi di studio. Sembra che la disciplina economica, di per sé, imponga una variazione verso destra nella fede ideologica. E questa, dopo tutto, è la questione principale dell'articolo di Stigler.
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Note
[1] George Stigler, “The Politics of Political Economists,” Quarterly Journal of Economics 73 (novembre 1959): p. 529.
[2] Sul tipo di conoscenza richiesto per un imprenditore nell'economia di mercato, vedi F.A. Hayek, Individualism and the Economic Order (Chicago: University of Chicago Press, 1948), chaps. 4 and 2.
[3] A questo proposito, possiamo notare la distinzione del professor Hutchison fra l'accento di Carl Menger sui fenomeni della società benefici, non pianificati, “non riflettuti” (che, naturalmente, comprendono il mercato libero) e sulla crescita della “auto-coscienza sociale” e della pianificazione di governo. Per Hutchison, una componente prominente della “auto-coscienza sociale” è la statistica sociale ed economica. Terence W. Hutchison, A Review of Economic Doctrines, 1870–1929 (Oxford: Clarendon Press, 1953), pp. 150–51, 427.
[4] Solomon Fabricant, The Trend of Government Activity in the United States since 1900 (Princeton, N.J.: National Bureau of Economic Research, 1952), p. 143.
[5] Moses Abramovitz e Vera F. Eliasberg, The Growth of Public Employment in Great Britain (Princeton, N.J.: National Bureau of Economic Research, 1957), pp. 22–23, 30.
[6] Quindi, la nuova scuola “trovò inadeguato per i suoi scopi il metodo di ragionamento deduttivo. Sostenne il metodo induttivo…. Rifiutato tutti i principi a priori e si rivolse alla storia ed alle statistiche per fornire i fatti di vita economica. Con le informazioni così ottenute, i giovani economisti si avvicinarono ai problemi economici con uno spirito pragmatico, giudicando ogni caso nei suoi diversi meriti. In questo modo, cercarono di impedire alla scienza economica di degenerare in alcune formule astratte, divorziate dalle realtà del tempo.” Sidney Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1956), p. 204. Vedi inoltre i principi della nuova scuola presentati da Joseph Dorfman in “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” American Economic Review, Papers and Proceedings 45 (May 1955): p. 21.
[7] Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State, p. 207. Potremmo aggiungere che l'economista francese del laissez-faire Maurice Block attaccò la scuola storica tedesca ed i suoi seguaci come “empirici” che cercavano di sostituire il principio con il sentimento e che sostenevano che “lo stato… dovrebbe condurre tutto, dirigere tutto, decidere tutto.” Dorfman, “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 20. E recentemente il professor Hildebrand ha commentato, sull'enfasi induttiva della scuola tedesca, che “forse c'è, allora, un certo collegamento fra questo genere di insegnamento e la popolarità delle idee grezze della pianificazione territoriale nei periodi più recenti.” George H. Hildebrand, "International Flow of Economic Ideas — Discussion," American Economic Review, Papers and Proceedings 45 (May 1955): p. 37. Vedi inoltre di F.A. Hayek, “History and Politics,” in Capitalism and the Historians, F.A. Hayek, ed. (Chicago: University of Chicago Press, 1954), p. 23.
[8] Fine, Laissez-Faire and the General-Welfare State, p. 258.
[9] “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 18.
[10] Joseph Dorfman, The Economic Mind in American Civilization (New York: Viking Press, 1949), 3, pp. 172, 123. Dorfman nota che il sistema contabile dell'Ufficio inventato da Adams “è servito da modello per la regolamentazione delle utilità pubbliche qui e nel mondo intero.” Dorfman, “The Role of the German Historical School in American Economic Thought,” p. 23. Potremmo anche aggiungere che il primo professore di statistica negli Stati Uniti, Roland P. Falkner, era un allievo devoto di Engel e un traduttore dei testi dell'assistente di Engel, August Meitzen.
[11] “Uno di più grandi ostacoli che allora ostacolavano la stabilizzazione era l'idea prevalente che gli indici numerici non fossero affidabili. Finché questa difficoltà non avesse potuto essere superata, difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare che la stabilizzazione si trasformasse in una realtà. Per fare la mia parte nella soluzione di questo problema, ho scritto The Making of Index Numbers.” Irving Fisher, Stabilized Money (London: George Allen and Unwin, 1935), p. 383.
[12] Joseph Dorfman, The Economic Mind in American Civilization (New York: Viking Press, 1949), 4, pp. 376, 361.
[13] Lucy Sprague Mitchell, Two Lives (New York: Simon e Schuster, 1953), p. 363. Corsivo mio.
[14] Dichiarazione dell'Ufficio del Budget, in Economic Statistics, Udienze di Fronte al Sottocomitato sulle Statistiche Economiche del Comitato Misto per il Rapporto Economico, ottantatreesimo Cong., 2d sess., 12 luglio 1954 (Washington, DC: Ufficio per la Stampa degli Stati Uniti, 1954), pp. 10-12.
[15] Ibid.
[16] Raymond W. Goldsmith, “Introduction,” in Input–Output Analysis, An Appraisal (Princeton, NJ.: National Bureau of Economic Research, 1955), p. 5. Come affermano Hoffenberg ed Evans: “È a causa della necessità di fare un lavoro migliore nell'analisi della mobilizzazione industriale… che sono in corso la maggior parte degli attuali sviluppi nel campo dell'economia interindustriale.” W. Duane Evans e Marvin Hoffenberg, "The Nature and Uses of Interindustry-Relations: Data and Methods," ibid., p. 102. Inoltre vedi ibid., pp. 116ff e le critiche dell'analisi input/output di Clark Warburton e Milton Friedman, ibid., pp. 127, 174.
Un altro esempio dell'analisi input/output come stimolo per la raccolta di statistiche e la pianificazione di governo: “mentre ci può essere un pensiero sistematico fra gli economisti sull'analisi economica applicata a regioni, essi possono offrire pochi consigli ai politici a meno che gli ultimi siano preparati a rendere più facile l'ottenere la materia prima statistica” A.T. Peacock e D.G.M. Dosser, "Regional Input–Output Analysis and Government Spending," Scottish Journal of Political Economy (novembre 1959): p. 236.
[17] Ministero del Lavoro - Legge di Stanziamento FSA per il 1945. Udienze di fronte al Sottocomitato del Comitato della Camera sugli Stanziamenti. settantottesimo Cong., 2d sess., pt. 1 (Washington, DC: Ufficio per la Stampa degli Stati Uniti, 1945), pp. 258ff, 276ff.
[18] Ci sono inoltre profondi motivi epistemologici per l'empirismo nelle “scienze sociali” che tendono verso lo statalismo. Questo coinvolge l'intero problema del positivismo e dello “scientismo.” Su questo, vedi F.A. Hayek, The Counter-Revolution of Science (Glencoe, ifi.: The Free Press, 1952).